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Il decreto droga nell’inverno del diritto

corleone-aperteIl 21 marzo di quest’anno sarà ricordato non come il primo giorno di primavera, ma come il culmine dell’inverno della repubblica. La notte è calata con la firma del Presidente Napolitano di un decreto totalmente privo dei presupposti costituzionali di necessità e urgenza in materia di disciplina degli stupefacenti.
La ministra della Sanità Lorenzin, forse subornata da qualcuno o per interesse di partito, aveva predisposto un decreto che ripristinava la legge Fini-Giovanardi cancellata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 32 del 12 febbraio 2014. Il colpo di mano fu stoppato grazie all’intervento del ministro della Giustizia Orlando. In un Paese normale la vergogna sarebbe dovuta cadere sugli autori di una azione così spudorata. Invece Napolitano non solo ha controfirmato il decreto ridimensionato, seppur amputato della parte penale e della tabella unica delle sostanze,  in realtà gravissimo dal punto di vista simbolico; ma tra le premesse giustificative del decreto  ha accettato una considerazione sulla decisione della Corte Costituzionale che rappresenta un vero e proprio insulto al diritto, allo stato di diritto e quindi alla democrazia.
Nella premessa al decreto si sostiene che “la pronuncia di incostituzionalità è fondata sul ravvisato vizio procedurale dovuto all’assenza dell’omogeneità e del necessario legame logico-giuridico tra le originarie disposizioni del decreto-legge e quelle introdotte dalla legge di conversione e non già sulla illegittimità sostanziale delle norme oggetto della pronuncia”: è davvero sconcertante una manifestazione di cultura politica che non comprende che la forma è sostanza soprattutto quando si discute dei principi della Carta costituzionale. E’ desolante il fatto che il Presidente del Consiglio accrediti una riduzione del valore di una sentenza fondamentale che ha condannato con assoluta nettezza l’abuso di potere perpetrato, l’esercizio arrogante della pratica della dittatura della maggioranza e la violazione della sovranità del Parlamento. Se il Governo avesse voluto rispettare doverosamente la sentenza della Corte Costituzionale avrebbe dovuto prevedere, anche per decreto, una misura per rendere giustizia alle migliaia di condannati in via definitiva in base a una legge incostituzionale. Sarebbe stato opportuno anche un intervento per modificare la norma sui fatti di lieve entità che non prevede una differenziazione tra droghe leggere e pesanti come nella legge tornata in vigore e che per la cannabis ha una pena (da uno a cinque anni) troppo alta rispetto alla pena base (da due a sei anni).
Invece il decreto si preoccupa di reinserire competenze per il Dipartimento antidroga  e di far fuori il ministero della giustizia dall’approvazione delle tabelle delle sostanze soggette a controllo. Nella tabella II che riguarda la cannabis ripristina il divieto della coltivazione anche a fini terapeutici. Viene previsto per gli operatori del servizio pubblico per le tossicodipendenze e delle strutture private autorizzate l’obbligo di segnalare all’autorità competente tutte le violazioni commesse dalla persona sottoposta al programma terapeutico alternativo a sanzioni amministrative o ad esecuzione di pene detentive e, dulcis in fundo, si ristabilisce che i dosaggi e la durata del trattamento con metadone abbiano l’esclusiva finalità clinico-terapeutica di avviare gli utenti a successivi programmi riabilitativi. La finalità revanscista è evidente dalla lettura delle decine e decine di commi di un decreto sgangherato che ripristina la Fini-Giovanardi senza nessun motivo di necessità e urgenza. Tocca ora al Parlamento cancellare questa vergogna.

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Carcere, decreto legge subito

Il Presidente Napolitano ha di recente rivolto l’ennesimo invito al Governo e al Parlamento per approvare misure strutturali e cancellare la vergogna di una condizione carceraria che vanifica l’articolo 27 della Costituzione (oltre a umiliare l’Italia in Europa).
La settimana scorsa, i Garanti dei diritti dei detenuti hanno tenuto contestualmente quindici conferenze stampa indicando misure concrete da prendere subito. Silenzio, assoluto e impenetrabile, da parte del governo. Non si sa se attendere rassegnati l’Apocalisse oppure ribellarsi e insistere per senso di responsabilità fino alle estreme conseguenze.
Il sovraffollamento non è una calamità naturale né un mostro invincibile: basta decidere di affrontare le cause strutturali, “facendo le riforme”, come si usa dire.
E’ urgente un decreto legge per cancellare le norme più vergognose e “affolla-carcere” della legge sulle droghe, alla radice della crescita incontrollata dei detenuti. Solo l’anno scorso sono entrate in prigione in violazione della normativa antidroga 28.000 persone (fra consumatori e piccoli spacciatori), mentre sono 15.000 i tossicodipendenti ristretti su un totale di quasi 67.000: la metà dei detenuti ammassati e stipati nelle patrie galere hanno a che fare con la legge proibizionista e punitiva del 2006. Legge che, in spregio alle norme costituzionali sulle ragioni di necessità e urgenza dei decreti, fu inserita abusivamente nel decreto legge sulle Olimpiadi. Il Presidente Napolitano ha invocato misure di “prepotente urgenza”: queste parole, se non vengono archiviate come esercizio di retorica, obbligano il Governo (e precipuamente la ministra della Giustizia Severino) a emanare un decreto legge per evitare l’arresto agli accusati di fatti di lieve entità e per far uscire i tossicodipendenti e inviarli a programmi alternativi (oggi per lo più preclusi da vincoli assurdi e dall’applicazione della legge Cirielli sulla recidiva).
Un provvedimento giusto, fondato e indispensabile. Non è dignitoso baloccarsi con l’annuncio di misure parziali e ininfluenti, come la messa alla prova e generiche depenalizzazioni, senza aggredire il macigno della normativa antidroga.
Se un decreto legge per modificare le norme più discutibili della legge antidroga è la priorità, altre cose buone si possono fare, dall’introduzione del reato di tortura, alla legge per l’affettività in carcere. La riforma del carcere non si realizza con la costruzione di nuove galere ma con l’applicazione del Regolamento del 2000, per garantire condizioni di vita dignitose che favoriscano il reinserimento sociale dei detenuti.
E’ paradossale che il governo non trovi i fondi per la legge Smuraglia sul lavoro in carcere mentre rifinanzia il contratto con la Telecom fino al 2018 per i fantomatici braccialetti elettronici, quando la Corte dei Conti ha denunciato lo spreco di 110 milioni di euro in dieci anni per l’utilizzo di soli15 apparecchi di controllo per la detenzione domiciliare (sic!).
Infine, l’agenda della politica in vista delle elezioni. La riforma della giustizia, da terreno di scontro, può divenire il fondamento del patto sociale, con l’approvazione (finalmente!) del nuovo codice penale.
Non è immaginabile una stagione di ricostruzione del Paese se non si mette al centro l’affermazione del diritto, dei diritti umani e del garantismo.

Franco Corleone, per la rubrica di Fuoriluogo sul Manifesto del 17 ottobre 2012

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Il Presidente Napolitano ha ricevuto una delegazione dei firmatari dell’appello sul tema della giustizia

Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha ricevuto questa mattina al Quirinale una delegazione rappresentativa dei sottoscrittori, accademici e giuristi, della lettera aperta sul tema dell’efficienza della giustizia e della realtà carceraria guidata dal prof. Andrea Pugiotto, estensore e primo firmatario dell’appello, e formata dai professori Francesco Di Donato, Fulco Lanchester, Renzo Orlandi, Tullio Padovani, Marco Ruotolo, Vladimiro Zagrebelsky, e Franco Corleone.
Hanno partecipato all’incontro il Sottosegretario di Stato alla Giustizia, Sabato Malinconico, e il Capo del Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria, Giovanni Tamburino.

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Garanti, appello a Napolitano

Mauro Palma scrive dell’incontro dei Garanti dei detenuti con il Presidente della Repubblica per la rubrica di Fuoriluogo sul Manifesto del 4 maggio 2012.

Non è frequente che un Capo di Stato riceva coloro che con continuità visitano i luoghi di detenzione per ricevere informazioni dirette sulle condizioni a cui sono soggetti coloro che vi sono ristretti, sulle loro connotazioni sociali, sulle possibili azioni da compiere per rendere la pena coerente con quell’idea di reinserimento sociale, molto spesso affermata e altrettanto spesso disattesa.
Non stupisce tuttavia che il Presidente Napolitano abbia incontrato i garanti delle persone private della libertà – quelli eletti su base regionale e il coordinatore di quelli cittadini, Franco Corleone – giacché più volte egli è intervenuto  su questo tema, dimostrando attenzione istituzionale e soprattutto considerando le condizioni carcerarie un parametro fondamentale della qualità della nostra democrazia.
Il 27 aprile scorso il Presidente, in un incontro cordiale e chiaro organizzato dalla garante della Campania Adriana Tocco, ha ricevuto una fotografia diretta di una situazione che permane molto grave e preoccupante.  Il primo punto evidenziato dai garanti è stato, infatti, il perpetrarsi di una situazione ben distante sia dalle previsioni costituzionali per quanto attiene la finalità della pena,sia  dagli obblighi internazionali a prevenire trattamenti e pene che contrastino con la dignità delle persone recluse e sia, infine, dalle stesse previsioni normative del nostro Paese: è emblematico il fatto che già la piena attuazione del Regolamento per il carcere – adottato dodici anni fa e restato sostanzialmente inapplicato – avrebbe effetti di radicale trasformazione della situazione esistente. E questa  è stata, quindi,  la prima necessità evidenziata: l’ immediata attuazione del regolamento quale soluzione a molti problemi di vivibilità.
I garanti erano accompagnati da chi scrive, quale membro italiano del Consiglio europeo per la cooperazione nell’esecuzione penale, e per molti anni presidente del comitato europeo per la prevenzione della tortura. Mio, quindi, è stato il compito di rappresentare al Presidente l’urgenza dell’istituzione di un’autorità indipendente che monitori la privazione della libertà; istituzione possibile attraverso la ratifica di un Protocollo Opzionale delle Nazioni Unite che l’Italia ha firmato e – contrariamente alla grande maggioranza degli altri Paesi europei – non ha mai ratificato.
A tutti è tuttavia noto – ed è stato importante ribadirlo nell’incontro – che, senza un incisivo intervento sul vasto fenomeno della carcerizzazione dei consumatori di droghe e dei tossicodipendenti, le discussioni sulla riduzione del ricorso al carcere rischiano diventare puramente accademiche. Il governo  in quest’ambito è stato inesistente e tale assenza rischia di vanificare le stesse azioni fin qui intraprese sul sovraffollamento. Occorre iniziare a corrodere il moloch delle attuali norme, cominciando almeno con l’aggredire quegli aspetti dell’attuale approccio punitivo alle droghe che determinano carcere – e molto – anche per situazioni e reati di lieve entità. Su questo i numeri delle presenze segnalano un’urgenza che non giustifica indecisioni e rinvii. Questa è la prima tra le altre molte necessità ribadite nell’incontro, di cui ormai tutte le autorità dello Stato, a cominciare dalla più alta, sono state rese edotte. Si resta fiduciosi, ma anche impazienti.

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Le carceri Rassegna Stampa

I Garanti ricevuti da Napolitano

Incontro al Quirinale
Il Presidente Napolitano ha ricevuto una delegazione dei Garanti regionali delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale

Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha ricevuto questa mattina al Quirinale Desi Bruno, Salvo Fleres, Alessandro Margara, Angiolo Marroni, Italo Tanoni e Adriana Tocco, Garanti regionali delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, accompagnati da Mauro Palma del Consiglio europeo per la cooperazione nell’esecuzione penale e Francesco Corleone, Coordinatore dei Garanti comunali e provinciali.
Ha partecipato all’incontro il Capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino.

 

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I miei articoli Le droghe Rassegna Stampa

Presidente, dica di no

Articolo pubblicato da Terra il 1 dicembre 2009

“Io non do consigli a nessuno, meno che mai a chi mi ha succeduto al Quirinale. Ma il capo dello Stato, tra i suoi poteri, ha quello della promulgazione. Se una legge non va non si firma. E non si deve usare come argomento che giustifica sempre e comunque la promulgazione che tanto, se il Parlamento riapprova la legge respinta la prima volta, il presidente è poi costretto a firmarla. Intanto non si promulghi la legge in prima lettura: la Costituzione prevede espressamente questa prerogativa presidenziale. La si usi: è un modo per lanciare un segnale forte, a chi vuole alterare le regole, al Parlamento e all’opinione pubblica”.

Questa affermazione netta e impegnativa era contenuta nell’intervista concessa a Massimo Giannini di Repubblica dall’ex presidente Ciampi lunedì 23 novembre scorso.

Sono parole ineccepibili dal punto di vista costituzionale e politico e che è difficile non condividere: il presidente della repubblica non può svolgere una mera funzione notarile e deve affermare con intransigenza la sua valutazione e richiamare tutti, partiti, parlamentari e cittadini alle proprie responsabilità.

L’occasione era legata alla discussione sul cosiddetto processo breve, al degrado della giustizia, alla manipolazione delle regole, insomma alla crisi della democrazia.

Ma quel che accade oggi è figlio di distrazioni e di scarsa consapevolezza di fatti gravi accaduti non secoli fa, ma giusto alla fine dell’esperienza catastrofica del governo berlusconiano all’inizio del 2006.

Allora si stava concludendo con un colpo di mano vergognoso la triste vicenda dell’approvazione di una legge sulle droghe voluta fortissimamente da Gianfranco Fini e da Carlo Giovanardi, già allora impegnato su questo fronte di inciviltà giuridica e di disumanità.

Il 27 gennaio 2006  dedicavamo la rubrica “il quadrotto”, nella prima pagina del mensile Fuoriluogo a questo tema lanciando un allarme preoccupato. Il titolo era proprio “Presidente, dica di no!” e  penso sia istruttivo riproporre il testo integrale: “Come Cassandra inascoltata abbiamo denunciato le trame del ministro Giovanardi per approvare a tutti i costi almeno uno stralcio di legge da sventolare in campagna elettorale come trofeo ideologico, della lotta del Bene contro il Male. Non potevamo immaginare che l’impudenza e il disprezzo delle regole arrivassero ad utilizzare lo strumento del decreto-legge e a ricorrere al voto di fiducia per ridurre al silenzio i possibili dissensi. Se il parlamento, già sciolto, votasse una legge di criminalizzazione dei consumatori equiparati a spacciatori e soggetti a pene da sei a vent’anni, le carceri già piene di poveracci scoppierebbero con l’ingresso di altri venti o trentamila detenuti. In nome della salvezza di giovani si vuole in realtà costruire un gigantesco impero di affari sulla pelle dei tossicodipendenti, veri o presunti. Denunciamo inoltre che il provvedimento conserva tutti i caratteri di incostituzionalità della proposta Fini: per violazione del referendum popolare del 1993, delle norme del giusto processo e delle competenze delle regioni in materia. Proclamiamo uno sciopero della fame per denunciare la provocazione. Presidente Ciampi, batta un colpo!”.

Il monito era accompagnato da un articolo di Sandro Margara intitolato “I temerari della legge” che esaminava con puntualità i ventuno articoli inseriti abusivamente nel decreto sulle Olimpiadi. Nel giornale veniva denunciata anche l’approvazione della legge Cirielli che per salvare uno (Previti)  ammazzava decine di migliaia di recidivi. Continuammo la campagna di mobilitazione nei mesi successivi, confidando nella vittoria di Prodi e nella abrogazione immediata di una legge liberticida e criminogena vista la latitanza e la colpevole distrazione del Presidente Ciampi. Sappiamo come è andata a finire e ora siamo di fronte alle carceri che scoppiano!

Oggi e domani a Torino si svolge la Conferenza delle Regioni sulle tossicodipendenze. E’ un appuntamento che risponde, anche se con estrema prudenza, alla Conferenza governativa che si svolse sei mesi fa a Trieste impedendo un confronto sulla politica di riduzione del danno e censurando la valutazione del primo periodo di applicazione della legge Fini-Giovanardi.

Saremo presenti per denunciare la deriva autoritaria e le conseguenza che una concezione ideologica delle droghe provoca in maniera sempre più preoccupante. La morte di Stefano Cucchi è il segno di dove conduce la stigmatizzazione morale. Per Giovanardi non si tratta di persone ma di zombie da calpestare.

Il motto “Non Mollare” vale anche per noi. Soprattutto restiamo convinti che i principi devono valere sempre!

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Adesione all’Appello dell’Unità

Mi è capitato di polemizzare con il Presidente Napolitano per la mancata concessione della grazia ad Adriano Sofri. In questa occasione il Presidente della Repubblica ha affermato con una precisione assoluta e senza ambiguità i principi della Costituzione. La risposta di Berlusconi irata e proterva ha adombrato neppure velatamente la minaccia del colpo di stato.
Vedremo se in Parlamento deputati e senatori dell’opposizione, ma anche qualcuno della maggioranza non terrorizzato dal rischio di perdere il seggio, comprenderanno la posta in gioco e utilizzeranno tutti i mezzi a disposizione per impedire di una legge d’emergenza che sancirebbe la violenza di stato contro i diritti dei cittadini e le garanzie di tutti.
Il 7 febbraio rimarrà una data che fissa un discrimine netto per la democrazia in Italia. La protesta spontanea ha bisogno di una strategia. Il Presidente Napolitano dovrà dimostrare lo stesso coraggio ogni giorno!

L’appello dell’Unità.

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Scarcerata Marina Petrella

La notizia è di ieri, dal Corriere della Sera e su Repubblica.it: la corte d’appello di Versailles ha disposto la scarcerazione di Marina Petrella per motivi di salute. Rimarrà, viste le sue condizioni fisiche, probabilmente in ospedale, ma non sarà più piantonata dalla polizia.

Mentre rimane in piedi la procedura di estradizione, una speranza in più verso la liberazione.

Vai all’appello.

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I miei articoli Le carceri

Caro Presidente, non sono d’accordo con lei.

Firenze, 31 marzo 2008

Caro Presidente Napolitano,
rispondo alla Sua lettera del 13 marzo e in particolare alla risposta del Consigliere Loris D’Ambrosio da Lei definita obiettiva e puntuale.
La ringrazio della sollecitudine e della cordialità manifestata insieme alla preoccupazione per la mia iniziativa del digiuno, che aveva il senso di aiutarLa a decidere se esercitare le Sue esclusive prerogative o no.
Non sarei sincero però se non Le manifestassi con chiarezza il mio dissenso nel merito.
Innanzitutto ho trovato una netta e incomprensibile cesura con la risposta sempre del Consigliere D’Ambrosio del 3 novembre 2006 alla mia missiva del 20 settembre. Allora si faceva riferimento alla necessità di aggiornamenti istruttori relativi alla pratica di grazia di Adriano Sofri indispensabili al Capo dello Stato per l’ulteriore corso della relativa procedura. Gli aggiornamenti citati, circa lo stato di salute di Sofri e l’applicazione della legge sull’indulto, erano così semplici da far ritenere, credo legittimamente, di essere alla vigilia di una positiva decisione. Cosicché non arbitrariamente potevo auspicare un atto di umanità e di riconciliazione.
Oggi invece, per motivare il sostanziale rifiuto della grazia, si cita la sentenza n. 200 del 2006 della Corte Costituzionale, secondo la quale la grazia sarebbe un istituto di natura extra ordinem destinato a far fronte a “eccezionali esigenze di natura umanitaria”, non tutelabili attraverso gli ordinari strumenti penitenziari. Mi permetto di osservare che questa e’ una visione riduttiva del potere di grazia e ritengo che le ragioni umanitarie di un atto di clemenza non possano essere ristrette alle condizioni di salute del detenuto interessato. D’altronde un potere assoluto per compiere un “atto gratuito e straordinario di generosità” non può essere limitato a una condizione di salute; altre sono le considerazioni  che giustificano un atto affidato proprio ai valori della Costituzione e che proprio nell’aderenza agli obiettivi della Carta non assume il carattere di arbitrarietà. Del resto così Ella si è determinato nella concessione di alcune grazie, quali quella a Ivan Liggi e a cinque condannati per gli attentati in Alto Adige/Sudtirol negli anni sessanta.
Questa concezione mi pare confermata dalla stessa sentenza n. 200 del 2006, che ha fatto definitiva chiarezza sul potere esclusivo del Presidente della Repubblica in tema di concessione di grazia.  La Corte Costituzionale nella sentenza citata ha ricordato come « l’esercizio del potere di grazia risponda a finalità essenzialmente umanitarie, da apprezzare in rapporto ad una serie di circostanze (non sempre astrattamente tipizzabili), inerenti alla persona del condannato o comunque involgenti apprezzamenti di carattere equitativo, idonee a giustificare l’adozione di un atto di clemenza individuale, il quale incide pur sempre sull’esecuzione di una pena validamente e definitivamente inflitta da un organo imparziale, il giudice, con le garanzie formali e sostanziali offerte dall’ordinamento del processo penale. La funzione della grazia è, dunque, in definitiva, quella di attuare i valori costituzionali, consacrati nel terzo comma dell’art. 27 Cost., garantendo soprattutto il “senso di umanità”, cui devono ispirarsi tutte le pene, e ciò anche nella prospettiva di assicurare il pieno rispetto del principio desumibile dall’art. 2 Cost., non senza trascurare il profilo di “rieducazione” proprio della pena».
Per altro lo stesso Consigliere D’Ambrosio chiarisce che nel caso di malattia gravissima in corso è prevista nell’ordinamento l’incompatibilità con la detenzione in carcere e il differimento dell’esecuzione e nel caso di una condizione di salute seria ma non patologicamente irreversibile, il magistrato di sorveglianza può decidere la prosecuzione della pena in regime di detenzione domiciliare (che non va annoverata tra le misure alternative). Si dimostra cioè che esistono strumenti assai sofisticati per risolvere ordinariamente tutti i casi in cui sia compromessa la salute del condannato. Dunque il collegamento della grazia alle problematiche di salute appare improprio.
Il caso di Adriano Sofri e’ peraltro del tutto eccezionale, come bene aveva colto il Consigliere Salvatore  Sechi quando  su incarico del Presidente della Repubblica il  9 gennaio  2002 affermava: «Il Presidente Ciampi conosce bene la complessa e tormentata vicenda processuale che ha portato alla condanna definitiva di Adriano Sofri e dei suoi coimputati ed è consapevole della mutazione teleologica che la pena subisce quando venga irrogata a lunga distanza di tempo dei fatti, soprattutto se restrittiva della libertà personale».
A mio parere, Signor Presidente, qui sta il nocciolo della questione. Adriano Sofri è stato condannato a 22 anni di carcere con l’accusa di essere il mandante (rectius: per avere confermato il mandato) dell’omicidio del commissario Calabresi avvenuto nel 1972. L’arresto avvenne a fine luglio del 1988 e la vicenda giudiziaria con diversi gradi di giudizio (compresa una sentenza di assoluzione inficiata da una motivazione “suicida”), e rinvii della Cassazione si concluse nel 2000 dopo il processo di revisione a Venezia che confermò la condanna, auspicando nella sentenza una soluzione di non carcerazione ulteriore attraverso la concessione della grazia.
Il nodo che si pone in maniera eclatante è il senso di una detenzione che si rivela inutile giacché l’obiettivo previsto dall’articolo 27 della Costituzione sullo scopo della pena, la rieducazione e il reinserimento sociale, è ictu oculi realizzato ed evidente, trattandosi di uno degli intellettuali italiani più lucidi e impegnati, che in questi anni dal carcere ha fortemente contribuito a sollecitare l’opinione pubblica sulle grandi questioni della pace e della guerra, dei diritti umani, del destino del pianeta, della pena di morte.
Presidente Napolitano, una detenzione, seppure domiciliare, per questi motivi si configura come pura afflizione in violazione della Costituzione. Non mi pare di esagerare nel dire che assistiamo a una sorta di sequestro di persona in funzione del principio retorico della certezza della pena.
Tutti coloro che erano impegnati su questo fronte salutarono la concessione della grazia a Ovidio Bompressi come il primo passo per chiudere un capitolo doloroso della storia del nostro Paese. Invece nulla è accaduto nonostante la malattia improvvisa che colpì Sofri nel carcere di Pisa a rischio della vita e nonostante la tragedia familiare avvenuta lo scorso anno. Anche l’anno trascorso in libertà per sospensione pena si è trasformato in una ulteriore sofferenza dal momento che sono stati dodici mesi trascorsi in agonia, non come prologo alla liberazione, ma come un tempo che ha allungato la pena da scontare.
Caro Presidente Napolitano, mi auguro che la decisione di non concedere la grazia a Sofri non sia definitiva. Mi sono permesso di esprimerLe con rispetto alcune valutazioni per me fondamentali, di principio e di diritto, augurandomi che Lei voglia considerarle e tornare a riflettere su una decisione che non può essere condizionata dallo spirito dei tempi o dal timore di reazioni strumentali.
Chi salva un uomo, salva l’umanità: soprattutto sarebbe bello ed educativo dare un segnale contrario allo spirito di vendetta e di rancore che sembra animare il nostro presente. Non si tratta di un atto che riguarda solo Adriano Sofri. Mi auguro che questo scambio di opinioni inneschi un confronto più largo, che coinvolga giuristi, studiosi ed esponenti della società civile sul carattere della grazia dopo la pronuncia della Corte Costituzionale.
A Lei solo, caro Presidente, la parola! Consideri questa condizione un privilegio e non un peso.

Cordialmente
Franco Corleone

Sofri, la risposta del Quirinale

 

Per evidenti e imprescindibili ragioni di trasparenza, rendo pubblica la lettera del Quirinale, in risposta alla mia missiva del 3 marzo. Avendo molte e profonde riserve e un profondo dissenso nel merito, mi astengo tuttavia per ora dal commentare il messaggio del Presidente della Repubblica.

«Illustre e caro Onorevole,
rispondo, su incarico del Capo dello Stato, alla lettera da Lei inviatagli il 3 marzo scorso e nella quale sollecita una decisione sulla pratica di grazia relativa ad Adriano Sofri.
Con la sentenza n. 200 del 2006, la Corte costituzionale ha chiarito che la grazia è istituto di natura extra ordinem destinato a far fronte a “eccezionali esigenze di natura umanitaria”, non tutelabili attraverso gli ordinari strumenti penitenziari. Nella specie, l’autorità giudiziaria ha invece concesso al Sofri una misura alternativa alla detenzione, ritenendo, per un verso, che le condizioni di salute – pur serie – non erano tali da imporre un nuovo differimento dell’esecuzione e, per altro verso, che la detenzione domiciliare era funzionabile alla fruizione delle cure necessarie e al reinserimento sociale.
Nessun elemento fa oggi ritenere che le esigenze umanitarie debbano essere garantite ricorrendo a istituti diversi da quello penitenziario in atto. A breve, inoltre, la stessa magistratura di sorveglianza dovrà riesaminare la situazione del Sofri al fine di decidere le modalità della eventuale prosecuzione della pena, ritenute compatibili con le complessive condizioni di salute.
Allo stato, non si presentano situazioni giuridicamente nuove, rispetto a quelle esaminate dal tribunale di sorveglianza nel giugno 2007, che siano tali da sollecitare e suggerire il compimento, da parte del Capo dello Stato, di ulteriori atti della procedura prevista dall’articolo 681 c.p.p.
Con la più viva cordialità».
Loris D’Ambrosio – consigliere
del presidente della repubblica

Vai all’articolo di Sara Menafra su il Manifesto del 15 marzo.