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I miei articoli

Il disperato commercio di Calderoli

Povero Bossi! E’ ridotto a dare del matto a Pisapia sperando di tenere assieme una barca che affonda non per opera sua e senza avere una zattera per ripensare una strategia alternativa. Così dà man forte al carnevale delle proposte offensive per i cittadini milanesi come l’abolizione dell’ecopass, la cancellazione delle multe (variante ambrosiana del condono edilizio per Napoli) e il miraggio di una città esentasse.
Quello che è stupefacente nella destra italiana è la capacità truffaldina di presentarsi agli elettori come se fosse sempre all’opposizione, come se non fosse al governo di Milano (e della Regione) da venti anni. Demagogia e propaganda rappresentano la cifra di una mistificazione continua, che la rivoluzione gentile di Giuliano Pisapia ha finalmente smascherato.
Anche il ministro Calderoli ha offerto la sua proposta di maleodorante voto di scambio: turatevi il naso, votate la Moratti e vi daremo due ministeri. Insomma le donne e gli uomini eredi dell’Illuminismo trattati come i seguaci di Scilipoti.
Certo occorrerebbe chiedere conto all’inventore del Porcellum perché il suo Governo non ha messo nell’agenda politica la riforma del Senato federale, ad esempio.
Ma vale comunque la pena discutere del merito della proposta che potrebbe inserirsi, se fosse fatta non strumentalmente, nel dibattito sui 150 anni dell’Unità d’Italia per altro troppo generico e povero.
Proprio Giuseppe Mazzini inchiodato nella oleografia come l’intransigente teorico dell’Unità d’Italia e di Roma Capitale, nel 1861 non solo esprimeva una dura critica alla logica di un “Piemonte ingrandito” ma addirittura proponeva una struttura decentrata delle Istituzioni. Mazzini paventava una burocrazia concentrata in una sola grande città tentacolare e ipotizzava la ripartizione delle varie manifestazioni della vita nazionale oggi accentrate in una sola Metropoli tra le diverse città capoluoghi delle Regioni. E aggiungeva:” Non vedo perché non si collocherebbe in una sede la Magistratura superiore, in un’altra l’Università nazionale, in una terza l’Ammiragliato, in una quarta l’Istituto Centrale di Scienze e d’Arti, e così via. Il telegrafo elettrico (oggi diremmo internet, ndr.) sarebbe in tempi normali, vincolo d’unità sufficiente; e in tempi di guerra o pericoli gravi sarebbe facile l’accentramento. A Roma basterebbe la Rappresentanza Nazionale, il sacro nome, e lo svolgersi provvidenziale dall’alto dei suoi colli della sintesi dell’Unità morale Europea”.
Se si volesse attualizzare la proposta ci si dovrebbe riferire al Consiglio Superiore della Magistratura, all’ Istat, al Cnel, al CNR, ad esempio.
Massimo Scioscioli nel suo volume “Giuseppe Mazzini, i principi e la politica” sottolinea che questa impostazione era già stata manifestata nel 1849, l’anno della straordinaria esperienza della Repubblica Romana la cui Costituzione affermava i principi fondamentali della democrazia e che ebbe come difensori Carlo Pisacane, Giuseppe Garibaldi e giovani come Goffredo Mameli.
Come si capisce dalla proposta di Mazzini, non si trattava di mettere in atto un mercato delle vacche ma di coinvolgere nella costruzione di un Paese le realtà più diverse, creando un sentimento di fratellanza del Popolo fondato sull’alleanza dei Comuni e con una significativa ispirazione all’Europa.
Tutto il contrario della spinta fondata sull’egoismo e sul razzismo dell’orgia federalista e della ubriacatura devoluzionista di questa troppo lunga stagione che non ha nulla a che fare con il pensiero razionale di Cattaneo.
La crisi del regime berlusconiano mette in pericolo la stessa convivenza dell’Italia; la ricostruzione del tessuto morale del Paese può partire riscoprendo le radici serie della Repubblica in vista di un patto sociale animato dalla solidarietà.

Franco Corleone

Articolo pubblicato da Terra il 24 maggio 2011

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In Primo Piano Le carceri Rassegna Stampa

Carcere, il non-luogo dove gli architetti sono stati banditi

CONVEGNO. «Cominciare a costruire le case partendo da coloro che le abiteranno». Con la prospettiva di istituti più umani, i tecnici hanno discusso a Roma sul tema “Architettura VS Edilizia”.
Dina Galano su Terra

ll carcere di Sollicciano è in via del Pantano, Firenze. Da malum situ deriva il nome del Maliseti, la casa circondariale di Prato. Simbologie, forse, ma molto della realtà penitenziaria richiama la supina ammissione dell’inappetibilità del sistema carcerario. In un convegno di due giorni che si è concluso ieri al Senato, il tema del senso della pena ha preso forma legandosi a doppia mandata a quello dell’architettura penitenziaria. Con il titolo “Architettura versus edilizia” la Società della ragione, in collaborazione con l’associazione Antigone, la Fondazione Michelucci e il Forum droghe, ha tentato di guidare la riflessione all’interno degli spazi chiusi delle prigioni. Con l’auspicio di superarli.

I corpi
Le carceri sono sovraffollate, lo si ripete da tempo. Il già procuratore di Venezia Vittorio Borraccetti lo ha ricordato ieri: 48.693 persone alla fine del 2007, 64.971 al 31 dicembre 2009. Oggi siamo quasi a quota 70mila. Circa un terzo di essi, ha conteggiato il magistrato, sconta un massimo di 10 giorni. Arrestati in flagranza di reato o sottoposti a misura cautelare, il 30 per cento dei detenuti passa attraverso una porta girevole. «Il nostro ordinamento prevede già delle norme che possono impedire l’ingresso in carcere», ha ammonito Borraccetti. «Bisogna tuttavia convincere le forze di polizia e i pubblici ministeri ad applicarle». Quando a parlare è un detenuto d’eccezione, Adriano Sofri, subito si offre l’immagine della piccola cella che lo ha ospitato per nove anni a Pisa dove oggi vivono in tre. Dietro l’ammassamento in spazi ridottissimi, secondo il professore di filosofia del diritto Eligio Resta, riposa «l’idea dell’economia politica dei corpi». Non l’esercizio di un controllo sul delinquente, ma di un «biopotere sul corpo». Ed ecco che la privazione di esigenze primarie finiscono per aggiungere sofferenza alla pena, attentando alla dignità dell’uomo che, ha spiegato il filosofo, «non solo costituisce il punto di riferimento del Costituzionalismo moderno, ma significa il diritto a non essere sottoposti a sofferenze gratuite in cui non è possibile riconoscersi come essere umani». Il garante dei detenuti di Firenze, Franco Corleone ricorda i numeri della sua Toscana: nel 2009, 2.318 “eventi critici”, di cui 9 decessi, 8 suicidi, 155 fermi al tentativo e 974 casi di autolesionismo.

Gli spazi
«L’edilizia penitenziaria non si studia nelle scuole di architettura», ha denunciato Cesare Burdese, architetto torinese autore di molti progetti per i servizi ai detenuti. Ciò che è contenuto nei capitolati del ministero della Giustizia è «tanto preciso per quanto riguarda celle, finestre e altri spazi di sicurezza», ha continuato il collega Corrado Marcetti, direttore della Fondazione Michelucci, «quanto del tutto disinteressato agli ambienti per la socialità, i colloqui, il lavoro». Quest’ultimi diventati una rarità perché, a causa della crescita della popolazione detenuta, si è realizzata «un’iperintensificazione delle carceri già esistenti, con nuovi padiglioni aggiunti all’interno dei recinti già esistenti». L’atmosfera di soffocamento che si respira anche fuori, ha segnalato l’architetto Scarcella, tecnico del ministero, ha fatto assomigliare il carcere «alla gabbia per il leone o al forno per il coniglio».  Se lo spazio ha una funzione ideologica e simbolica, il presidente del Comitato europeo contro la tortura Mauro Palma lo definisce «infantilizzante», il non-luogo dove il detenuto «viene fatto regredire». Nessuno spazio per l’affettività, come ha denunciato la psicologa Grazia Zuffa di Fuoriluogo, nessun rispetto per l’autonoma deliberazione della persona. Il carcere sembra obbligato per legge ad essere un luogo brutto e disumano. Con la frustrazione dei tecnici che, lavorando per anni a un progetto, non sono interpellati quando la struttura viene modificata. Tutto molto lontano da quello che insegnava Michelucci: «Commissionatemi la progettazione di una città», rispondeva a chi chiedeva di costruire un penitenziario.

I modelli
Lo schema oggi imperante è quello del «carcere più lontano», non solo separato dalla città ma più isolato, nella periferia, presso gli snodi stradali (porti e autostrade). La «periferizzazione», ha spiegato Marcetti, è iniziata «a fine ‘800 e si è consolidata nel ‘900 per motivi di tipo igienico-sanitario e affinché l’istituto fosse separato dal tribunale». Questa delocalizzazione si sta spingendo perfino al subappalto della questione detentiva ad altri Paesi, come la Libia per esempio. Negli anni Settanta, alla vigilia della riforma del 1975 che ha innovando l’ordinamento penitenziario aprendo ad alternative alla reclusione, nascono le carceri nuove: la moderna architettura tenta il superamento del carcere a ballatoio, dei corridoi dritti, della rigidità degli schemi in genere. Sergio Lenci, il gruppo Mariotti, Giovanni Michelucci, Mario Ridolfi hanno segnato una stagione dell’architettura penitenziaria che Scarcella ha definito «irripetibile». Quel modello che aveva spinto a cambiare anche il materiale di realizzazione, tuttavia, si è scontrato con la storia d’Italia. Il “carcere della speranza” ha lasciato il posto alle esigenze degli anni della Tensione, degli inasprimenti sanzionatori, dell’emergenza terroristica e del carcere duro. Dal 1977 in poi sono venuti alla luce circa 80 strutture «tutte uguali, fatte con il timbro, in luoghi isolati che di notte sono allarmanti», ha polemizzato Marcetti. Il tentativo di costruire spazi di cerniera con la società libera è definitivamente tramontato. E quel timore diffuso nell’opinione pubblica, così come la mano forte dello Stato nel gestire l’emergenza, rischiano di tornare ad essere attuali.


Il Piano
E’ il 29 giugno 2010 quando il Piano per l’edilizia penitenziaria viene definitivamente vistato. Ma, ha pronosticato la senatrice Pd Anna Finocchiaro, «prima di tre anni non ne vedremo niente», soprattutto perché «nella legge di stabilità non c’è alcuna copertura per la sua realizzazione». Nella sua storia, il progetto edilizio proposto da Alfano ha attraversato molte tappe: commissariamento ad hoc, adozione di un programma di interventi, la dichiarazione dello stato di emergenza e il piano  edilizio completo. A quasi due anni dal primo annuncio, ha spiegato il difensore civico dei detenuti Stefano Anastasia nella sua relazione, il progetto finale ha subito «un sensibile ridimensionamento». Degli oltre 17mila posti promessi nella prima versione, amplificati a 22mila nella seconda, ecco che la terza formulazione è davvero più modesta: 9.150 posti detentivi da realizzare, finanziati con i 610 milioni di euro di cui sin dalle origini si era assicurata la disponibilità. «In tutto questo tempo il governo non ha trovato altri fondi», ha sottolineato il ricercatore, lasciando l’uditorio con questa domanda: «Quale idea insiste dietro un indirizzo politico irrealizzabile e fallimentare rispetto allo scopo prefisso?». Perché è certo, le nuove 11 carceri e i 20 padiglioni in ampliamento di istituti esistenti non riusciranno ad arginare il sovraffollamento delle strutture, che corre al tasso del 152 per cento.

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Le droghe Rassegna Stampa

«Il vento è cambiato»

INTERVISTA. Franco Corleone di Forum droghe ed ex sottosegretario alla Giustizia col governo Prodi, nel 1998 presentò una proposta di legge antiproibizionista che venne firmata anche da Roberto Maroni.

Nel marzo 1997 alla seconda conferenza nazionale sulle droghe di Napoli per la prima volta si parlò di una completa depenalizzazione dell’uso personale, del consumo di gruppo e della coltivazione domestica di cannabis. Franco Corleone, oggi alla guida dell’associazione Forum Droghe ma all’epoca sottosegretario alla Giustizia del governo Prodi, presentò alla Camera una proposta di legge per legalizzare la cannabis, sottoscritta da ben 125 parlamentari, compreso l’attuale ministro dell’Interno Roberto Maroni. Il centrosinistra quando nel 2006 tornò al governo con l’Unione nel suo programma si era impegnato ad abrogare la Fini-Giovanardi, cancellando le sanzioni per i consumatori. Infatti il 28 aprile 2006 quella proposta di legge venne ripresentata alla Camera, sottoscritta da vari deputati dei partiti del centrosinistra, ma non si riuscì ad approvare.

In Italia verranno mai depenalizzate le droghe leggere?
Il nostro Paese ha avuto diversi movimenti, a seconda delle varie stagioni politiche. In alcuni momenti siamo arrivati vicini alla legalizzazione, soprattutto alla presentazione della mia proposta di legge, la più sottoscritta. Poi le opinioni sono cambiate. Ora il clima si è però rovesciato. Servirebbe un movimento autorevole per spingere in questa direzione. A Milano un giudice ha recentemente assolto un giovane che in casa coltivava sette piante di marijuana. Una sentenza importante e coraggiosa, perché spiega che quella domestica non può essere equiparata alle coltivazioni industriali.

Quale dovrebbe essere il nostro punto d’arrivo?
L’Italia deve depenalizzazione tutte le sostanze. Per poi legalizzare e regolamentare, con diversi regimi, le varie droghe. Anche perché le galere sono piene di tossicodipendenti, arrestati per piccolo spaccio o consumo. Il problema è solo politico.

E nel resto del mondo?
Il modello olandese resta molto valido. Contrariamente a quello che molti proibizionisti dicono, il livello di consumo ad Amsterdam è inferiore a Paesi o città dove c’è una forte proibizione o sanzioni elevate. Perché la legalizzazione normalizza il consumo e lo smitizza. In Svezia come a San Francisco. Infatti anche negli Stati Uniti si sta muovendo qualcosa e importanti economisti suggeriscono la regolamentazione, attraverso la tassazione. Tanto che in California ora si terrà un referendum sulla canapa, proprio per aumentare gli introiti fiscali. Se vincerà il sì lo scenario nel Nord America e forse anche in Europa cambierà notevolmente. Anche in Sudamerica la Democracy and drug democracy, presieduta dai presidenti di tre Paesi (Colombia, Messico e Brasile), vuole mettere fine alla guerra alla droga e legalizzare le varie sostanze in modo differenziato. Anche per fermare la repressione dei contadini che coltivano le piante di coca. Intorno a noi ci sono molte realtà in movimento. Molti Paesi europei ora ad esempio consentono di fatto la coltivazione della canapa per uso personale oppure incentivano politiche di riduzione del danno e del rischio, a differenza dell’Italia.

Alessandro De Pascale

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In Primo Piano Le carceri Rassegna Stampa

Gli inganni del governo

CARCERE. Il ddl Alfano sulla detenzione domiciliare arriva in Consiglio dei ministri. Intanto il sottosegretario Giovanardi lancia la sua proposta contro il sovraffollamento: chi è dentro per droga sconti la pena in comunità


Dina Galano su Terra del 7 maggio 2010.

Il giorno successivo allo scontro tra Alfano e Maroni sulla questione carceraria, è intervenuto a fare da paciere il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Carlo Giovanardi: i detenuti per reati di droga di lieve entità – questa la sostanza della proposta – possono lasciare la cella per la comunità. In tal modo, ha spiegato il responsabile delle politiche contro la tossicodipendenza e coautore della legge 309 del 1990 che ha inasprito le sanzioni per i reati di droga, «da un lato, si darebbe sollievo alle strutture penitenziarie e, dall’altro, si consentirebbe una maggiore sicurezza per i cittadini perché l’opportunità di cura garantirebbe di restituire alla società una persona con minore propensione a delinquere».

L’idea, a ben vedere, gli è stata suggerita dal cartello di associazioni e comunità terapeutiche (composto dal Forum droghe, associazione Antigone, Cnca, Gruppo a’Abele e altre realtà) che ad aprile aveva iniziato a predisporre documenti per sollecitare un’uscita razionale dei tossicodipendenti ristretti in carcere. «L’unica riforma seria e importante che sia possibile realizzare senza incidere sulle leggi proibizioniste attualmente in vigore», ha commentato il garante dei detenuti di Firenze Franco Corleone. E che, ieri, è stata rilanciata inviando all’ufficio del sottosegretario una bozza di emendamento che, presumibilmente, è stata di ispirazione per la soluzione di misura.

Quello che, infatti, il ministro Maroni ha definito il decreto “svuota carceri” o ancora un “indulto mascherato”, rischia di non essere adottato nella forma più rapida del decreto legge. Proprio oggi, infatti, in sede di Consiglio di ministri, si dovrebbe conoscere l’iter di discussione del provvedimento a firma Alfano che permetterebbe la detenzione domiciliare per chi deve scontare un residuo di pena inferiore ai 12 mesi. L’obiettivo è arginare il sovraffollamento degli istituti di pena, che si aggrava al ritmo di 700/800 nuovi ingressi ogni mese. La possibilità concreta, invece, è che a beneficiarne saranno in pochissimi, come ripetono incessantemente gli esponenti dei Radicali italiani da tre settimane in sciopero della fame.

Dei quasi 67mila detenuti, infatti, la maggior parte non sarebbe toccata dal provvedimento: la metà perché non condannati in via definitiva, un altro 50 per cento perché appartenente a categorie (come ex articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario) normalmente escluse dall’accesso alle misure alternative. Sottratti, poi, tutti i detenuti stranieri che normalmente sono privi della garanzia dell’alloggio, occorre verificare a quanti manchi meno di un anno di pena da scontare. Il risultato, a rigor di logica, è ben lontano dalle 10mila unità “mandate a casa” di cui ha parlato il ministro degli Interni. Ma, nonostante i numeri, meglio battere il ferro fin che è caldo.

Dunque, auspica Franco Corleone insieme alle associazioni, «approfittiamo del trenino strumentale di Alfano per dire la grande verità: che le carceri sono piene di tossicodipendenti». Agendo per la decarcerizzazione di questa categoria, insomma, «si contenerebbe davvero il drammatico sovraffollamento delle strutture».

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I miei articoli In Primo Piano Rassegna Stampa

La Misura è colma

Articolo pubblicato su Terra del 02/01/2010

Ci siamo lasciati alle spalle un anno orribile e terribile, caratterizzato dalle proteste dei detenuti nel mese di agosto e dalla morte di Stefano Cucchi.
Nel pieno dell’estate il mondo delle carceri, un’umanità abbandonata e disperata, ha fatto sentire la propria voce per denunciare condizioni di vita indecenti e disumane.
Il Governo e l’Amministrazione penitenziaria hanno manifestato un’assenza di reazione assolutamente imbarazzante; nessuna iniziativa per mostrare una attenzione anche minima alle richieste legittime e ragionevoli. Intanto in carcere si continua a morire; per suicidio o per cause misteriose.  Continua a scorrere il sangue prodotto dall’autolesionismo: l’unico linguaggio di persone deboli e fragili che usano il proprio corpo per comunicare una disperazione inascoltata.
Il calvario di Stefano Cucchi ha suscitato un orrore diffuso anche in settori dell’opinione pubblica che in questi anni erano state suggestionate dalle evocazioni della certezza della pena e del mito del carcere come luogo di eliminazione dei conflitti. E’ una tragedia che deve far coltivare l’indignazione più profonda e far gridare che “mai più, mai più” possa accadere un accanimento così bestiale contro un corpo meritevole solo di rispetto. E’ stata la bancarotta della pietà, ma occorre chiedersi come è potuto accadere. La spiegazione è una sola: medici, giudici, forze di polizia hanno introiettato la convinzione che un tossicodipendente, un “drogato” non è un uomo, non ha diritti e può essere vilipeso con la convinzione dell’impunità.
Sembra proprio che ci si aspetti (o ci si auguri) una rivolta o un episodio di violenza, ovviamente verso un direttore o un agente di polizia penitenziaria per gridare all’emergenza e dare sfogo a una spirale di repressione e violenza liberatoria. E poi ottenere le agognate risorse per una nuova stagione di edilizia carceraria “d’oro”. Affermo invece che troppi sono i detenuti e non poche le galere e che occorre un piano straordinario per liberare i tossicodipendenti e per aumentare le misure alternative.
E’ indispensabile la convocazione degli Stati Generali del Carcere per un confronto tra tutte le realtà e i soggetti che si occupano di questo pianeta dimenticato e sconosciuto per scrivere una agenda delle riforme indispensabili.
Il cardinale Tettamanzi ha visitato il carcere di San Vittore il giorno di Natale ed è rimasto sconvolto per lo stato delle celle che “offendono la dignità umana”. Ma le parole davvero rivoluzionarie rispetto al senso comune sono state quelle dedicate alla composizione della popolazione detenuta: l’arcivescovo erede di Martini ha parlato di immigrati e di un percorso per il rientro in una società ospitale per tutti “perchè la più grande etnia che fonda e spiega tutte le altre etnie particolari è quella umana”. In tempi di barbarie e razzismo è una lezione da meditare per la Milano rassegnata ai pogrom.

Gabbie disumane

prima-pagina1508.giornaleFondo uscito su terra del 15 agosto 2009.

In questo agosto la politica ufficiale, o meglio politicante, discute molto, troppo, della proposta della Lega di reintrodurre le gabbie salariali. Troppo poco si affronta invece la presenza mortificante delle gabbie umane, della galera insomma.

Un silenzio pesante dei mass media di fronte a un record di presenze di detenuti nella storia della nostra repubblica che meriterebbe uno straccio di analisi.

E’ aumentata la criminalità in Italia? O semplicemente assistiamo alla criminalizzazione di comportamenti e stili di vita che richiederebbero interventi educativi  piuttosto che il ricorso alla repressione punitiva?

Per fortuna, grazie all’iniziativa dei radicali nei giorni di ferragosto quasi tutte le carceri saranno visitate da parlamentari, consiglieri regionali, garanti dei detenuti.

Ognuno dei duecento istituti oggetto della più imponente ispezione condotta contemporaneamente sul territorio nazionale,  mostrerà la stessa vergogna.

Corpi ammassati in celle inadeguate, materassi lerci per terra; tossicodipendenti, immigrati e poveri ridotti a carne da macello senza vedere garantito nè il diritto alla salute nè quello alla difesa.

Molti esponenti delle istituzioni vedranno per la prima volta il prodotto finale di una giustizia di classe, generazionale, sociale, etnica.

Il sovraffollamento non è come la grandine un fatto naturale e magari imprevedibile. E’ il risultato di scelte precise anche se inconsapevoli. La penalizzazione del consumo di sostanze stupefacenti illegali è all’origine di questa orgia penitenziaria.

Nel 2007 in Italia hanno fatto ingresso in carcere dalla libertà 90.441 soggetti. Di questi 28.090 per violazione della legge sulla droga. Le presenze in carcere per la violazione della legge Fini-Giovanardi rappresentavano al 31 dicembre 2007 circa il 40%.

Queste cifre risultano aggravate dai dati dell’ultima Relazione al Parlamento dello zar antidroga Carlo Giovanardi che ha segnalato una ulteriore crescita dei tossicodipendenti che entrano in carcere, dal 27% al 33%, cioè il 6% in più rispetto al 2007!

Quanto dovremo aspettare perchè il Presidente Fini si accorga che la legge da lui fortemente voluta è l’emblema di quello stato etico finalmente messo in discussione?

Per un puro miracolo finora le prigioni non sono esplose anche se morti, suicidi, atti di autolesionismo costituiscono il bollettino quotidiano di una guerra non dichiarata e su cui pesa l’embargo dell’informazione.

Occorrerà una campagna d’autunno per cambiare le leggi criminogene e subito liberare dalle catene i tossicodipendenti.

Franco Corleone

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Le carceri Rassegna Stampa

Il carcere diventa verde grazie all’energia solare

Articolo a cura  di Paolo Fantauzzi pubblicato da Terra, 7 luglio 2009.

Il carcere diventa verde grazie all’energia solare

Pronti i pannelli che forniranno l’acqua calda nella casa di reclusione di Rebibbia. Il ministero della Giustizia premiato per i progetti per le rinnovabili in 40 istituti. Il Programma di solarizzazione degli istituti penitenziari nasce nel 2001 da un’idea dell’allora ministro dell’Ambiente Edo Ronchi e del sottosegretario alla Giustizia Franco Corleone.

Pronti i pannelli che forniranno l’acqua calda nella casa di reclusione di Rebibbia. Il ministero della Giustizia premiato per i progetti per le rinnovabili in 40 istituti. Il Programma di solarizzazione degli istituti penitenziari nasce nel 2001 da un’idea dell’allora ministroll tassello più recente del mosaico è rappresentato dalla casa di reclusione di Rebibbia.
È qui, in uno spicchio di terrazzo che dà sui monti Tiburtini, che da qualche giorno sono attivi i pannelli solari termici che forniranno l’acqua calda ad almeno un paio di padiglioni del penitenziario.
Ma quello del complesso romano non è un caso unico né isolato, perché sul fronte delle fonti rinnovabili il Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap) che gestisce le oltre 200 carceri d’Italia ha raggiunto ormai livelli d’avanguardia da Nord a Sud. A sancire questa “supremazia” a marzo è arrivato perfino il premio “Green public procurement 2009”, assegnato alle amministrazioni più impegnate nelle politiche di risparmio energetico. «Per aver saputo coniugare in modo e cace innovazione tecnica, promozione delle fonti rinnovabili, risparmio energetico e formazione dei detenuti in un progetto di elevata innovazione ambientale e grande valore sociale», come recita la motivazione ufficiale.
Un approccio ecosostenibile che non è dettato solo da una particolare sensibilità ma da una questione squisitamente economica sempre più stringente: la “bolletta”  che il ministero di Giustizia paga ogni anno per le utenze dei penitenziari, che oscilla fra 60 e 70 milioni di euro. Con l’introduzione e la progressiva entrata a regime dei piani di sviluppo studiati a partire dal 2001, in applicazione delle misure previste dal Protocollo di Kyoto, l’obiettivo è di abbattere i costi del 50%. E per riuscirci il ministero della Giustizia ha anche istituito un apposito gruppo di studio per l’utilizzazione delle energie alternative.
Tre le direttrici principali che il Dap ha elaborato, differenti a seconda del contesto geografico di applicazione: pannelli solari termici, fotovoltaici e impianti di cogenerazione. Accanto
a essi c’è poi il progetto di puntare sulla coltivazione di biomasse e sull’eolico, anche se proprio quest’ultima linea di intervento finora ha trovato maggiore difficoltà. Parallelamente, sono state messe a punto linee guida che prevedono che ogni intervento di ristrutturazione miri al risparmio energetico: risalto all’utilizzo di vetro e acciaio, coperture e pavimenti pensati per evitare dispersioni di calore, impiego di materiali isolanti, lampade a basso consumo, caldaie ad alta e cienza termica, tinte a basso impatto ambientale per i muraglioni interni, valvole termostatiche per regolare la temperatura. Pur con le rispettive differenze di fase realizzativa, al momento sono più di 40 gli istituti coinvolti in almeno uno dei programmi del Dap.
Per ovviare alle esigue risorse statali, la formula economica è quasi sempre quella del  finanziamento tramite terzi, che impegna l’appaltatore a farsi carico delle spese la realizzazione degli interventi e delle forniture previste dal capitolato in cambio del pagamento di un canone fisso per un periodo limitato di tempo.

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Il buco nero

Editoriale pubblicato su Terra il 2 luglio 2009.

Ieri  è stato presentato sia il Rapporto annuale di Antigone sullo stato delle carceri che la Relazione al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze da parte dell’ineffabile Carlo Giovanardi. Una coincidenza che aiuta a capire un fenomeno drammatico e le cause.
Parliamo di quel buco nero che è la galera oggi. Galere ridotte in condizioni bestiali e che diventano ogni giorno di più insopportabili per l’ammassamento di corpi eufemisticamente chiamato sovraffollamento. La fantasia della burocrazia penitenziaria ha anche inventato il termine di capienza tollerabile, forse tale solo per i detenuti che ancora  mostrano una capacità di sopportazione infinita, ma non certo per chi abbia una coscienza non imbarbarita.
Purtroppo l’opinione pubblica di questo paese profondamente incattivito, non si scandalizza, convinta di essere immune dal rischio e che la detenzione riguardi lo straniero, il nemico, il drogato. Il cittadino “onesto, bianco, perbene” accetta ormai che le regole di convivenza civile, i principi di tolleranza, la presunzione di innocenza, insomma le basi dello stato di diritto siano calpestate sull’altare della sicurezza.
Che le carceri siano piene di tossicodipendenti, di immigrati e di poveri non turba il senso comune di soggetti corrosi dall’egoismo più bieco. Giovanardi afferma impunemente che “la droga è come la spazzatura: va rimossa “. Per ora va ancora bene perchè le vittime  finiscono in carcere e non nell’inceneritore, ma domani chissà!
Se non si fa nulla, andremo incontro a un’estate calda. Non scoppieranno rivolte programmate con richieste precise di riforme come accadeva tanti anni fa, ma potranno esplodere sommosse incontrollate i cui bagliori illumineranno le nostre città.
Il ministro della giustizia e il Dipartimento dell’Ammnistrazione Penitenziaria stanno dando la dimostrazione di essere incapaci ma capaci di tutto.
Si stanno baloccando con un piano carcere per incrementare l’edilizia carceraria mentre la casa brucia. L’unica cosa che prevedono per l’estate è di rinchiudere nelle celle i detenuti per 22 ore al giorno come le bestie feroci nelle gabbie degli zoo: pronti al bagno di sangue in caso di ribellione secondo gli esempi di Sassari e Bolzaneto.
E’ ora che le forze democratiche lancino l’allarme e avanzino una proposta di riforma radicale della giustizia con l’obiettivo di un nuovo Codice Penale subito, della abrogazione delle leggi criminogene, in primo luogo quella sulla droga e comunque l’uscita dal carcere dei tossicodipendenti. Una campagna per il diritto e per i diritti è davvero urgente.

Franco Corleone

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Cento anni di proibizione

Articolo pubblicato da Terra il 27 giugno 2009.

Il 26 giugno, giornata dell’Onu contro l’abuso del consumo di droghe, è stata l’occasione per presentare lo World drug report 2009 da parte del Unodc, l’Agenzia antidroga delle Nazioni Unite.
Il Rapporto di più di trecento pagine analizza la situazione della produzione e del consumo nelle diverse aree del mondo e obliga ad una lettura attenta dei dati.
L’interesse immediato si è concentrato però sulla prefazione di Antonio Costa, direttore dell’Ufficio di Vienna, che ha voluto prendere spunto dalla coincidenza con i cento anni di proibizione delle droghe e il bilancio di dieci anni dell’obiettivo di un mondo senza droga lanciato dall’Assemblea dell’Onu di New York del 1998 per indicare alcune riflessioni sulla politica attuata per così lungo tempo.
Il fallimento di quella strategia è evidente e sotto gli occhi di tutti gli osservatori obiettivi: non solo perchè le droghe non sono state eliminate, ma soprattutto per le conseguenze drammatiche  in termini di incarcerazione di massa di milioni di consumatori nel mondo.
Antonio Costa è quindi costretto a riconoscere che sta crescendo tra i politici, i media e anche nell’opinione pubblica la valutazione che il controllo sulla droga non funziona.
Proprio per questo, nonostante la riproposizione granitica dell’affermazione che le droghe continuano a costituire un pericolo per la salute dell’umanità, Costa si lancia in una contestazione della legalizzazione delle droghe dal punto di vista economico, sociale ed etico.
Non essendo un tema all’ordine del giorno è evidente che è un obiettivo polemico di comodo per sfuggire alle profonde contraddizioni di scelte che spesso violano i diritti umani. Costa fa appello ai paladini dei diritti umani perchè aiutino la sua Agenzia a promuovere “il diritto alla salute dei tossicodipendenti”.
Costa non rinuncia alle sue convinzioni di fondo: la tossicodipendenza è una malattia e le droghe sono proibite perchè dannose e non viceversa. E’ costretto però ad alcune aperture. A Vienna nel marzo scorso la Dichiarazione Politica approvata dal summit dell’Onu non riconosceva la positività delle politiche di riduzione del danno e su questo punto per la prima volta si è rotto l’unanimismo della retorica antidroga. Ventisei paesi con alla testa la Germania hanno dichiarato il proprio dissenso.
Ora Antonio Costa opera una svolta e invita gli Stati e le forze di polizia a non criminalizzare i tossicodipendenti e a dare priorità alla lotta ai trafficanti.
Nonostante il dissenso di fondo permanga, vogliamo prenderlo in parola; soprattutto aspettiamo che inviti  Carlo Giovanardi a prendere atto della nuova linea. Le carceri italiane stanno scoppiando a causa della legge voluta proprio dallo zar antidroga nostrano per cui non esistono differenze tra le sostanze (canapa = cocaina) e la pena prevista per possesso e spaccio è identica, da sei a venti anni di carcere.
Il fondamentalismo proibizionista anche in America dà segni di cedimento e pare finito il tempo della crociata moralista. Allora si liberino 15.000 detenuti. Subito!

Franco Corleone