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I miei articoli Le carceri

Caro Presidente, non sono d’accordo con lei.

Firenze, 31 marzo 2008

Caro Presidente Napolitano,
rispondo alla Sua lettera del 13 marzo e in particolare alla risposta del Consigliere Loris D’Ambrosio da Lei definita obiettiva e puntuale.
La ringrazio della sollecitudine e della cordialità manifestata insieme alla preoccupazione per la mia iniziativa del digiuno, che aveva il senso di aiutarLa a decidere se esercitare le Sue esclusive prerogative o no.
Non sarei sincero però se non Le manifestassi con chiarezza il mio dissenso nel merito.
Innanzitutto ho trovato una netta e incomprensibile cesura con la risposta sempre del Consigliere D’Ambrosio del 3 novembre 2006 alla mia missiva del 20 settembre. Allora si faceva riferimento alla necessità di aggiornamenti istruttori relativi alla pratica di grazia di Adriano Sofri indispensabili al Capo dello Stato per l’ulteriore corso della relativa procedura. Gli aggiornamenti citati, circa lo stato di salute di Sofri e l’applicazione della legge sull’indulto, erano così semplici da far ritenere, credo legittimamente, di essere alla vigilia di una positiva decisione. Cosicché non arbitrariamente potevo auspicare un atto di umanità e di riconciliazione.
Oggi invece, per motivare il sostanziale rifiuto della grazia, si cita la sentenza n. 200 del 2006 della Corte Costituzionale, secondo la quale la grazia sarebbe un istituto di natura extra ordinem destinato a far fronte a “eccezionali esigenze di natura umanitaria”, non tutelabili attraverso gli ordinari strumenti penitenziari. Mi permetto di osservare che questa e’ una visione riduttiva del potere di grazia e ritengo che le ragioni umanitarie di un atto di clemenza non possano essere ristrette alle condizioni di salute del detenuto interessato. D’altronde un potere assoluto per compiere un “atto gratuito e straordinario di generosità” non può essere limitato a una condizione di salute; altre sono le considerazioni  che giustificano un atto affidato proprio ai valori della Costituzione e che proprio nell’aderenza agli obiettivi della Carta non assume il carattere di arbitrarietà. Del resto così Ella si è determinato nella concessione di alcune grazie, quali quella a Ivan Liggi e a cinque condannati per gli attentati in Alto Adige/Sudtirol negli anni sessanta.
Questa concezione mi pare confermata dalla stessa sentenza n. 200 del 2006, che ha fatto definitiva chiarezza sul potere esclusivo del Presidente della Repubblica in tema di concessione di grazia.  La Corte Costituzionale nella sentenza citata ha ricordato come « l’esercizio del potere di grazia risponda a finalità essenzialmente umanitarie, da apprezzare in rapporto ad una serie di circostanze (non sempre astrattamente tipizzabili), inerenti alla persona del condannato o comunque involgenti apprezzamenti di carattere equitativo, idonee a giustificare l’adozione di un atto di clemenza individuale, il quale incide pur sempre sull’esecuzione di una pena validamente e definitivamente inflitta da un organo imparziale, il giudice, con le garanzie formali e sostanziali offerte dall’ordinamento del processo penale. La funzione della grazia è, dunque, in definitiva, quella di attuare i valori costituzionali, consacrati nel terzo comma dell’art. 27 Cost., garantendo soprattutto il “senso di umanità”, cui devono ispirarsi tutte le pene, e ciò anche nella prospettiva di assicurare il pieno rispetto del principio desumibile dall’art. 2 Cost., non senza trascurare il profilo di “rieducazione” proprio della pena».
Per altro lo stesso Consigliere D’Ambrosio chiarisce che nel caso di malattia gravissima in corso è prevista nell’ordinamento l’incompatibilità con la detenzione in carcere e il differimento dell’esecuzione e nel caso di una condizione di salute seria ma non patologicamente irreversibile, il magistrato di sorveglianza può decidere la prosecuzione della pena in regime di detenzione domiciliare (che non va annoverata tra le misure alternative). Si dimostra cioè che esistono strumenti assai sofisticati per risolvere ordinariamente tutti i casi in cui sia compromessa la salute del condannato. Dunque il collegamento della grazia alle problematiche di salute appare improprio.
Il caso di Adriano Sofri e’ peraltro del tutto eccezionale, come bene aveva colto il Consigliere Salvatore  Sechi quando  su incarico del Presidente della Repubblica il  9 gennaio  2002 affermava: «Il Presidente Ciampi conosce bene la complessa e tormentata vicenda processuale che ha portato alla condanna definitiva di Adriano Sofri e dei suoi coimputati ed è consapevole della mutazione teleologica che la pena subisce quando venga irrogata a lunga distanza di tempo dei fatti, soprattutto se restrittiva della libertà personale».
A mio parere, Signor Presidente, qui sta il nocciolo della questione. Adriano Sofri è stato condannato a 22 anni di carcere con l’accusa di essere il mandante (rectius: per avere confermato il mandato) dell’omicidio del commissario Calabresi avvenuto nel 1972. L’arresto avvenne a fine luglio del 1988 e la vicenda giudiziaria con diversi gradi di giudizio (compresa una sentenza di assoluzione inficiata da una motivazione “suicida”), e rinvii della Cassazione si concluse nel 2000 dopo il processo di revisione a Venezia che confermò la condanna, auspicando nella sentenza una soluzione di non carcerazione ulteriore attraverso la concessione della grazia.
Il nodo che si pone in maniera eclatante è il senso di una detenzione che si rivela inutile giacché l’obiettivo previsto dall’articolo 27 della Costituzione sullo scopo della pena, la rieducazione e il reinserimento sociale, è ictu oculi realizzato ed evidente, trattandosi di uno degli intellettuali italiani più lucidi e impegnati, che in questi anni dal carcere ha fortemente contribuito a sollecitare l’opinione pubblica sulle grandi questioni della pace e della guerra, dei diritti umani, del destino del pianeta, della pena di morte.
Presidente Napolitano, una detenzione, seppure domiciliare, per questi motivi si configura come pura afflizione in violazione della Costituzione. Non mi pare di esagerare nel dire che assistiamo a una sorta di sequestro di persona in funzione del principio retorico della certezza della pena.
Tutti coloro che erano impegnati su questo fronte salutarono la concessione della grazia a Ovidio Bompressi come il primo passo per chiudere un capitolo doloroso della storia del nostro Paese. Invece nulla è accaduto nonostante la malattia improvvisa che colpì Sofri nel carcere di Pisa a rischio della vita e nonostante la tragedia familiare avvenuta lo scorso anno. Anche l’anno trascorso in libertà per sospensione pena si è trasformato in una ulteriore sofferenza dal momento che sono stati dodici mesi trascorsi in agonia, non come prologo alla liberazione, ma come un tempo che ha allungato la pena da scontare.
Caro Presidente Napolitano, mi auguro che la decisione di non concedere la grazia a Sofri non sia definitiva. Mi sono permesso di esprimerLe con rispetto alcune valutazioni per me fondamentali, di principio e di diritto, augurandomi che Lei voglia considerarle e tornare a riflettere su una decisione che non può essere condizionata dallo spirito dei tempi o dal timore di reazioni strumentali.
Chi salva un uomo, salva l’umanità: soprattutto sarebbe bello ed educativo dare un segnale contrario allo spirito di vendetta e di rancore che sembra animare il nostro presente. Non si tratta di un atto che riguarda solo Adriano Sofri. Mi auguro che questo scambio di opinioni inneschi un confronto più largo, che coinvolga giuristi, studiosi ed esponenti della società civile sul carattere della grazia dopo la pronuncia della Corte Costituzionale.
A Lei solo, caro Presidente, la parola! Consideri questa condizione un privilegio e non un peso.

Cordialmente
Franco Corleone

Sofri, la risposta del Quirinale

 

Per evidenti e imprescindibili ragioni di trasparenza, rendo pubblica la lettera del Quirinale, in risposta alla mia missiva del 3 marzo. Avendo molte e profonde riserve e un profondo dissenso nel merito, mi astengo tuttavia per ora dal commentare il messaggio del Presidente della Repubblica.

«Illustre e caro Onorevole,
rispondo, su incarico del Capo dello Stato, alla lettera da Lei inviatagli il 3 marzo scorso e nella quale sollecita una decisione sulla pratica di grazia relativa ad Adriano Sofri.
Con la sentenza n. 200 del 2006, la Corte costituzionale ha chiarito che la grazia è istituto di natura extra ordinem destinato a far fronte a “eccezionali esigenze di natura umanitaria”, non tutelabili attraverso gli ordinari strumenti penitenziari. Nella specie, l’autorità giudiziaria ha invece concesso al Sofri una misura alternativa alla detenzione, ritenendo, per un verso, che le condizioni di salute – pur serie – non erano tali da imporre un nuovo differimento dell’esecuzione e, per altro verso, che la detenzione domiciliare era funzionabile alla fruizione delle cure necessarie e al reinserimento sociale.
Nessun elemento fa oggi ritenere che le esigenze umanitarie debbano essere garantite ricorrendo a istituti diversi da quello penitenziario in atto. A breve, inoltre, la stessa magistratura di sorveglianza dovrà riesaminare la situazione del Sofri al fine di decidere le modalità della eventuale prosecuzione della pena, ritenute compatibili con le complessive condizioni di salute.
Allo stato, non si presentano situazioni giuridicamente nuove, rispetto a quelle esaminate dal tribunale di sorveglianza nel giugno 2007, che siano tali da sollecitare e suggerire il compimento, da parte del Capo dello Stato, di ulteriori atti della procedura prevista dall’articolo 681 c.p.p.
Con la più viva cordialità».
Loris D’Ambrosio – consigliere
del presidente della repubblica

Vai all’articolo di Sara Menafra su il Manifesto del 15 marzo.

Settimo giorno di sciopero della fame

SOFRI: GARANTE DETENUTI FIRENZE, SCIOPERO FAME PER GRAZIA

(ANSA) – FIRENZE, 13 MAR – Il garante fiorentino per i diritti dei detenuti Franco Corleone e’ arrivato oggi al settimo giorno di sciopero della fame intrapreso dopo l’ invio di una lettera al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per sollecitare l’ applicazione della grazia ad Adriano Sofri.

Corleone, che oggi ha avuto un lieve malore, aveva scritto a Napolitano il 3 marzo sottolineando che la decisione, ”assolutamente personale di riprendere il digiuno di dialogo e testimonianza” viene ”offerta a Lei con fiducia e con la presunzione di aiutarla a decidere, qui e ora”. (ANSA).

Risposta a Mambo

Il Riformista di sabato 8 marzo ha pubblicato un corsivo di Giuseppe Caldarola dal titolo “La grazia per Sofri  e Contrada?” in cui viene segnalata la mia lettera a Napolitano pubblicata sul Manifesto del giorno precedente. Caldarola scrive che la grazia a Sofri è una decisione matura. E aggiunge che qualunque cosa si pensi di quegli anni e dei protagonisti di una terribile stagione di delitti, Adriano Sofri ha pagato tanti di quei prezzi da rendere ragionevole, fuori da ogni retorica perdonista, un provvedimento che lo liberi in via definitiva. Ringrazio Caldarola per l’attenzione finora assai scarsa a una iniziativa che proseguirà fino alla risposta del Quirinale.Approfitto di questo dialogo per chiarire il senso della mia lettera: Non ho chiesto o sollecitato al Presidente Napolitano la concessione della grazia ad Adriano Sofri. Ho posto invece un problema istituzionale. Chiedo di sapere se il Capo dello Stato intende esercitare le sue prerogative esclusive sulla grazia o no. Questo è il punto.Marco Pannella ha dichiarato di essere contro la grazia a Sofri. Penso di essere tra i pochi che comprendono il senso di questa affermazione. Ribadisco che non potevo accettare che la vicenda rimanesse nell’equivoco. 

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I miei articoli Le carceri

Caro presidente Napolitano, dia la grazia a Adriano Sofri

sofriCaro Presidente Napolitano,

è passato un tempo assai lungo dalla risposta che il Consigliere Loris D’Ambrosio mi inviò il 3 novembre 2006 in relazione alla lettera che Le avevo inviato il 26 settembre dello stesso anno, nella quale Le chiedevo di assumere in prima persona l’iniziativa autonoma per una scelta ormai matura della grazia a Adriano Sofri.
Il Consigliere D’Ambrosio riaffermava giustamente che la sentenza n. 200 del 2006 della Corte Costituzionale aveva fatto definitiva chiarezza sul potere esclusivo del Presidente della Repubblica sulla titolarità e esercizio del potere di clemenza individuale; e aggiungeva che in ordine alla pratica di grazia di Adriano Sofri «l’esistenza di situazioni nuove – connesse allo stato di salute e all’applicazione della legge sull’indulto – imponeva aggiornamenti istruttori indispensabili al Capo dello stato per l’ulteriore corso della relativa procedura».
Immediatamente risposi ringraziando per gli apprezzamenti ai contributi di studio da me offerti in questi anni per la più corretta interpretazione costituzionale dell’istituto della grazia. Offrii anche il quadro della posizione giuridica di Sofri: calcolando la concessione dell’indulto e i giorni di liberazione anticipata, il periodo di detenzione avrebbe avuto ancora una durata di ben sette anni. Al tempo Adriano Sofri era in regime di sospensione della pena per la gravissima malattia che l’aveva colpito durante la reclusione nel carcere di Pisa: poco dopo la sospensione è stata trasformata in detenzione domiciliare sulla base di una decisione autonoma del Tribunale di Sorveglianza di Firenze che scadrà il prossimo giugno. A oggi il residuo pena da espiare di Adriano Sofri supera i cinque anni.
Concludevo la mia lettera del settembre 2006, esprimendo fiducia nella rapida conclusione degli aggiornamenti istruttori e nell’emanazione del decreto in tempi ravvicinati. Così non è stato, nel frattempo altre tragedie sono accadute nella vita di Adriano Sofri a rendere la situazione più insostenibile.
Per ragioni di rispetto istituzionale e aderendo alle sollecitazioni di chi mi invitava a rispettare un silenzio certamente riflessivo e operoso, ho atteso fiducioso una sua iniziativa, insieme alle migliaia di uomini e donne che per oltre 1.500 giorni parteciparono a un digiuno a staffetta per affermare le ragioni di un diritto mite.
A distanza di un anno e sei mesi, mi sono convinto che le ragioni dell’attesa non sussistono più e non desidero attendere inerte il protrarsi di una vicenda iniziata con la mia prima lettera indirizzata al Presidente Ciampi il 27 novembre 2001: con il rischio di un’ipocrita assuefazione allo scandalo di uno stato di detenzione inutile che continua.
Nella risposta, il Consigliere giuridico Salvatore Sechi scrisse allora che «il Presidente Ciampi è consapevole della mutazione teleologica che la pena subisce quando venga irrogata a lunga distanza di tempo dai fatti»; ribadendo, sempre a nome del Presidente, l’esigenza di chiudere definitivamente capitoli dolorosi della storia della Repubblica attraverso il formarsi di un largo consenso politico e sociale. Il caso non poté concludersi positivamente per l’ostruzionismo dell’allora ministro della giustizia Roberto Castelli che costrinse il Presidente – già «con la penna in mano» per firmare la grazia, com’ebbe a dichiarare – a sollevare il conflitto di potere, risolto in seguito felicemente dalla Corte Costituzionale.
Viviamo un tempo di imbarbarimento giuridico e di «incattivimento» della società, come dimostra la criminalizzazione di una misura giusta e doverosa come l’indulto. Ciò deve spingere a atti di generosità che possano alimentare uno spirito di riconciliazione di cui l’Italia ha un estremo bisogno.
Caro Presidente, per evitare qualsiasi strumentalizzazione e magari il rinnovellarsi di polemiche insulse, voglio sottolineare che non intendo affatto esercitare una pressione indebita a favore della concessione della grazia a Sofri: il senso del mio messaggio sta in un pressante invito a esercitare le Sue prerogative costituzionali, in qualsiasi direzione intenda pronunciarsi. Per quanto mi riguarda, come cittadino impegnato da anni su una delicata questione politica e costituzionale, non posso far finta di nulla e rassegnarmi nell’ignavia al clima del paese.
La decisione, assolutamente personale, di riprendere un digiuno, di dialogo e di testimonianza, viene offerta a Lei, con fiducia e con la presunzione di aiutarLa a decidere, qui e ora.
L’Italia è stata protagonista della battaglia di civiltà per l’affermazione della moratoria della pena di morte in sede Onu e Lei, signor Presidente, ha sostenuto e condiviso questa iniziativa. So che Lei, custode e garante della Costituzione, apprezza l’articolo 27 sul carattere delle pene, che non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità in vista del reinserimento sociale del condannato e in nome di una convivenza che ripudi l’odio e la vendetta. I principi vanno inverati e riaffermati proprio quando rischiano di indebolirsi nella coscienza collettiva: il digiuno ha, in questa occasione, con assoluta semplicità solo il significato di dare corpo a un impegno civile. Spero con questo di aiutarLa nella riflessione, nel pieno rispetto di quella che il costituzionalista Ernesto Bettinelli chiama la «necessaria e virtuosa solitudine» del Capo dello Stato. Sono sicuro che anche in questa occasione, la Repubblica con i cittadini tutti, uomini e donne, Le sarà riconoscente.
In attesa di un Suo pronunciamento, Le invio il mio saluto più cordiale.

Franco Corleone

Da il Manifesto del 7 marzo 2008.