Categorie
I miei articoli Le droghe Rassegna Stampa

Terapia del dolore, la meta è ancora lontana

Dalla rubrica di fuoriluogo sul Manifesto del 23 settembre 2009.

Alla ripresa dell’attività parlamentare, la Camera dei deputati ha approvato all’unanimità una proposta di legge per garantire l’accesso alle cure palliative e alle terapie del dolore, attraverso una rete di presidi (hospice) e di interventi sul territorio. Sono inoltre previste norme per facilitare la prescrizione di oppiacei e di farmaci contenenti il principio attivo della cannabis, attraverso l’inserimento di un nuovo cannabinoide nella apposita tabella della legge antidroga. Il provvedimento è insufficiente, scarsamente finanziato e poco chiaro; per di più, deve ancora passare all’esame del Senato. Dunque, non sappiamo ancora se l’Italia riuscirà a superare il gap che la inchioda al ruolo di fanalino di coda, in Europa e nel mondo, su un tema delicato che concerne la qualità della vita per tanti malati, non solo terminali; per molti, la possibilità di morire in dignità. Da tempo la Oms denuncia il diffuso sottoutilizzo della morfina e il consumo pro capite di questo oppiaceo è addirittura previsto come uno degli indicatori di qualità delle cure mediche. Per dare un’idea della gravità del problema: in Italia si somministrano 46 dosi medie quotidiane di morfina contro le 1462 della Francia e le 6340 della Danimarca.

Va ricordato che già altre leggi sono stati varate per favorire l’uso dei farmaci antidolore. Nel 2001, l’allora ministro della sanità Umberto Veronesi modificò le disposizioni della legge antidroga ( Dpr 309 del 1990) che rendevano praticamente impossibile l’uso degli analgesici oppiacei, per le complicazioni burocratiche e i rischi di sanzioni che spaventavano i medici. La legge Veronesi incoraggiava la cura del dolore anche a casa e per altre patologie oltre il cancro.

Qual è allora il motivo del ritardo? Alla radice, ci sono ragioni culturali e pregiudizi ideologici. Incide la cultura della classe medica poco attenta alla sofferenza dei malati e troppo sensibile alla propaganda antidroga: molti medici si trincerano dietro lo schermo della “dipendenza patologica” che questi farmaci potrebbero procurare ai malati; o peggio, dietro il pericolo di “normalizzare” sostanze proibite.

Che le resistenze siano difficili da smontare è testimoniato dalle parole in aula dell’on. Paola Binetti, secondo cui “un ulteriore rischio da evitare è quello che l’uso degli oppioidi nella terapia del dolore possa diventare un modo surrettizio di liberalizzare l’uso delle droghe, prescritte inizialmente a scopo analgesico (sic!).

Ancora una volta, si tocca con mano il conflitto fra la “guerra alla droga” e la tutela della salute. Ciò vale per gli oppiacei, ma anche e soprattutto per la cannabis. La Oms, nel 2002, chiese che la versione sintetica del Thc (dronabinolo) fosse inserita nella tabella IV della Convenzione Onu del 1971 sulle droghe, riconoscendone appieno l’utilità medica. Stava alla Commissione sulle droghe narcotiche (Cnd), l’organo che governa il regime di proibizione internazionale, dare l’ assenso. La richiesta rimase sepolta in un cassetto per anni. Sarebbe stato imbarazzante parlare delle proprietà terapeutiche del Thc proprio mentre l’agenzia antidroga dell’Onu lanciava la nuova campagna contro i rischi “pesanti” della canapa. In Italia, la legge Fini Giovanardi ha classificato la cannabis fra le sostanze più nocive. Nel dibattito, alcuni dei suoi sostenitori parlarono di fine del “mito” della canapa medica. Dietro la propaganda tuttavia, la stessa legge inseriva un cannabinoide nella tabella delle sostanze terapeutiche. Il provvedimento approvato alla Camera ne aggiunge uno nuovo, quasi alla chetichella.

Livia Turco ha ricordato il proprio decreto ministeriale del 2007, che allargava l’applicazione terapeutica dei derivati della cannabis. Maria Antonietta Farina Coscioni ha denunciato invece le gravi limitazioni che tuttora persistono: sono autorizzati solo alcuni farmaci cannabinoidi, non tutti; per di più non sono reperibili nelle farmacie, devono essere importati, perfino a carico del paziente in alcune Asl.

Il prossimo dibattito al Senato dovrà essere l’occasione per verificare che il provvedimento aiuti davvero i malati e non si traduca in una pratica ospedalizzante. E anche per denunciare gli ostacoli che la war on drugs frappone alla scienza e al benessere dei cittadini.

Il provvedimento è scaricabile (in formato pdf).

Categorie
I miei articoli Le carceri

La protesta che smonta il piano Alfano

Articolo uscito sul Manifesto del 20 agosto 2009.

Il carcere di Firenze in questi giorni si è reso protagonista di manifestazioni vibranti per rivendicare diritti minimi alla vita e alla dignità. Sarebbe troppo sbrigativo e pericoloso parlare di rivolta, anche per non alimentare la voglia di chi vorrebbe menare le mani in nome dell’ordine e della sicurezza.
La direzione del carcere ha privilegiato la via del dialogo invece che quella dei rapporti e delle sanzioni. Ieri mattina ho partecipato a una lunga riunione con oltre trenta detenuti in rappresentanza delle sezioni del penale e soprattutto del giudiziario che è al centro della protesta per la durezza delle condizioni esistenziali.
Tutti hanno parlato, italiani e stranieri, dando una dimostrazione di solidarietà pur nella diversità di aspettative e di relazioni.
E’ stato un bagno di concretezza, attraverso la illustrazione di un catalogo di esigenze che all’osservatore esterno possono apparire banali, minime ma che nel contesto sono davvero fondamentali.
La denuncia di un pane immangiabile, di cibo scarso e scadente, dell’ora d’aria ridotta, della mancanza della doccia la domenica, dello scarso uso del campo sportivo, dei costi del sopravvitto, dell’indecenza dei materassi, della mancanza di detersivi per garantire un minimo di igiene in cella e nei bagni. Sono solo alcune delle violazioni di diritti fondamentali denunciate.
Da questo incontro è scaturita una piattaforma rivendicativa per l’applicazione del Regolamento del 2000, che doveva costituire un tassello per la realizzazione della riforma penitenziaria. Ma giace inapplicato e dimenticato nei cassetti dei sogni impossibili.
I detenuti hanno manifestato con chiarezza anche la necessità di un nuovo codice penale e soprattutto il timore di un sovraffollamento senza fine e incontrollato.
A questo proposito sanno bene il peso che una legge come quella sulle droghe comporta nell’equilibrio del carcere e hanno chiesto l’applicazione delle misure alternative per tutti e in particolare dell’affidamento speciale previsto per i tossicodipendenti. “Per avere una risposta per andare in comunità si aspetta un anno!” è stato il grido collettivo.
Un’altra questione drammatica emersa nel confronto è quella del rilascio del codice fiscale per gli stranieri; pare che dopo il decreto Maroni gli Uffici delle Agenzie delle Entrate facciano maggiori difficoltà e senza questo documento non si può accedere neppure ai lavori domestici del carcere. Per gli stranieri ciò rappresenta una vera tragedia. Anche il divieto di telefonate dirette ai cellulari invece che ai telefoni fissi è fonte di grave disagio.
In tanti abbiamo lamentato in questi anni il silenzio del carcere, ridotto a deposito di corpi abbandonati e destinati all’autolesionismo, l’unico linguaggio a disposizione degli ultimi della terra. Ora un primo fascio di luce ha illuminato questa enorme discarica sociale nelle giornate di ferragosto, grazie alla presa di parola dei prigionieri.
Occorrerà un impegno particolare da parte delle associazioni di volontariato impegnate sul carcere per rafforzare questo movimento nato dalla rivendicazione di bisogni essenziali e renderlo credibile come interlocutore dell’Amministrazione penitenziaria.
E’ bastata la richiesta del pane e dei materassi per ridicolizzare e sotterrare il piano carcere del ministro Alfano, che bussa cassa all’Unione Europea per l’edilizia penitenziaria.
Da oggi è chiaro che tutte le risorse disponibili devono essere utilizzate per migliorare le condizioni di vita quotidiana e per rispettare il principio costituzionale sul senso della pena. Non più carceri, ma meno carcere.

Franco Corleone

Categorie
Le carceri Le droghe Rassegna Stampa

Giustizia, l’Ulivo allo specchio

POLITICA O QUASI
Giustizia, l’Ulivo allo specchio

IDA DOMINIJANNI, da il Manifesto del 24 aprile 2001

Fra le cartine di tornasole che si possono scegliere per fare l’analisi chimica della stagione di governo del centrosinistra, quella della giustizia resta una delle più efficaci se non la più efficace. E non solo per il merito delle cose che sono state fatte e di quelle che non si sono fatte o non si sono potute o volute o sapute fare. Ma anche perché più di altri capitoli dell’agenda politica lascia vedere in trasparenza le condizioni peculiari in cui la XIII legislatura e i tre governi dell’Ulivo hanno lavorato. Tre in primo luogo: uno scontro ideologico aspro con il Polo, sull’alternativa fra garantismo a uso dei potenti o a tutela di tutti, e uno scontro più sotterraneo, dentro la maggioranza, fra cultura garantista e cultura panpenalista; uno scarto devastante fra il clamore mediatico sugli aspetti più eclatanti del primo scontro e la povertà di informazione sulle riforme realizzate e sul loro andamento; la crescente subalternità di tutta la politica agli umori dell’opinione pubblica, unita alla difficoltà di rapportarsi a una società troppo segnata, in materia di giustizia e sicurezze, dalle vecchie tare moraliste verso i deboli e lassiste verso i forti e dalle nuove fobie indotte dalla modernizzazione e dalla globalizzazione. Tutte condizioni che, viste a distanza di tempo, renderanno più equo di quanto non sia ora, nel bene e nel male, il giudizio sulle luci e le ombre del quinquennio dell’Ulivo, e che intanto sarebbe bene tenere presenti prima di votare, o non votare, sulla base di spinte puramente identitarie o, peggio, punitive.
Queste coordinate del contesto in cui il centrosinistra ha operato emergono lucidamente nel breve ma prezioso volumetto La giustizia come metafora (edizioni Menabò) che Franco Corleone, sottosegretario uscente alla giustizia, ha pubblicato negli stessi giorni in cui lui stesso, e con lui tutta la pattuglia dei parlamentari garantisti del centrosinistra, restavano fuori dalle candidature per il prossimo parlamento. Il volumetto assumerebbe dunque un valore alquanto noir di testamento, se la pratica che lo attraversa non facesse subito sperare in una prosecuzione extraparlamentare, per così dire, dei fatti e delle intenzioni che lo abitano. Si tratta infatti di una pratica relazionale, esplicitata non solo nella forma del dialogo-intervista di Corleone con Luca Paci, nei tre interventi di Stefano Anastasia, Sandro Margara e Eligio Resta che la commentano e nella prefazione di Piero Ignazi, ma anche nei molti riferimenti di Corleone ad altri protagonisti di una buona politica e di una buona cultura della giustizia di questi anni (Saraceni, Salvato, Senese, Cascini, Ferrajoli, Palombarini, Coiro, Rodotà, Boato, Arnao, il cardinal Martini sul versante carceri, il ministro Veronesi sul versante droghe), ad alcune associazioni che per una buona politica della giustizia non si stancano di lavorare (Antigone, il comitato per i diritti civili delle prostitute, il Forum droghe, il gruppo Abele, la redazione di Fuoriluogo), ad alcuni momenti alti del dibattito (gli Stati generali dei Ds del ’98), e infine ad alcune vittime-simbolo di una cattiva politica della giustizia (Adriano Sofri). Una tessitura di relazioni e di lavoro che la fine dell’esperienza di Corleone a Via Arenula e a Montecitorio non basteranno, oso pensare, a vanificare.
Ma il libro è trasparente anche nell’onestà del bilancio che delinea, fra fatti e omissioni, decisioni prese e insufficienze culturali non colmate, efficienza guadagnata e scelte di fondo rinviate. Corleone rivendica in primo luogo l’investimento, di risorse e di iniziativa legislativa, che sulla giustizia è stato dispiegato dal centrosinistra, dopo decenni di inerzia. All’inizio della legislatura c’era l’annunciata bancarotta della macchina giudiziaria; oggi ci sono il giudice unico di primo grado, le sezioni stralcio per l’arretrato civile, gli organici della magistratura rinsaldati, i tribunali metropolitani, la competenza penale dei giudici di pace, il giusto processo riformato, e ci sarebbe l’unità della giurisdizione se il lavoro della bicamerale non fosse stato mandato a carte quarantotto da Berlusconi. Ci sarebbero anche le riforme della responsabilità disciplinare e del giudizio di professionalità dei magistrati, se le difese corporative della magistratura, alimentate e rafforzate anch’esse da Berlusconi, fossero state meno forti. Così per quanto riguarda l’ordinamento e il funzionamento della macchina. Che non andrà mai a regime tuttavia, sottolinea Corleone e con lui Anastasia, senza quella riforma del codice penale in direzione del penale minimo che sola può lavorare a favore della certezza dei reati e della pena, nonché di quella obbligatorietà dell’azione penale di cui Berlusconi vorrebbe rapidamente disfarsi.
Poi ci sono capitoli ancora più controversi. Il carcere, prima di tutto, sul quale bisogna sempre rifare tutto il discorso da capo: tornare a dire che cosa il carcere è e che cosa non è (“un luogo orribile per sua natura e funzione, un male che pretende di curare quand’invece produce malattia, un rimedio da amministrare contrasparenza e somministrare con prudenza, il problema del cuore della città” e non il luogo della rimozione e dell’emarginazione fuori dalle mura della città), registrare che cosa si è riusciti a migliorare (il nuovo regolamento voluto da Corleone, ma decurtato di quel diritto all’affettività che non ne costituiva un particolare secondario) e che cosa resiste a ogni tentativo illuminato di riforma (leggere per credere la testimonianza di Margara, che non esita a definire genuinamente reazionarie, anche quando abitano la sinistra, queste resistenze). E poi ancora tutte le “questioni di confine” – dalla sicurezza alla legislazione sulle droghe alle questioni di bioetica all’indulto – che sono state e restano paragrafi cruciali del capitolo giustizia: le più sintomatiche di un deficit culturale della sinistra sul banco di prova decisivo della libertà, e sulle quali più necessario sarebbe stato, e non c’è stato, il coraggio di imporre alcune scelte contro il senso comune massmediatico. Si può sperare in una provad’appello: se e solo se, come scrive Eligio Resta, tra politica e cultura il confine tornerà ad essere una linea di comunicazione e non una insormontabile barriera.

?