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La Consulta monca. Appello a Mattarella

La Corte Costituzionale da quasi un anno assume decisioni in assenza di un giudice, infatti l’avv. Giuseppe Frigo si dimise dalla Corte per motivi di salute il 7 novembre 2016. Il plenum rappresenta un elemento di garanzia particolarmente in casi delicati e quando emergono orientamenti non unanimi e  la stessa legittimità delle decisioni è messa dunque in discussione.

Il Parlamento in seduta comune ha il compito di eleggere il giudice costituzionale mancante entro un mese, ma il termine non è perentorio e in molte occasioni non è stato rispettato. Nella prima repubblica la spartizione era codificata e i cinque giudici di nomina parlamentare era attribuiti tre alla Democrazia Cristiana, due al PCI e uno ai socialisti e ai partiti laici.

Questa spartizione sulla base della logica del cosiddetto arco costituzionale impedì sempre l’elezione di un esponente della cultura garantista.

Già nel 1995 si era verificata una grave impasse che spinse Franco Ippolito, esponente storico di Magistratura democratica a chiedere un metodo nuovo e trasparente con il coinvolgimento dei cittadini per valorizzare il ruolo della Corte Costituzionale; io scrissi un articolo intitolato “Camere a Consulta” sul Manifesto del 24 maggio 1995 proponendo alcune soluzioni per sbloccare una anomalia istituzionale assai grave.

Nel 1996, parliamo della XIII legislatura, presentai alla Camera dei deputati una proposta di legge (n. 167) elaborata con l’ausilio del costituzionalista dell’Università di Pavia, Ernesto Bettinelli, per superare le possibili situazioni di inadempienze nella elezione dei giudici costituzionali. La norma di chiusura prevedeva che se entro due mesi dalla vacanza verificatasi, gli organi previsti non avessero provveduto alla nomina dei nuovi giudici, si sarebbe proceduto per cooptazione da parte della Corte Costituzionale.

Purtroppo nulla è stato fatto e ora di nuovo si manifesta una pericolosa incapacità delle Istituzioni repubblicane ad assolvere doveri fondamentali. Il Parlamento è giunto al settimo scrutinio senza esito, certificando addirittura la indecente mancanza del numero legale.

Il 26 aprile il presidente della Repubblica Sergio Mattarella incontrò il Presidente del Senato Piero Grasso e la Presidente della Camera Laura Boldrini e con un comunicato stampa fece sapere di avere “sottolineato l’esigenza di approvare la legge elettorale e di nominare il giudice della Consulta”. Anche il Presidente della Corte Costituzionale Paolo Grossi ha lamentato una condizione insostenibile. Stupisce che non si manifesti una grave preoccupazione per la caduta di credibilità del Parlamento e della crisi inarrestabile della democrazia.

In primo luogo tocca al garante della Repubblica, al Presidente Mattarella esercitare la propria responsabilità, inviando un Messaggio alle Camere come previsto dall’art. 87 della Costituzione.

Un atto, solenne e severo, metterebbe i parlamentari di fronte al dovere di adempiere a una funzione essenziale. I Presidenti Grasso e Boldrini, sarebbero costretti alla convocazione quotidiana del Parlamento, in una sorta di conclave laico, in modo da chiudere una vicenda incresciosa che non può essere protratta in un momento delicato come la fine della legislatura.

Il paradosso inaccettabile è che neppure sono sul tappeto nomi alternativi; è ora che si esca dall’oscurità e che il confronto parta magari da una rosa di nomi autorevoli per favorire la convergenza più vasta anche dei 571 voti necessari.

Questo appello sarà raccolto? Di fronte a questo insulto allo stato di diritto, sono certo che Marco Pannella avrebbe iniziato un digiuno di dialogo per far rispettare l’imperativo kantiano.

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Chiusi gli Opg, ora mai più manicomi

L’11 maggio 2017, l’ultimo internato del manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto ha lasciato la struttura infernale per antonomasia e ha trovato accoglienza in una comunità terapeutica di Modica.

Questa data ha un significato storico. Finalmente si è chiusa l’era dell’internamento nelle istituzioni totali per eccellenza e i tristi nomi di Aversa, Montelupo, Reggio Emilia, Secondigliano sono destinati alla memoria di un passato che non deve tornare. Anche Castiglione delle Stiviere dovrà percorrere la strada della riforma che ha deciso la chiusura degli Opg e l’abbandono della logica manicomiale.

L’Italia può essere orgogliosa di essere all’avanguardia in Europa e nel mondo; dopo la chiusura grazie alla legge 180 del manicomio civile, ora inizia la prova ancora più difficile della cancellazione dell’orrore del manicomio criminale.

La legge 81 del 2014 ha indicato un percorso che ora segna un punto di non ritorno. La rivoluzione gentile si è affermata in questi due anni e nonostante le resistenze e le incomprensioni di parti della magistratura, della psichiatria e dell’informazione e si è consolidata sulla base della passione, dell’impegno e dell’entusiasmo di tutto il personale che si è sentito protagonista di una bella avventura.

Purtroppo il Governo e il Parlamento invece di affrontare le criticità segnalate nelle relazioni della attività di commissario e quindi di mettere in campo una modifica radicale delle misure di sicurezza secondo le line emerse nei tavoli degli Stati Generali del carcere e di cancellare le norme del Codice Penale ormai obsolete e in contrasto con la riforma, hanno lasciato passare nella discussione in Senato della legge delega sul processo penale e sull’Ordinamento penitenziario, un emendamento risibile che però ripropone a livello concettuale un ritorno indietro, configurando le Rems come nuovi Opg.

Immediatamente è scattata la mobilitazione perché questa vergogna fosse cancellata. Dal 12 aprile StopOpg ha organizzato un digiuno a staffetta che oggi è giunto al trentaseiesimo giorno con la partecipazione di oltre centocinquanta persone, tra cui deputati e senatori, psichiatri, operatori dei servizi, avvocati, giornalisti, militanti delle associazioni dei diritti civili e sociali. La catena durerà fino alla approvazione del provvedimento con la speranza della modifica di una norma figlia della improvvisazione.

La Conferenza delle regioni ha espresso una netta opposizione; il CSM ha approvato una delibera che dà indicazioni ai magistrati perché la riforma sia implementata e non osteggiata e nel frattempo si è costituito un Coordinamento delle Rems per monitorare lo sviluppo delle buone pratiche attraverso la raccolta dei dati e lo scambio di esperienze.

Questa iniziativa dal basso sarà presentata domani, giovedì 18 a Bologna all’interno della Riunione Scientifica SIEP presso l’Aula Magna dell’Ospedale Maggiore.

La chiusura degli Opg ha rimesso in moto la discussione sulla salute mentale nel paese e sugli obiettivi da perseguire nei Dipartimenti, nelle Asl e nelle Regioni. Al centro della riflessione deve essere messo il tema della cura e delle alternative alla detenzione per i detenuti con patologie psichiatriche o con disturbi psichici o comportamentali.

E’ una partita che va affrontata e vinta per tutti i soggetti coinvolti e in tutti i luoghi della sofferenza. Una rivalutazione del sistema di welfare deve partire proprio dall’anello più debole, abbandonando le catene simboliche e materiali e riproponendo il principio che la libertà è terapeutica.

Diritti e dignità sono il fondamento della Costituzione ma si devono inverare nelle prassi quotidiane.

Pubblicato per la rubrica di Fuoriluogo su il Manifesto del 17 maggio 2017

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Carcere, un anno di combattimento

Anche i provvedimenti sul carcere hanno subito lo stop nell’attesa magica del 4 dicembre e si è perso tempo prezioso. Il risultato del referendum ha determinato la crisi del governo e la nascita del nuovo esecutivo guidato da Paolo Gentiloni. Alla Giustizia è stato confermato il ministro Andrea Orlando con soddisfazione di molti, fra cui i garanti dei diritti dei detenuti, per la fiducia per le cose fatte ma soprattutto per la speranza di vedere realizzate le importanti promesse uscite dagli Stati Generali.

La situazione nelle carceri non è migliorata dal punto di vista della qualità della vita ed è assai preoccupante per il lento ma costante aumento delle presenze, infatti a fine novembre è stata abbondantemente superata la cifra di 55.000 detenuti presenti.

Il rischio del sovraffollamento incombe nuovamente in assenza dei tanto declamati provvedimenti strutturali che in realtà richiederebbero una nuova legge sulle droghe. Infatti come testimoniato dal 7° Libro Bianco sulle droghe, nonostante l’abbattimento della legge Fini-Giovanardi ad opera della Corte Costituzionale, ancora il 32% delle presenze in carcere è dovuto alla violazione dell’art. 73 della legge antidroga sulla detenzione di sostanze stupefacenti. Si tratta dunque di piccoli spacciatori o di consumatori vittime del proibizionismo, ma non mi pare che questo tema sia all’ordine del giorno, basta vedere la sorte delle proposte di legalizzazione della canapa.

Anche la via straordinaria della clemenza, richiesta alla fine del giubileo da Papa Bergoglio, non è stata presa in alcuna considerazione né dal Governo né dal Presidente della Repubblica.

Che fare dunque? Rassegnarsi all’ordinaria amministrazione accompagnata dalla silenziosa tragedia quotidiana dei suicidi, dei tanti tentati suicidi, dei troppi atti di autolesionismo e dei molti digiuni di protesta?

I garanti regionali e comunali intendono chiedere al ministro Orlando un confronto sul destino della legge delega all’esame del Senato. I tempi a disposizione perché un patrimonio di idee e proposte non venga dilapidato impongono delle scelte immediate. O lo stralcio della parte penitenziaria o, forse meglio, un disegno di legge per affrontare alcuni nodi non procrastinabili: il diritto all’affettività, il nuovo ordinamento minorile e la modifica delle misure di sicurezza urgenti dopo la chiusura degli Opg.

Nel frattempo l’idea di una iniziativa per cambiare le condizioni di vita all’interno delle patrie galere a legislazione vigente è emersa nell’ambito di un Seminario di preparazione del Convegno in onore di Sandro Margara realizzati nell’ottobre scorso, “Lo stato del carcere dopo gli Stati Generali”. Il 15 dicembre ho sottoscritto con il Provveditore dell’Amministrazione della Toscana Giuseppe Martone un documento assai impegnativo, chiamato Patto per la Riforma.

Il proposito assai ambizioso è di attuare una sperimentazione e un’anticipazione dei contenuti della riforma delineata nell’atto di indirizzo 2017, in 14 punti, dal ministro Orlando e tra cui spiccano il lavoro, l’affettività, le misure alternative, la salute.

Cose concrete dunque. A cominciare dalla sostituzione degli sgabelli nelle celle con sedie decenti. La ricerca dell’afflizione è stata costruita con cura certosina e meticolosa e occorre rompere abitudini e assuefazioni. L’elenco è lungo: garantire l’acqua calda e le docce nelle celle; rendere le biblioteche fruibili per la lettura e lo studio; attivare mense e locali per fare la spesa; progettare gli spazi e i luoghi per l’affettività.

La dignità, l’autonomia e la responsabilità passano da una diversa quotidianità. Ci aspetta un anno di combattimento.

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Carcere, la riforma nel nome di Margara

MargaraLunedì abbiamo salutato per l’ultima volta Alessandro Margara, che ha chiuso la sua lunga vita a Firenze, nella stessa chiesa dove due anni fa gli fummo vicini in occasione del funerale della sua adorata compagna di vita, Nora Beretta.

Nel dicembre scorso aprimmo un convegno sulla riforma penitenziaria del 1975 con la presentazione della raccolta di scritti di Margara intitolata “La giustizia e il senso di umanità”; una antologia di quattrocentocinquanta pagine sulle questioni del carcere, degli Opg, delle droghe e sul ruolo della Magistratura di Sorveglianza.

Nella mia prefazione, significativamente intitolata Il cavaliere dell’utopia concreta, ripercorro la sua straordinaria vicenda umana e politica, dedicata alla costruzione di un modello di pena e di carcere rispettoso della Costituzione, in specie dell’articolo 27 che prescrive il principio del reinserimento sociale del carcerato. La ricchezza del suo pensiero, espresso in tanti saggi, articoli, documenti, proposte di legge, è davvero impressionante.

E’ un volume che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dovrebbe diffondere in tutte le carceri e farne la base della formazione di tutto il personale.

Sandro Margara ha ricoperto molti incarichi e in tutti ha lasciato un’impronta indelebile. Come giudice di sorveglianza è stato un maestro per i suoi colleghi e un mito per i suoi “clienti”, i detenuti che sapevano che c’era un giudice per gli ultimi. Ricevette la nomina a capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dal ministro Giovanni Maria Flick, dopo la tragica e improvvisa scomparsa di Michele Coiro. Quella nomina rappresentò una svolta simbolicamente rivoluzionaria, e accese davvero la speranza dei detenuti e anche di molti operatori. Il suo licenziamento pochi anni dopo, preteso dal potere sindacale e concesso dalla subalternità della politica, dette il segno della restaurazione.

Fu poi scelto come presidente della Fondazione Michelucci e infine fu eletto come primo Garante dei detenuti della Regione Toscana. Lasciò quest’ultimo incarico dopo averne definito il carattere e volle che fossi io il suo successore.

Ho avuto la fortuna di stargli vicino, di confrontarmi con lui per tanti anni, di collaborare su questioni importanti:  voglio ricordare soprattutto la stesura del Regolamento penitenziario del 2000 e la costruzione del Giardino degli Incontri nel carcere di Sollicciano.

Molti hanno conosciuto e amato l’uomo intelligente, acuto, capace di ironia acuminata accompagnata da coraggio intellettuale e da assoluto rigore morale. La sua intransigenza sui principi non lo portava a posizioni astratte, ma si inverava sempre in proposte concrete e realizzabili.

Ricordiamo le sue ultime e disincantate considerazioni avanzate al Convegno su “Il carcere al tempo della crisi”, quando affermava: “Forse i progetti sono consentiti solo ai vecchi, che sono gli ultimi giovani (o illusi) rimasti. Non è possibile stare zitti, anche se parlare fosse solo consolatorio”. Sono parole che ci interrogano, tutti.

Gli Stati Generali dell’esecuzione penale, voluti dal ministro Andrea Orlando, hanno coinvolto tante energie in uno sforzo riformatore condiviso. Se si vuole davvero la riforma, anche parziale, si dovrà ripartire dalle proposte di Margara, a cominciare dal diritto all’affettività in carcere, dall’abolizione dell’ergastolo (almeno quello ostativo) e dalla modifica del regime del 41bis per eliminare gli aspetti macroscopicamente contrari ai diritti umani.

Alessandro Margara è stato un riformatore convinto. Le disillusioni che ha vissuto, lungi da piegarlo, hanno semmai rafforzato la limpidezza del suo pensiero e delle sue scelte politiche. Tocca a noi essere alla sua altezza e non mollare.

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Droghe, il Libro Bianco spinge la riforma

copertina2016Abbiamo deciso di continuare la redazione dei Libri Bianchi sugli effetti collaterali della legislazione antidroga, anche dopo la bocciatura della Fini-Giovanardi da parte della Corte Costituzionale. Resta in piedi, infatti, la legge Iervolino-Vassalli che segnò la svolta proibizionista italiana. Il Libro Bianco promosso dalla Società della Ragione e condiviso da Forum Droghe, Antigone, Cnca e da numerose associazioni e movimenti raccolti nel Cartello di Genova, anticipa anche quest’anno la Relazione del Governo al Parlamento.

Patrizia De Rose, che ha raccolto la difficile eredità di Serpelloni alla guida del Dipartimento delle politiche antidroga, ha il merito di avere riaperto un confronto non ideologico tra il Governo e le Ong, culminato, per ora, in seminari di preparazione e di valutazione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite dedicata alle politiche sulle droghe tenutasi in aprile a New York. Proprio in questi giorni è tornata a circolare la voce di un azzeramento del DPA e dell’assorbimento nel Ministero della Salute. Non vogliamo ergerci a difensori di una struttura inventata dalla destra, ma vogliamo discutere pubblicamente delle scelte che riguardano la politica delle droghe che riguardano la politica internazionale, la giustizia, l’informazione, le città, la scuola, lo stato sociale, e dunque ci pare inadeguata una collocazione settoriale di una politica che, viceversa, deve coinvolgere diversi branche della compagine governativa. Piuttosto, quel Dipartimento dovrebbe dismettere quel nome battagliero ereditato dalla furia ideologica dei suoi inventori e meriterebbe un referente politico nella compagine di governo, tra i sottosegretari alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Il Governo è invece ancora inadempiente nella convocazione della Conferenza nazionale triennale: l’ultima (finta) occasione di confronto risale al 2009 mentre l’ultima vera addirittura al 2001 a Genova.

Recentemente la Consulta ha inferto un altro colpo alla Fini- Giovanardi, cassando l’art. 75bis che prevedeva l’aggravamento delle sanzioni amministrative che rimangono un buco nero dello stigma contro i giovani consumatori. Questa ulteriore decisione – cui si aggiungono alcune recenti sentenze sulla coltivazione della canapa dei tribunali di Ferrara e Firenze – aggrava il giudizio sulla latitanza della politica. Certo alcune novità sono state introdotte negli anni scorsi, soprattutto per rispondere alla situazione insostenibile del sovraffollamento delle carceri per cui l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani. E gli Stati generali sull’esecuzione penale voluti dal Ministro Orlando hanno dato utili indicazioni per incentivare le alternative al carcere per i tossicodipendenti e per migliorare il trattamento socio-sanitario dei detenuti con problemi di dipendenza. Sono indicazioni positive, ma non sufficienti. In parlamento, oltre alle proposte di legalizzazione della cannabis (ferme, purtroppo, allo stato delle audizioni, ma ora sostenute anche da una campagna di iniziativa popolare), sono state depositate in Parlamento (alla Camera da Fossati e altri, al Senato da Lo Giudice e altri) le nostre proposte per la riforma dell’intera parte sanzionatoria  del testo unico 309 del 1990 e la ripresa di adeguate politiche socio-sanitarie per il trattamento delle dipendenze problematiche. Non solo: il Consiglio regionale del Friuli, primo – speriamo – tra altri, ha approvato una “legge voto” per la riforma del testo unico sulla base della nostra proposta. Il solco, dunque, è tracciato e speriamo che il Parlamento e la Conferenza nazionale sulle droghe possano discuterne senza pregiudizi.

(leggi il Libro Bianco su www.fuoriluogo.it/librobianco)

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Gratteri, il carcere del lavoro forzato

nicola-gratteriA leg­gere i reso­conti dell’intervento svolto dal pro­cu­ra­tore aggiunto di Reg­gio Cala­bria Nicola Grat­teri il 5 giu­gno davanti alla Com­mis­sione diritti umani del Senato sull’applicazione del regime peni­ten­zia­rio per gli appar­te­nenti ai ver­tici delle orga­niz­za­zioni mafiose, si tira un sospiro di sol­lievo per lo scam­pato peri­colo di avere que­sto pub­blico mini­stero mini­stro della giustizia.

L’analisi di Grat­teri sul fun­zio­na­mento del 41bis è stata dav­vero a tutto campo. Ha con­te­stato la distri­bu­zione dei 750 dete­nuti in regime di car­cere duro in 12 isti­tuti, con i rischi di inter­pre­ta­zioni diverse da parte dei diret­tori delle norme e ha indi­vi­duato la solu­zione nella costru­zione di 4 nuovi car­ceri dedi­cati allo scopo con 4 diret­tori specializzati.

Grat­teri si è doman­dato anche la ragione della chiu­sura negli anni novanta delle car­ceri di Pia­nosa e dell’Asinara, auspi­cando la loro ria­per­tura con que­sta desti­na­zione. La man­canza di memo­ria sto­rica è dav­vero una male­di­zione, per­ché attri­bui­sce scelte moti­vate e dibat­tute a pura casua­lità o super­fi­cia­lità.
Va ricor­dato che la scelta di chiu­dere le car­ceri spe­ciali fu dovuta al rifiuto dove­roso da parte dello stato demo­cra­tico di sop­por­tare con­di­zioni di vio­lenza inau­dita e di gestioni para­noi­che da parte di diret­tori imme­de­si­mati nella parte di ven­di­ca­tori e aguz­zini. Si vuole tor­nare a quella pra­tica di tor­tura appena ora che l’Italia ha evi­tato una con­danna defi­ni­tiva per vio­la­zione dell’art. 3 della Con­ven­zione dei diritti umani da parte della Cedu per trat­ta­menti cru­deli e degra­danti? Va rico­no­sciuto al pro­cu­ra­tore anti ‘ndran­gheta di avere pro­po­sto una dimi­nu­zione dei dete­nuti a regime spe­ciale a 500 per una appli­ca­zione seria affi­data al Gom, il reparto spe­cia­liz­zato della Poli­zia Peni­ten­zia­ria, poten­ziando i con­trolli anche durante i col­lo­qui. Infatti “nel momento in cui c’è un col­lo­quio biso­gna guar­dare la mimica fac­ciale, i segni che il dete­nuto fa ai parenti con brac­cia e mani”.

A que­sto pro­po­sito il pro­cu­ra­tore ha invi­tato il legi­sla­tore ad inter­ve­nire su un vuoto enorme, cioè il caso della moglie del dete­nuto che è anche avvo­cato, per­ché in quel caso il col­lo­quio non si può regi­strare. Non è chiara la solu­zione pro­po­sta: obbli­gare a cam­biare avvo­cato (comun­que i col­lo­qui non sareb­bero regi­strati) o a divor­ziare? Nell’incertezza si legge anche che alla man­canza di per­so­nale esperto si può ovviare con il tra­sfe­ri­mento di mili­tari dell’esercito ade­gua­ta­mente for­mati e comun­que dimi­nuire il numero sovrab­bon­dante di agenti della poli­zia peni­ten­zia­ria pre­senti in via Are­nula, la sede del mini­stero della giustizia.

Il cul­mine dello slan­cio rifor­ma­tore si è espresso sulla que­stione del lavoro per i dete­nuti. “Io sono per i campi di lavoro, non per guar­dare la tv. Chi è dete­nuto sotto il regime del 41 bis col­tivi la terra se vuole man­giare. In car­cere si lavori come tera­pia rie­du­ca­tiva. Occorre farli lavo­rare come rie­du­ca­zione, non a paga­mento. Se abbiamo il corag­gio di fare que­sta modi­fica, allora ha senso la rie­du­ca­zione. Farli lavo­rare sarebbe tera­peu­tico e ci sarebbe anche un recu­pero di imma­gine per il sistema”.

Ci vor­rebbe dav­vero un bel corag­gio a fare strame delle norme peni­ten­zia­rie euro­pee, delle sen­tenze della Corte Costi­tu­zio­nale, della legge Smu­ra­glia e della riforma peni­ten­zia­ria del 1975, peg­gio­rando addi­rit­tura il Rego­la­mento di Alfredo Rocco del 1932! Nei reso­conti dell’audizione non si leg­gono le rea­zioni dei commissari.

Il silen­zio gla­ciale appare la rispo­sta ade­guata. Di fronte a simili derive è il caso che il mini­stro Orlando avvii subito le pro­ce­dure per la nomina del garante nazio­nale dei diritti dei detenuti.

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Il decreto droga nell’inverno del diritto

corleone-aperteIl 21 marzo di quest’anno sarà ricordato non come il primo giorno di primavera, ma come il culmine dell’inverno della repubblica. La notte è calata con la firma del Presidente Napolitano di un decreto totalmente privo dei presupposti costituzionali di necessità e urgenza in materia di disciplina degli stupefacenti.
La ministra della Sanità Lorenzin, forse subornata da qualcuno o per interesse di partito, aveva predisposto un decreto che ripristinava la legge Fini-Giovanardi cancellata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 32 del 12 febbraio 2014. Il colpo di mano fu stoppato grazie all’intervento del ministro della Giustizia Orlando. In un Paese normale la vergogna sarebbe dovuta cadere sugli autori di una azione così spudorata. Invece Napolitano non solo ha controfirmato il decreto ridimensionato, seppur amputato della parte penale e della tabella unica delle sostanze,  in realtà gravissimo dal punto di vista simbolico; ma tra le premesse giustificative del decreto  ha accettato una considerazione sulla decisione della Corte Costituzionale che rappresenta un vero e proprio insulto al diritto, allo stato di diritto e quindi alla democrazia.
Nella premessa al decreto si sostiene che “la pronuncia di incostituzionalità è fondata sul ravvisato vizio procedurale dovuto all’assenza dell’omogeneità e del necessario legame logico-giuridico tra le originarie disposizioni del decreto-legge e quelle introdotte dalla legge di conversione e non già sulla illegittimità sostanziale delle norme oggetto della pronuncia”: è davvero sconcertante una manifestazione di cultura politica che non comprende che la forma è sostanza soprattutto quando si discute dei principi della Carta costituzionale. E’ desolante il fatto che il Presidente del Consiglio accrediti una riduzione del valore di una sentenza fondamentale che ha condannato con assoluta nettezza l’abuso di potere perpetrato, l’esercizio arrogante della pratica della dittatura della maggioranza e la violazione della sovranità del Parlamento. Se il Governo avesse voluto rispettare doverosamente la sentenza della Corte Costituzionale avrebbe dovuto prevedere, anche per decreto, una misura per rendere giustizia alle migliaia di condannati in via definitiva in base a una legge incostituzionale. Sarebbe stato opportuno anche un intervento per modificare la norma sui fatti di lieve entità che non prevede una differenziazione tra droghe leggere e pesanti come nella legge tornata in vigore e che per la cannabis ha una pena (da uno a cinque anni) troppo alta rispetto alla pena base (da due a sei anni).
Invece il decreto si preoccupa di reinserire competenze per il Dipartimento antidroga  e di far fuori il ministero della giustizia dall’approvazione delle tabelle delle sostanze soggette a controllo. Nella tabella II che riguarda la cannabis ripristina il divieto della coltivazione anche a fini terapeutici. Viene previsto per gli operatori del servizio pubblico per le tossicodipendenze e delle strutture private autorizzate l’obbligo di segnalare all’autorità competente tutte le violazioni commesse dalla persona sottoposta al programma terapeutico alternativo a sanzioni amministrative o ad esecuzione di pene detentive e, dulcis in fundo, si ristabilisce che i dosaggi e la durata del trattamento con metadone abbiano l’esclusiva finalità clinico-terapeutica di avviare gli utenti a successivi programmi riabilitativi. La finalità revanscista è evidente dalla lettura delle decine e decine di commi di un decreto sgangherato che ripristina la Fini-Giovanardi senza nessun motivo di necessità e urgenza. Tocca ora al Parlamento cancellare questa vergogna.

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Uruguay: la battaglia di Canne

Uruguay-legalize-marihuanaFranco Corleone scrive per la rubrica di Fuoriluogo sul Manifesto dell’8 gennaio 2014.

Il 10 dicembre del 2013 il Senato dell’Uruguay ha approvato definitivamente una legge di legalizzazione della canapa che rovescia il paradigma su cui si è costruita l’ideologia del proibizionismo. Due anni fa (Manifesto, 13 aprile 2011) in questa rubrica ci eravamo occupati della discussione in atto nel Parlamento di quel Paese sulle soluzioni possibili per sconfiggere il narcotraffico e per affermare una politica di riduzione del danno.

Non è stata una decisione facile né improvvisata. Oggi possiamo dire pubblicamente che abbiamo avuto qualche ruolo in questa svolta epocale, infatti chi scrive assieme a Riccardo De Facci e Cecco Bellosi ebbe tre anni fa un lungo incontro di lavoro con l’Ambasciatore dell’Uruguay a Roma presentando idee e proposte che largamente sono state recepite. Potremmo dire che la proposta di legalizzazione della cannabis presentata alla Camera dei Deputati in Italia nel 1995 (A.C. n. 2362) e nel 1996 (A.C. n. 128) con oltre 150 sottoscrizioni ha visto la luce a Montevideo.

Infatti è prevista per la prima volta nel mondo la regolamentazione della produzione, della vendita e del consumo ammettendo esplicitamente non solo l’uso terapeutico ma anche quello ricreativo. E’ prevista anche la coltivazione per uso personale individualmente e attraverso i cannabis club.

Si è così dimostrato che una forte e rigorosa volontà politica supera i tabù ideologici e i pretesi divieti imposti dalle Convenzioni internazionali; il presidente Mujica ha affermato con nettezza che cento anni di persecuzione del consumatore non hanno prodotto alcun risultato e che l’alternativa è rappresentata da un consumo responsabile e vigilato, fuori dai circoli criminali.

L’obiettivo dichiarato è la salute pubblica da raggiungersi attraverso politiche educative e la prevenzione dell’uso problematico, con il divieto di ogni forma di pubblicità. E’ previsto il controllo del livello di Thc presente nelle piante e la qualità del prodotto. Il prezzo concorrenziale a quello del mercato sarà di un dollaro al grammo.

La scelta dell’Uruguay, un paese di soli tre milioni e mezzo di abitanti, ha dimostrato che con relativa facilità ci si può sottrarre ai ricatti delle agenzie dell’Onu. Il presidente dell’Ufficio Internazionale di Controllo sui Narcotici (INCB) Raymond Yans ha proclamato che la riforma non protegge i giovani e addirittura produrrà un effetto perverso di incoraggiamento verso una precoce sperimentazione.  David Dadge, portavoce dell’Unodc ha lamentato che l’Uruguay abbia preso una decisione da solo senza aspettare gli esiti dell’Assemblea Generale dell’Onu prevista per il 2016. Non mancano gli anatemi sul fatto che l’Uruguay con la sua scelta radicale, più rigorosa di quella dell’Olanda, abbia violato la Convenzione del 1961 di cui è parte. Sono ululati dei cani da guardia di una narcoburocrazia al tramonto, perché il fallimento della war on drugs è sotto gli occhi di tutti.

Dopo la vittoria della Bolivia di Morales all’Onu per il riconoscimento della legittimità dell’uso della foglia di coca come patrimonio della cultura indigena, dall’America latina arriva dunque una nuova lezione. D’altronde anche negli Stati Uniti, senza squilli di tromba, si sono registrate significative riforme della legislazione sulla marijuana in ben dodici stati nel 2013.

E’ ora che anche l’Italia abbandoni la politica di repressione che riempie le galere di consumatori per il possesso di sostanze stupefacenti, in notevole percentuale di canapa, e per fatti di lieve entità. Nel decreto Cancellieri sul carcere si comincia ad avanzare qualche modesta proposta di modifica della Fini-Giovanardi. Il Parlamento mostri più coraggio!

Marijuana: come funziona la legge dell’Uruguay nell’infografica su fuoriluogo.it

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Droghe, la parola alla Corte

Franco Corleone presenta la questione di legitimità costituzionale che sarà presentata in occasione dell’udienza del processo Rototom per la rubrica di Fuoriluogo sul Manifesto del 23 gennaio 2012. Scarica il dossier (dal sito de la Società della Ragione).

cop-costituzionalitaOggi pomeriggio a Udine, si tiene un seminario organizzato dalla Società della Ragione sulla incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi sulle droghe, alla vigilia del processo contro Filippo Giunta, creatore del festival Rototom Sunsplash e accusato di agevolazione all’uso di sostanze stupefacenti.
Sono sette anni che questa legge provoca effetti disastrosi sul funzionamento della giustizia e sulla condizione delle carceri, determinando il sovraffollamento che è alla base delle condanne  della Corte di Strasburgo per trattamenti disumani e degradanti.
La proposta di Gianfranco Fini fu presentata nel 2003, ma vide la luce solo nel 2006 grazie a un colpo di mano del sottosegretario Carlo Giovanardi: il disegno fu trasformato in maxi emendamento, inserito nel decreto legge dedicato alle Olimpiadi invernali di Torino.
L’opposizione fu tenace e incalzante, in Parlamento e nel Paese. Fu sconfitta solo per uno stupro istituzionale e per la latitanza del Quirinale.
Sul mensile Fuoriluogo vennero poste le questioni di legittimità costituzionale: per la prima volta il legislatore cancellava la volontà espressa dai cittadini nel referendum del 1993 a favore della depenalizzazione del possesso di sostanze stupefacenti per  uso personale. Furono anche segnalate due altre gravi lacerazioni costituzionali rispetto ai principi del giusto processo e delle competenze regionali.
Alcune Regioni sollevarono la questione di legittimità costituzionale per le norme che ledevano la loro autonomia legislativa e organizzativa. La Regione Emilia-Romagna denunciò l’inserimento strumentale delle misure antidroga nel decreto Olimpiadi, che configurava, già di per sé, “un autonomo vizio di costituzionalità”.
Tale rilievo non si traduceva tuttavia nella specifica denuncia della violazione dell’art. 77 della Costituzione, poiché  all’epoca la giurisprudenza della Corte Costituzionale non si era ancora consolidata nel senso della possibilità di verificare i requisiti di “necessità e urgenza” dei decreti legge anche dopo la loro conversione.
Dopo le pronunce della Corte del 2010 e del 2012, le condizioni sono mutate: le sentenze hanno dettato criteri vincolanti per l’approvazione dei decreti legge, stabilendo in particolare il divieto per il Parlamento di inserire disposizioni estranee all’oggetto e alle finalità del testo originario del decreto di urgenza.
Un gruppo di lavoro, coordinato da Luigi Saraceni, ha messo a punto un documento di analisi legislativa e di ricostruzione storica della vicenda, predisponendo una sorta di modello per sollevare davanti all’Autorità giudiziaria la questione di legittimità costituzionale.
Anche da questo versante “giudiziario”, ci sono dunque tutte le ragioni per riprendere la battaglia per un cambio della politica delle droghe in Italia, mettendo in luce il vizio d’origine di una svolta repressiva che ha prodotto gravi guasti umani.
La predisposizione di questo “schema” intende fornire  agli avvocati impegnati ogni giorno nella difesa di giovani consumatori o tossicodipendenti, uno strumento per fermare la macelleria giudiziaria. E’ auspicabile che la parola passi presto alla Corte Costituzionale. La cancellazione del decreto non produrrebbe un vuoto normativo (tornerebbe infatti in vigore la legge precedente), ma creerebbe le migliori condizioni per una riforma sostanziale della legge.

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Carcere, decreto legge subito

Il Presidente Napolitano ha di recente rivolto l’ennesimo invito al Governo e al Parlamento per approvare misure strutturali e cancellare la vergogna di una condizione carceraria che vanifica l’articolo 27 della Costituzione (oltre a umiliare l’Italia in Europa).
La settimana scorsa, i Garanti dei diritti dei detenuti hanno tenuto contestualmente quindici conferenze stampa indicando misure concrete da prendere subito. Silenzio, assoluto e impenetrabile, da parte del governo. Non si sa se attendere rassegnati l’Apocalisse oppure ribellarsi e insistere per senso di responsabilità fino alle estreme conseguenze.
Il sovraffollamento non è una calamità naturale né un mostro invincibile: basta decidere di affrontare le cause strutturali, “facendo le riforme”, come si usa dire.
E’ urgente un decreto legge per cancellare le norme più vergognose e “affolla-carcere” della legge sulle droghe, alla radice della crescita incontrollata dei detenuti. Solo l’anno scorso sono entrate in prigione in violazione della normativa antidroga 28.000 persone (fra consumatori e piccoli spacciatori), mentre sono 15.000 i tossicodipendenti ristretti su un totale di quasi 67.000: la metà dei detenuti ammassati e stipati nelle patrie galere hanno a che fare con la legge proibizionista e punitiva del 2006. Legge che, in spregio alle norme costituzionali sulle ragioni di necessità e urgenza dei decreti, fu inserita abusivamente nel decreto legge sulle Olimpiadi. Il Presidente Napolitano ha invocato misure di “prepotente urgenza”: queste parole, se non vengono archiviate come esercizio di retorica, obbligano il Governo (e precipuamente la ministra della Giustizia Severino) a emanare un decreto legge per evitare l’arresto agli accusati di fatti di lieve entità e per far uscire i tossicodipendenti e inviarli a programmi alternativi (oggi per lo più preclusi da vincoli assurdi e dall’applicazione della legge Cirielli sulla recidiva).
Un provvedimento giusto, fondato e indispensabile. Non è dignitoso baloccarsi con l’annuncio di misure parziali e ininfluenti, come la messa alla prova e generiche depenalizzazioni, senza aggredire il macigno della normativa antidroga.
Se un decreto legge per modificare le norme più discutibili della legge antidroga è la priorità, altre cose buone si possono fare, dall’introduzione del reato di tortura, alla legge per l’affettività in carcere. La riforma del carcere non si realizza con la costruzione di nuove galere ma con l’applicazione del Regolamento del 2000, per garantire condizioni di vita dignitose che favoriscano il reinserimento sociale dei detenuti.
E’ paradossale che il governo non trovi i fondi per la legge Smuraglia sul lavoro in carcere mentre rifinanzia il contratto con la Telecom fino al 2018 per i fantomatici braccialetti elettronici, quando la Corte dei Conti ha denunciato lo spreco di 110 milioni di euro in dieci anni per l’utilizzo di soli15 apparecchi di controllo per la detenzione domiciliare (sic!).
Infine, l’agenda della politica in vista delle elezioni. La riforma della giustizia, da terreno di scontro, può divenire il fondamento del patto sociale, con l’approvazione (finalmente!) del nuovo codice penale.
Non è immaginabile una stagione di ricostruzione del Paese se non si mette al centro l’affermazione del diritto, dei diritti umani e del garantismo.

Franco Corleone, per la rubrica di Fuoriluogo sul Manifesto del 17 ottobre 2012