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Quale verità sulla morte di De Stefano?

Articolo pubblicato su Il Manifesto, 22.11.09

Il sospetto, il semplice sospetto, che Manfredi De Stefano, uno dei componenti della Brigata XXVIII Marzo, il gruppo responsabile dell’omicidio di Walter Tobagi, non sia morto per aneurisma ma per un suicidio inspiegabilmente occultato è un fatto di per sé scandaloso, che dovrebbe suscitare reazioni.
Invece, a parte un’interrogazione parlamentare di Elisabetta Zamparutti e due articoli de Il Messaggero Veneto di Udine del Mattino di Padova, un silenzio impressionante ha circondato la vicenda che avevo denunciato in un articolo sul manifesto del 31 ottobre scorso.
È una distrazione particolarmente inquietante in giorni così caldi per il carcere, per i misteri di troppe morti inspiegabili e di tanti suicidi veri. È ancora più clamorosa vista la contemporanea uscita del libro di Benedetta Tobagi, nelle cui pagine è presente questa rivelazione, sfuggita ai tanti recensori. In questo strano paese, gli unici che si sono scandalizzati sono i famigliari di Manfredi De Stefano; in particolare il fratello, con cui ho parlato per telefono su questa vicenda che ha riaperto una dolorosa ferita.
Innanzitutto, devo correggere un errore nel mio precedente articolo: Manfredi De Stefano, seppure condannato a 28 anni di carcere in primo grado, ebbe un ruolo marginale nell’azione terroristica e non fu l’esecutore materiale del delitto; gli assassini furono Mario Marano e Marco Barbone.
Il fratello di De Stefano è rimasto sbigottito e turbato dalle affermazioni del giudice Caimmi riportate tra virgolette da Benedetta Tobagi su Ristretti Orizzonti e nel libro autobiografico appena stampato, secondo le quali Manfredi De Stefano non sarebbe deceduto per morte naturale. Nega recisamente che la causa della morte del fratello possa essere diversa da quella certificata ufficialmente e si domanda la ragione di una menzogna propalata dal giudice istruttore del procedimento del 1981 e raccolta dalla figlia della vittima, senza effettuare peraltro alcun riscontro.
La famiglia è determinata e risoluta nella volontà di cancellare, anche con mezzi legali, quello che ritiene un oltraggio alla memoria di Manfredi De Stefano e una diffamazione attraverso la diffusione di notizie false. Per quanto mi riguarda, ho cercato di approfondire i particolari di questa storia drammatica.
Dopo essere stato detenuto per alcuni mesi a Lecco, Manfredi De Stefano fu assegnato al carcere di Udine dal 26 ottobre 2001. Da qui fu tradotto per motivi di giustizia a Milano in due occasioni. L’ultima volta fu trasferito a San Vittore il 15 settembre 1983 e rientrò a Udine il 29 novembre 1983, il giorno dopo la sentenza del processo assai contestato per il trattamento di riguardo riservato a Barbone e Morandini, in quanto «pentiti».
Il 3 aprile 1984, alle 17.30, De Stefano è in cella con altri cinque detenuti e sta giocando a carte quando di colpo si irrigidisce e viene sostenuto da uno dei suoi compagni, Loris Mason, per impedire che cada a terra. Vengono chiamati gli agenti che lo trasportano in infermeria e poi all’ospedale civile di Udine. Lì muore il 6 aprile alle 20.45 nel reparto di terapia intensiva in relazione «a stato di coma profondo da emorragia sub aracnoidea», come indicato da certificato medico in possesso del direttore del carcere.
Tutto può accadere in un’istituzione quale il carcere che non brilla certo per trasparenza. In questo caso, il complotto avrebbe visto come attori ben cinque detenuti, un brigadiere, un maresciallo, il direttore e i sanitari dell’ospedale e gli agenti del posto di polizia presso il nosocomio, cioè tutti coloro che hanno reso testimonianze o dichiarazioni scritte. Solo il dottor Giorgio Caimmi, che nel frattempo non è più magistrato, può spiegare il mistero.
Credo che Caimmi non debba aspettare l’apertura formale di un’inchiesta per dare conto della sua tesi e spiegare come e perché sarebbe stato falsificato il certificato di morte.
Se, dopo quasi trent’anni, l’ex magistrato ricorda ancora «le mani lunghe, nervose, da pianista» di De Stefano, non farà certo fatica a ricordare altri particolari: per sgombrare il campo da questi inquietanti interrogativi, che si aggiungono ai tanti che ancora circondano l’omicidio di Walter Tobagi.

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Scarcerata Marina Petrella

La notizia è di ieri, dal Corriere della Sera e su Repubblica.it: la corte d’appello di Versailles ha disposto la scarcerazione di Marina Petrella per motivi di salute. Rimarrà, viste le sue condizioni fisiche, probabilmente in ospedale, ma non sarà più piantonata dalla polizia.

Mentre rimane in piedi la procedura di estradizione, una speranza in più verso la liberazione.

Vai all’appello.

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Marina Petrella si sta lasciando morire

PETRELLA: SI LASCIA MORIRE PER EVITARE ESTRADIZIONE

Marina Petrella si sta lasciando morire nell’ospedale Fresnes di Parigi per evitare di essere estradata in Italia. L’ex brigatista rossa, secondo quando riporta il quotidiano spagnolo ‘El Pais’, da nove giorni si alimenta con il contagocce. Ha inviato una lettera ai suoi familiari, nella quale dice che preferisce morire pur di non essere rinchiusa in un carcere italiano. Secondo il medico dell’ospedale, scrive il quotidiano spagnolo, c’e’ il chiaro rischio che l’ex terrorista tenti il suicidio. La Petrella e’ descritta come una donna “molto depressa, affranta e che pensa continuamente alla morte. In un rapporto medico stilato a giugno si riconosce che “sta abbandonando la vita”. “Di questo passo ci consegneranno un cadavere”, dice Elisa, la figlia 25enne dell’ex militante delle Br, che ha visto l’ultima volta la madre ad aprile.

Da Repubblica.it

Qui trovate l’appello a Sarkozy (e all’Italia).

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Vicenda Petrella. Un appello a Sarkozy (e all’Italia)

VICENDA PETRELLA. UN APPELLO A SARKOSY, MA ANCHE ALL’ITALIA: BASTA CON L’ACCANIMENTO E IL CARCERE SENZA FINE

La posizione assunta dal presidente francese Nicolas Sarkozy attorno alla vicenda di Marina Petrella, candidata all’estradizione nel nostro paese, ha un sapore pilatesco di fondo: si è detto favorevole a estradare in Italia l’ex brigatista, ma anche alla concessione di una grazia da parte italiana che le risparmi il carcere a quasi 30 anni dai fatti. Un carcere che dovrebbe in effetti apparire a tutti inumano e inutile, dato il lasso di tempo trascorso e dato che la odierna detenuta Petrella è persona del tutto diversa dall’allora brigatista; anche le parole pacate e responsabili espresse in questi giorni dalla figlia Elisa sono una testimonianza di questo e anche della considerazione riguardo le sofferenze dei famigliari delle vittime. Un’attenzione doverosa, che condividiamo sino in fondo. Ma rimane la domanda su chi e cosa possa mai risarcire una sua lunga detenzione oggi.
Non molti anni fa, quando il caso di Adriano Sofri era all’ordine del giorno, la insensata cattiveria di una condanna che colpisce dopo un quarto di secolo apparteneva al senso comune della sinistra, e non solo di essa, tanto che furono partoriti appositi disegni di legge.
Oggi sembrano passati secoli. Ma all’indietro, nel senso che pare andata smarrita ogni considerazione critica e moderna sul senso della pena e sulle sue attribuzioni e finalità costituzionali. Questi anni trascorsi all’insegna delle manette come valore e di girotondi davanti ai tribunali hanno dunque lasciato guasti profondi e corroso sino all’osso la cultura giuridica e anche il senso umanitario di molta parte del paese. Peraltro, questi accanimenti postumi, queste logiche di vendetta infinita, non riguardano solo gli ex militanti di sinistra. È di pochi giorni fa la notizia dell’arresto in Brasile ai fini di estradizione in Italia di un appartenente ai NAR, Pier Luigi Bragaglia.
La rivendicazione delle proprie attribuzioni esclusive in materia di grazia fatta del Quirinale dopo l’annuncio di Sarkozy non pare una puntualizzazione solo formale, ma un preannuncio negativo nel merito. In generale, nel clima politico italiano vi è una evidente e irriducibile animosità che porta a ritenere certo il rifiuto di grazie nei confronti di persone accusate di atti di terrorismo, altoatesini a parte.
Dunque il calcolo di Sarkozy appare zoppo e infondato: l’estradizione di Marina Petrella comporterà per lei lunghi anni di carcere e danni irreparabili alla sua già precaria condizione psichica e sanitaria. Ora, di fronte alle polemiche, Sarkozy si è spinto a formalizzare i propri auspici in due lettere spedite a Napolitano e Berlusconi. Ma risulta davvero difficile per noi comprendere, e per lui spiegare, come si possa estradare una inoffensiva ex brigatista che ha cambiato vita da decenni e contemporaneamente offrire ospitalità a narcoterroristi in piena attività, come i guerriglieri delle FARC.
Se d’Oltralpe spirano dunque venti pilateschi, da noi a livello politico e istituzionale il richiamo pare essere a don Abbondio. Tutto tace, e chi prende parola è per perorare le virtù del carcere e della durezza della legge (purché colpisca gli altri: i vinti dalla storia, come gli ex lottarmatisti e i vinti sociali, come gli immigrati, i tossicodipendenti e i poveri che affollano le prigioni).
Tra Ponzio Pilato ed Erode, tra farisei e forcaioli, tra meschini calcoli politici e sciatti meccanismi burocratici, si consuma la speranza e la vita di Marina Petrella. E dopo di lei, fatta tabula rasa non solo della dottrina Mitterand ma di ogni pur minimo sentimento umanitario e caritatevole, toccherà agli altri. Negli anni Settanta correva un orrido e truculento slogan brigatista, mutuato dalla rivoluzione cinese, che diceva: colpiscine uno per educarne cento. Ora, a parti invertite, ne colpiscono una (e poi ne colpiranno altri cento, gli ultimi stanchi e invecchiati scampati degli anni Settanta), neppure per dare l’esempio. Solo per un pigro e tardivo spirito di vendetta.
Il nostro appello e la nostra speranza è che, infine, un qualche piccolo girotondo si possa immaginare anche per protestare contro quest’uso violento della giustizia, per questo incattivimento generalizzato che non può lasciare tranquilli e che si rivolge di preferenza contro i più deboli. Perché l’intolleranza non si lascia sino in fondo usare e indirizzare, diventa tossina sociale che avvelena e colpisce tutti. Per fomentarla bastano pochi mesi, un paio di libri, qualche decreto legge e un po’ di campagne stampa. Per sradicarla occorrono invece molti decenni e intere generazioni.
Infine, un appello vogliamo lanciare al presidente Nicolas Sarkozy: per rendere coerente la posizione espressa nelle lettere inviate alle massime autorità italiane deve subordinare la effettiva estradizione alla effettiva e avvenuta concessione da parte italiana di una misura clemenziale, che assicuri a Marina Petrella di non finire, e probabilmente morire, in carcere. Diversamente, e sino ad allora, si consenta a Petrella di vivere libera in Francia, come ha potuto fare negli ultimi 15 anni e come deve essere consentito di fare a chiunque altro si trovi nelle medesime condizioni.

Sergio Segio, Patrizio Gonnella, Franco Corleone, Luigi Nieri

Per adesioni: appelli@fuoriluogo.it, info@micciacorta.it