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Giustizia, l’Ulivo allo specchio

POLITICA O QUASI
Giustizia, l’Ulivo allo specchio

IDA DOMINIJANNI, da il Manifesto del 24 aprile 2001

Fra le cartine di tornasole che si possono scegliere per fare l’analisi chimica della stagione di governo del centrosinistra, quella della giustizia resta una delle più efficaci se non la più efficace. E non solo per il merito delle cose che sono state fatte e di quelle che non si sono fatte o non si sono potute o volute o sapute fare. Ma anche perché più di altri capitoli dell’agenda politica lascia vedere in trasparenza le condizioni peculiari in cui la XIII legislatura e i tre governi dell’Ulivo hanno lavorato. Tre in primo luogo: uno scontro ideologico aspro con il Polo, sull’alternativa fra garantismo a uso dei potenti o a tutela di tutti, e uno scontro più sotterraneo, dentro la maggioranza, fra cultura garantista e cultura panpenalista; uno scarto devastante fra il clamore mediatico sugli aspetti più eclatanti del primo scontro e la povertà di informazione sulle riforme realizzate e sul loro andamento; la crescente subalternità di tutta la politica agli umori dell’opinione pubblica, unita alla difficoltà di rapportarsi a una società troppo segnata, in materia di giustizia e sicurezze, dalle vecchie tare moraliste verso i deboli e lassiste verso i forti e dalle nuove fobie indotte dalla modernizzazione e dalla globalizzazione. Tutte condizioni che, viste a distanza di tempo, renderanno più equo di quanto non sia ora, nel bene e nel male, il giudizio sulle luci e le ombre del quinquennio dell’Ulivo, e che intanto sarebbe bene tenere presenti prima di votare, o non votare, sulla base di spinte puramente identitarie o, peggio, punitive.
Queste coordinate del contesto in cui il centrosinistra ha operato emergono lucidamente nel breve ma prezioso volumetto La giustizia come metafora (edizioni Menabò) che Franco Corleone, sottosegretario uscente alla giustizia, ha pubblicato negli stessi giorni in cui lui stesso, e con lui tutta la pattuglia dei parlamentari garantisti del centrosinistra, restavano fuori dalle candidature per il prossimo parlamento. Il volumetto assumerebbe dunque un valore alquanto noir di testamento, se la pratica che lo attraversa non facesse subito sperare in una prosecuzione extraparlamentare, per così dire, dei fatti e delle intenzioni che lo abitano. Si tratta infatti di una pratica relazionale, esplicitata non solo nella forma del dialogo-intervista di Corleone con Luca Paci, nei tre interventi di Stefano Anastasia, Sandro Margara e Eligio Resta che la commentano e nella prefazione di Piero Ignazi, ma anche nei molti riferimenti di Corleone ad altri protagonisti di una buona politica e di una buona cultura della giustizia di questi anni (Saraceni, Salvato, Senese, Cascini, Ferrajoli, Palombarini, Coiro, Rodotà, Boato, Arnao, il cardinal Martini sul versante carceri, il ministro Veronesi sul versante droghe), ad alcune associazioni che per una buona politica della giustizia non si stancano di lavorare (Antigone, il comitato per i diritti civili delle prostitute, il Forum droghe, il gruppo Abele, la redazione di Fuoriluogo), ad alcuni momenti alti del dibattito (gli Stati generali dei Ds del ’98), e infine ad alcune vittime-simbolo di una cattiva politica della giustizia (Adriano Sofri). Una tessitura di relazioni e di lavoro che la fine dell’esperienza di Corleone a Via Arenula e a Montecitorio non basteranno, oso pensare, a vanificare.
Ma il libro è trasparente anche nell’onestà del bilancio che delinea, fra fatti e omissioni, decisioni prese e insufficienze culturali non colmate, efficienza guadagnata e scelte di fondo rinviate. Corleone rivendica in primo luogo l’investimento, di risorse e di iniziativa legislativa, che sulla giustizia è stato dispiegato dal centrosinistra, dopo decenni di inerzia. All’inizio della legislatura c’era l’annunciata bancarotta della macchina giudiziaria; oggi ci sono il giudice unico di primo grado, le sezioni stralcio per l’arretrato civile, gli organici della magistratura rinsaldati, i tribunali metropolitani, la competenza penale dei giudici di pace, il giusto processo riformato, e ci sarebbe l’unità della giurisdizione se il lavoro della bicamerale non fosse stato mandato a carte quarantotto da Berlusconi. Ci sarebbero anche le riforme della responsabilità disciplinare e del giudizio di professionalità dei magistrati, se le difese corporative della magistratura, alimentate e rafforzate anch’esse da Berlusconi, fossero state meno forti. Così per quanto riguarda l’ordinamento e il funzionamento della macchina. Che non andrà mai a regime tuttavia, sottolinea Corleone e con lui Anastasia, senza quella riforma del codice penale in direzione del penale minimo che sola può lavorare a favore della certezza dei reati e della pena, nonché di quella obbligatorietà dell’azione penale di cui Berlusconi vorrebbe rapidamente disfarsi.
Poi ci sono capitoli ancora più controversi. Il carcere, prima di tutto, sul quale bisogna sempre rifare tutto il discorso da capo: tornare a dire che cosa il carcere è e che cosa non è (“un luogo orribile per sua natura e funzione, un male che pretende di curare quand’invece produce malattia, un rimedio da amministrare contrasparenza e somministrare con prudenza, il problema del cuore della città” e non il luogo della rimozione e dell’emarginazione fuori dalle mura della città), registrare che cosa si è riusciti a migliorare (il nuovo regolamento voluto da Corleone, ma decurtato di quel diritto all’affettività che non ne costituiva un particolare secondario) e che cosa resiste a ogni tentativo illuminato di riforma (leggere per credere la testimonianza di Margara, che non esita a definire genuinamente reazionarie, anche quando abitano la sinistra, queste resistenze). E poi ancora tutte le “questioni di confine” – dalla sicurezza alla legislazione sulle droghe alle questioni di bioetica all’indulto – che sono state e restano paragrafi cruciali del capitolo giustizia: le più sintomatiche di un deficit culturale della sinistra sul banco di prova decisivo della libertà, e sulle quali più necessario sarebbe stato, e non c’è stato, il coraggio di imporre alcune scelte contro il senso comune massmediatico. Si può sperare in una provad’appello: se e solo se, come scrive Eligio Resta, tra politica e cultura il confine tornerà ad essere una linea di comunicazione e non una insormontabile barriera.

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