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I miei articoli Le carceri

Vienna. L’incantesimo si è rotto.

Articolo per Notizie Verdi del 14 marzo 2009.

Antonio Maria Costa, capo dell’Agenzia antidroga delle Nazioni Unite, sognava forse di ripetere i fasti dell’Assemblea Generale di New York del 1998 nella quale fu accolto il Piano Arlacchi per un mondo senza droga da conquistare in dieci anni. Era un obiettivo irrealistico ma dotato di fascino millenaristico; Pino Arlacchi finì malamente la sua avventura all’Onu e l’oscuro professore raccolse la difficile eredità.
Bisogna riconoscergli una certa abilità nel tessere rapporti di potere con gli stati più potenti e che influenzano le scelte di politica internazionale sulle droghe e soprattutto nell’avere costruito la 52° assise della CND come occasione per riproporre la strategia perdente della proibizione e della repressione.
Occorre una capacità diabolica nel trasformare un fallimento conclamato che dovrebbe portare a cambiare rotta e a licenziare i responsabili di una strategia meramente illusoria e consolatoria, in un riaffermazione pervicace della stessa strada spacciando dati e cifre diversi dalla realtà.
Non solo, l’impudenza arriva a chiedere maggiori fondi e soldi per un organismo, l’Unodc, già oggi costoso, inutile e dannoso.
Per fortuna l’Economist, l’autorevole settimanale britannico proprio nei giorni della riunione di Vienna invitava a cessare la guerra alla droga, corredando questa richiesta con il quadro dei costi e degli insuccessi.
Un lavoro intenso della diplomazia doveva portare a una nuova Dichiarazione Politica che rappresentasse un diverso livello di consapevolezza dei problemi e di attenzione alle pratiche sociali che in questi dieci anni si sono sviluppate sotto la denominazione di riduzione del danno. In questo compito l’Unione Europea aveva assunto un ruolo che ridimensionava il tradizionale strapotere degli Stati Uniti e dei paesi satelliti, autoritari e non democratici.
Il colpo di scena è avvenuto quando l’Italia, fino a quel momento silente e d’accordo con i 27 paesi dell’Unione si è pesantemente smarcata e con l’alleanza della Svezia, tradizionale punto di riferimento del paternalismo solidarista e del moralismo contro il “vizio” in nome della virtù ha pesantemente contestato l’inserimento nel testo del riferimento alle politiche di salute pubblica.
Così è stato. La pressione di Carlo Giovanardi da Roma, con il sostegno del Vaticano, in nome della Vita, ovviamente, ha avuto successo e dal testo ridotto a un collage di frasi banali e retoriche messo insieme da burocrati annoiati è scomparso il riferimento alla riduzione del danno.
Un documento senza anima e che raggiunge il ridicolo quando rinvia al 2019, l’obiettivo dell’eliminazione della produzione e del consumo di sostanze stupefacenti.
Lord Keynes ammoniva che a lungo termine saremo tutti morti. Ma ai guerrieri della droga fa comodo illudere sul futuro per continuare a ingannare sul presente.
Ma il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. La prepotenza italiana non è piaciuta a molti  e per la prima volta in sede di approvazione di un documento che non viene votato ma accolto e adottato per consenso, un nutrito gruppo di  paesi, soprattutto europei, hanno espresso una riserva puntuale sul Documento censurando l’assenza di un riferimento che è diventato l’elemento discriminante. Quando il rappresentante della Germania, a nome della Gran Bretagna, della Spagna, del Portogallo, dell’Olanda e di altre venti nazioni, ha fatto la dichiarazione, si è capito che il castello di carta fondato sull’unanimismo pigro era irrimediabilmente crollato. L’ira del delegato della Russia rendeva plasticamente il significato della svolta.
Un altro colpo all’ipocrisia del Palazzo di Vetro è venuto dall’intervento del Presidente Evo Morales che ha chiesto con pacatezza ma altrettanta fermezza la cancellazione dalla tabella delle sostanze vietate la foglia di coca in nome del rispetto della cultura delle popolazioni indigene e della produzione dei contadini boliviani. Morales ha sottolineato il carattere politico della sua richiesta e ha difeso l’utilizzo millenario di una pianta che non può essere sradicato autoritariamente con una decisione del 1961. I sepolcri imbiancati sono ancor più impalliditi quando Morales ha iniziato a masticare una foglia di coca!
Solo Giovanardi può essere soddisfatto del ruolo dell’Italia, come fanalino di coda dell’Europa. A Trieste si celebra infatti il trionfo della carcerazione di massa e della criminalizzazione di migliaia di giovani grazie a una legge che punisce il consumo di tutte le sostanze con pene spropositate.  I tossicodipendenti marciscono in galera, ma questa decisione è per il loro bene, comunque per salvare la loro anima e redimerli dal peccato. La provincia sa essere davvero crudele!

Franco Corleone

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I miei articoli Le droghe

Ma questa battaglia non si vince con il moralismo

Articolo uscito su Il Piccolo di Trieste dell’11 marzo

Trieste sarà invasa il 12 marzo da una corte di ministri che si eserciteranno in esercizi di diffusione di paura e di terrore in nome della guerra alla droga. Il maestro di cerimonie sarà il sottosegretario Carlo Giovanardi che da anni si è appassionato al ruolo di piccolo zar antidroga italiano, convinto che questo tema offrisse un significativo consenso a chi alimenta il timore tra i cittadini per il destino dei loro figli o nipoti. Per sua sfortuna la questione della politica delle droghe è uscita dall’agenda della politica e rimane all’onore della cronaca solo nei casi di incidenti stradali in cui i responsabili vengono additati come “drogati” o “ubriachi”. Le emergenze funzionali alla strategia dell’allarme sociale sono altre: gli stupri, i rom, l’immigrazione, le ronde.
L’occasione è rappresentata dalla convocazione della Conferenza nazionale sui problemi connessi con la diffusione delle sostanze stupefacenti allo scopo di individuare eventuali correzioni alla legislazione antidroga dettate dall’esperienza applicativa da presentare al Parlamento. Tanto più che da tre anni è in vigore la legge chiamata Fini-Giovanardi, una riforma caratterizzata in senso proibizionista e punitivo, che fu approvata con un colpo di mano (inserita in un decreto legge sulle Olimpiadi e votata senza dibattito con il ricorso a un doppio voto di fiducia). E’ incredibile che invece questa questione sia assente come tema centrale nell’assise di Trieste, organizzata nella più assoluta clandestinità e senza il minimo coinvolgimento dei principali attori che nei servizi pubblici, nelle unità di strada e nelle comunità non autoritarie si occupano delle persone vittime della legislazione più ancora che delle sostanze. E’ censurato anche il tema della riduzione del danno che afferma la priorità del diritto alla salute.
Addirittura si è vietato a chi rappresenta una visione alternativa il diritto di parola e perfino la possibilità di diffondere libri, giornali, dossier di chi la pensa diversamente. Assisteremo a un meeting blindato! Per questo Forum Droghe denuncia l’illegittimità di questa costruzione propagandistica e non sarà presente.
L’autorevole settimanale Economist questa settimana ha denunciato il fallimento della proibizione delle droghe illegali che data da cento anni e in particolare la scelta dell’Onu che dieci anni fa a New York rilanciò con enfasi il sogno di un mondo senza droga , da raggiungere entro il termine di dieci anni. Il bilancio sarà fatto a Vienna negli stessi giorni di Trieste e la previsione è che la narcoburocrazia confermerà la guerra impossibile e il disastro dell’aumento della produzione, dei consumi e della repressione.
L’Economist denuncia i costi economici e sociali che il narcotraffico acquisisce inevitabilmente e ribadisce come l’unica strada razionale sarebbe la legalizzazione.
Ben altro è lo stato della discussione in Italia. Dobbiamo ricordare che nella legge in vigore le droghe leggere e pesanti sono state equiparate in una unica tabella con le stesse pene, da sei a venti anni di carcere per la detenzione di qualunque sostanza, eroina, cocaina o cannabis che sia. La ragione di questa impostazione, del tutto antiscientifica, si fonda sull’affermazione che “la droga è una” e sulla pretesa della astinenza. La campagna pubblicitaria terroristica, ossessivamente imposta in televisione, sulla “droga bruciacervello” strumentalizza in chiave di ridicolo riduzionismo biologico le evidenze che provengono da studi delle neuroscienze, ignorando quelle che provengono da ricerche in ambito psicosociale.
La recrudescenza penale è clamorosa: i tossicodipendenti marciscono in carcere, tanto è vero che in questi giorni è stato superato il livello dei 60mila detenuti di cui la metà sono reclusi per la violazione della legge sulle droghe o per reati connessi.
La criminalizzazione dei consumatori, soprattutto di marijuana, è confermata da un altro dato. Dal 1990 ad oggi quasi 600.000 giovani sono stati segnalati alle prefetture per semplice consumo subendo odiose sanzioni amministrative.
Trieste è una città laica e intelligente e soprattutto colta, basti pensare a Joice, Saba e Svevo e saprà rispondere alla mistificazione moralistica e alle pretese da stato etico con i principi della ragione liberale di Stuart Mill.
Franco Corleone

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I miei articoli Le droghe

Il governo con l’elmetto

L’Italia lavora in silenzio, lontano dai riflettori, senza discutere con associazioni e operatori del settore. E la Gelmini è il nuovo testimonial antidroga

La questione della politica delle droghe in questo momento appare fuori dall’agenda della politica e si situa in un cono d’ombra adatto alle trame oscure, lontana dai riflettori della cronaca e del dibattito pubblico. Si tratta di un mistero che appare inspiegabile se solo si rifletta sul fatto che le carceri sono tornate, dopo la breve parentesi di vivibilità assicurata dall’indulto, a un sovraffollamento dovuto in massima parte agli effetti dell’applicazione della legge Fini-Giovanardi. Il mistero trova la sua ragione nel fatto che il corto circuito mediatico che dà il la per determinare gli umori della società italiana ha individuato come emergenze da cavalcare oggi, gli stupri, i rom, l’immigrazione, le ronde per la “sicurezza delle città”. La droga e l’alcol sono funzionali alla strategia dell’allarme sociale e della paura solo nel caso di incidenti stradali che causano la morte di pedoni, ciclisti o altri automobilisti.
Nonostante gli sforzi di alcuni pseudo scienziati che preconizzano l’esplosione del flagello droga a causa della diffusione dei consumi di sostanze stupefacenti non solo tra i giovani ma in ampie fasce della popolazione, il pericolo ipotizzato sulla base di estrapolazioni statistiche arbitrarie, non viene preso sul serio. Puzza troppo di moralismo e di tolleranza zero. Ecco perché Carlo Giovanardi, che si è appassionato al ruolo di piccolo zar italiota nella strumentale guerra alla droga, può lavorare per preparare la Conferenza nazionale sulle tossicodipendenze convocata a Trieste per il 12 marzo nella più assoluta clandestinità, con il mancato coinvolgimento dei principali attori della politica delle droghe, con una programmazione blindata delle sessioni tematiche senza spazi di dibattito libero aperto ai partecipanti e soprattutto con l’assenza di un confronto reale sulla legge punitiva approvata nel 2006 e con la censura assoluta della riduzione del danno.
Purtroppo questa impostazione provinciale non si ferma all’interno dei nostri confini ma tenta di affermarsi in sede internazionale sostenendo un fronte di Paesi proibizionisti, autoritari e antidemocratici nella discussione che si sta svolgendo a Vienna in vista della riunione dell’Onu che dovrà approvare una nuova dichiarazione politica per definire le linee della politica globale sulla droga a partire da un bilancio delle scelte fallimentari decise dall’Assemblea generale del 1998 a New York. Allora fu approvato il cosiddetto Piano Arlacchi caratterizzato dall’obiettivo demagogico di un mondo senza droga. La narcoburocrazia che vive di menzogne e retorica tenta un ultimo colpo di coda approfittando dell’assenza di un cambio di posizione chiaro da parte di Obama. Così l’Italia ha rotto l’unità dell’Unione europea sul punto qualificante della riduzione del danno. Ovviamente anche Antonio Costa, che sta manovrando per avere un prolungamento fino al 2010 del suo incarico di direttore dell’Unodc, l’Agenzia antidroga dell’Onu, sta dando il suo contributo per impedire una revisione delle politiche reazionarie. è arrivato al punto di sostenere che la riduzione del danno è paragonabile all’azione di chi offrisse zucchero a un malato di diabete.
Intanto Giovanardi lancia un portale per scuole “drugfree” con il sostegno del ministro Mariastella Gelmini che sostituisce come testimonial il povero Don Gelmini. Forum droghe a Trieste non mangerà questa polpetta avvelenata.

Franco Corleone

Da Notizie Verdi, Anno V – n. 53, domenica 8 marzo 2009

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I miei articoli Le carceri

Caro Presidente, non sono d’accordo con lei.

Firenze, 31 marzo 2008

Caro Presidente Napolitano,
rispondo alla Sua lettera del 13 marzo e in particolare alla risposta del Consigliere Loris D’Ambrosio da Lei definita obiettiva e puntuale.
La ringrazio della sollecitudine e della cordialità manifestata insieme alla preoccupazione per la mia iniziativa del digiuno, che aveva il senso di aiutarLa a decidere se esercitare le Sue esclusive prerogative o no.
Non sarei sincero però se non Le manifestassi con chiarezza il mio dissenso nel merito.
Innanzitutto ho trovato una netta e incomprensibile cesura con la risposta sempre del Consigliere D’Ambrosio del 3 novembre 2006 alla mia missiva del 20 settembre. Allora si faceva riferimento alla necessità di aggiornamenti istruttori relativi alla pratica di grazia di Adriano Sofri indispensabili al Capo dello Stato per l’ulteriore corso della relativa procedura. Gli aggiornamenti citati, circa lo stato di salute di Sofri e l’applicazione della legge sull’indulto, erano così semplici da far ritenere, credo legittimamente, di essere alla vigilia di una positiva decisione. Cosicché non arbitrariamente potevo auspicare un atto di umanità e di riconciliazione.
Oggi invece, per motivare il sostanziale rifiuto della grazia, si cita la sentenza n. 200 del 2006 della Corte Costituzionale, secondo la quale la grazia sarebbe un istituto di natura extra ordinem destinato a far fronte a “eccezionali esigenze di natura umanitaria”, non tutelabili attraverso gli ordinari strumenti penitenziari. Mi permetto di osservare che questa e’ una visione riduttiva del potere di grazia e ritengo che le ragioni umanitarie di un atto di clemenza non possano essere ristrette alle condizioni di salute del detenuto interessato. D’altronde un potere assoluto per compiere un “atto gratuito e straordinario di generosità” non può essere limitato a una condizione di salute; altre sono le considerazioni  che giustificano un atto affidato proprio ai valori della Costituzione e che proprio nell’aderenza agli obiettivi della Carta non assume il carattere di arbitrarietà. Del resto così Ella si è determinato nella concessione di alcune grazie, quali quella a Ivan Liggi e a cinque condannati per gli attentati in Alto Adige/Sudtirol negli anni sessanta.
Questa concezione mi pare confermata dalla stessa sentenza n. 200 del 2006, che ha fatto definitiva chiarezza sul potere esclusivo del Presidente della Repubblica in tema di concessione di grazia.  La Corte Costituzionale nella sentenza citata ha ricordato come « l’esercizio del potere di grazia risponda a finalità essenzialmente umanitarie, da apprezzare in rapporto ad una serie di circostanze (non sempre astrattamente tipizzabili), inerenti alla persona del condannato o comunque involgenti apprezzamenti di carattere equitativo, idonee a giustificare l’adozione di un atto di clemenza individuale, il quale incide pur sempre sull’esecuzione di una pena validamente e definitivamente inflitta da un organo imparziale, il giudice, con le garanzie formali e sostanziali offerte dall’ordinamento del processo penale. La funzione della grazia è, dunque, in definitiva, quella di attuare i valori costituzionali, consacrati nel terzo comma dell’art. 27 Cost., garantendo soprattutto il “senso di umanità”, cui devono ispirarsi tutte le pene, e ciò anche nella prospettiva di assicurare il pieno rispetto del principio desumibile dall’art. 2 Cost., non senza trascurare il profilo di “rieducazione” proprio della pena».
Per altro lo stesso Consigliere D’Ambrosio chiarisce che nel caso di malattia gravissima in corso è prevista nell’ordinamento l’incompatibilità con la detenzione in carcere e il differimento dell’esecuzione e nel caso di una condizione di salute seria ma non patologicamente irreversibile, il magistrato di sorveglianza può decidere la prosecuzione della pena in regime di detenzione domiciliare (che non va annoverata tra le misure alternative). Si dimostra cioè che esistono strumenti assai sofisticati per risolvere ordinariamente tutti i casi in cui sia compromessa la salute del condannato. Dunque il collegamento della grazia alle problematiche di salute appare improprio.
Il caso di Adriano Sofri e’ peraltro del tutto eccezionale, come bene aveva colto il Consigliere Salvatore  Sechi quando  su incarico del Presidente della Repubblica il  9 gennaio  2002 affermava: «Il Presidente Ciampi conosce bene la complessa e tormentata vicenda processuale che ha portato alla condanna definitiva di Adriano Sofri e dei suoi coimputati ed è consapevole della mutazione teleologica che la pena subisce quando venga irrogata a lunga distanza di tempo dei fatti, soprattutto se restrittiva della libertà personale».
A mio parere, Signor Presidente, qui sta il nocciolo della questione. Adriano Sofri è stato condannato a 22 anni di carcere con l’accusa di essere il mandante (rectius: per avere confermato il mandato) dell’omicidio del commissario Calabresi avvenuto nel 1972. L’arresto avvenne a fine luglio del 1988 e la vicenda giudiziaria con diversi gradi di giudizio (compresa una sentenza di assoluzione inficiata da una motivazione “suicida”), e rinvii della Cassazione si concluse nel 2000 dopo il processo di revisione a Venezia che confermò la condanna, auspicando nella sentenza una soluzione di non carcerazione ulteriore attraverso la concessione della grazia.
Il nodo che si pone in maniera eclatante è il senso di una detenzione che si rivela inutile giacché l’obiettivo previsto dall’articolo 27 della Costituzione sullo scopo della pena, la rieducazione e il reinserimento sociale, è ictu oculi realizzato ed evidente, trattandosi di uno degli intellettuali italiani più lucidi e impegnati, che in questi anni dal carcere ha fortemente contribuito a sollecitare l’opinione pubblica sulle grandi questioni della pace e della guerra, dei diritti umani, del destino del pianeta, della pena di morte.
Presidente Napolitano, una detenzione, seppure domiciliare, per questi motivi si configura come pura afflizione in violazione della Costituzione. Non mi pare di esagerare nel dire che assistiamo a una sorta di sequestro di persona in funzione del principio retorico della certezza della pena.
Tutti coloro che erano impegnati su questo fronte salutarono la concessione della grazia a Ovidio Bompressi come il primo passo per chiudere un capitolo doloroso della storia del nostro Paese. Invece nulla è accaduto nonostante la malattia improvvisa che colpì Sofri nel carcere di Pisa a rischio della vita e nonostante la tragedia familiare avvenuta lo scorso anno. Anche l’anno trascorso in libertà per sospensione pena si è trasformato in una ulteriore sofferenza dal momento che sono stati dodici mesi trascorsi in agonia, non come prologo alla liberazione, ma come un tempo che ha allungato la pena da scontare.
Caro Presidente Napolitano, mi auguro che la decisione di non concedere la grazia a Sofri non sia definitiva. Mi sono permesso di esprimerLe con rispetto alcune valutazioni per me fondamentali, di principio e di diritto, augurandomi che Lei voglia considerarle e tornare a riflettere su una decisione che non può essere condizionata dallo spirito dei tempi o dal timore di reazioni strumentali.
Chi salva un uomo, salva l’umanità: soprattutto sarebbe bello ed educativo dare un segnale contrario allo spirito di vendetta e di rancore che sembra animare il nostro presente. Non si tratta di un atto che riguarda solo Adriano Sofri. Mi auguro che questo scambio di opinioni inneschi un confronto più largo, che coinvolga giuristi, studiosi ed esponenti della società civile sul carattere della grazia dopo la pronuncia della Corte Costituzionale.
A Lei solo, caro Presidente, la parola! Consideri questa condizione un privilegio e non un peso.

Cordialmente
Franco Corleone

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Le droghe nell’urna

Da Fuoriluogo, di Franco Corleone – 30 marzo 2008

Sono tante le campagna elettorali a cui ho partecipato come cittadino o come militante dal lontano 1963. Confesso che questa in corso si rivela come la più mediocre e insulsa. È impressionante la mancanza di passione che si percepisce tra attori e spettatori e che non può derivare solo dal meccanismo della ignobile legge elettorale che prevede lo scontro al momento delle candidature e poi la delega del confronto mediatico ai supposti leader. Basti pensare alla intensa mobilitazione popolare di due anni fa sull’onda della speranza di cancellare l’esperienza incandescente del quinquennio di governo berlusconiano.
Il fallimento del governo Prodi viene prima della rottura traumatica della legislatura ad opera di transfughi e apprendisti stregoni. Una lunga catena di errori – dalla nomina di entrambi i presidenti di Camera e Senato, alla composizione pletorica dell’esecutivo, fino all’elezione del Capo dello Stato, senza il coinvolgimento dell’opposizione – determinata dalla incapacità di riflettere sull’esito elettorale e sul senso da dare ad una fase decisiva per la democrazia.
Avere messo da parte la sfida, seppure in condizioni difficili, della ricostruzione civile del Paese e avere dato la priorità a una visione ragionieristica della realtà economica e sociale si è rivelata come la sanzione finale della crisi della politica.
La vicenda dell’indulto si è rivelata emblematica. Doveva essere l’inizio di una stagione riformatrice con al centro l’abrogazione delle leggi criminogene su droghe e immigrazione e l’approvazione del nuovo Codice Penale e invece, di fronte all’offensiva giustizialista della stampa, anche di quella sedicente progressista, è prevalsa la paura e si è subito il ricatto securitario e il riflesso d’ordine.
Il risultato è catastrofico: l’operazione del risanamento dei conti sta riconsegnando l’Italia alla destra più estrema d’Europa e paradossalmente un’azione di rigore viene imputata alla sinistra. Contestualmente si assiste a un rafforzamento di un senso comune piccolo borghese ingaglioffito e canagliesco.
I segni sono tanti e preoccupanti. La criminalizzazione del sessantotto, l’offensiva sanfedista contro le donne e l’aborto, l’affermarsi del partito dei familiari delle vittime del terrorismo sono solo alcuni degli spettri che stanno prendendo corpo.
Siamo in pieno terremoto, le ipotesi di un decennio si sono bruciate. L’Ulivo e l’Unione hanno lasciato il campo al Partito democratico e la Sinistra è in una condizione di debolezza come mai nella storia di questo dopoguerra.
Si presenta un compito immane al cui confronto la partita elettorale è poca cosa. La ricostruzione di un pensiero e di una prospettiva di alternativa è urgente.
Ha ragione Marco Revelli a evocare un’Altra Italia, laica e intransigente.
Il tema delle droghe, praticamente assente dai programmi e dalla campagna elettorale, tranne qualche spazio di polemica fatua e ripetitiva, dovrà diventare un indicatore e un discrimine per una forza che consideri essenziali welfare e diritti, autonomia degli individui, garantismo, diritto penale minimo e mite, carcere e pena secondo i principi della Costituzione. Dipenderà da noi. Da un movimento capace di costruire egemonia su un terreno che non va lasciato all’etica da quattro soldi.
Abbiamo deciso di convocare l’Assemblea di Forum Droghe dopo il risultato delle elezioni del 13 aprile per non perdere un minuto per un nuovo inizio. Ovviamente non diamo indicazioni di voto. A chi si è appellato al voto utile rispondiamo con il richiamo al principio sempre valido e concreto della riduzione del danno.

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Caro presidente Napolitano, dia la grazia a Adriano Sofri

sofriCaro Presidente Napolitano,

è passato un tempo assai lungo dalla risposta che il Consigliere Loris D’Ambrosio mi inviò il 3 novembre 2006 in relazione alla lettera che Le avevo inviato il 26 settembre dello stesso anno, nella quale Le chiedevo di assumere in prima persona l’iniziativa autonoma per una scelta ormai matura della grazia a Adriano Sofri.
Il Consigliere D’Ambrosio riaffermava giustamente che la sentenza n. 200 del 2006 della Corte Costituzionale aveva fatto definitiva chiarezza sul potere esclusivo del Presidente della Repubblica sulla titolarità e esercizio del potere di clemenza individuale; e aggiungeva che in ordine alla pratica di grazia di Adriano Sofri «l’esistenza di situazioni nuove – connesse allo stato di salute e all’applicazione della legge sull’indulto – imponeva aggiornamenti istruttori indispensabili al Capo dello stato per l’ulteriore corso della relativa procedura».
Immediatamente risposi ringraziando per gli apprezzamenti ai contributi di studio da me offerti in questi anni per la più corretta interpretazione costituzionale dell’istituto della grazia. Offrii anche il quadro della posizione giuridica di Sofri: calcolando la concessione dell’indulto e i giorni di liberazione anticipata, il periodo di detenzione avrebbe avuto ancora una durata di ben sette anni. Al tempo Adriano Sofri era in regime di sospensione della pena per la gravissima malattia che l’aveva colpito durante la reclusione nel carcere di Pisa: poco dopo la sospensione è stata trasformata in detenzione domiciliare sulla base di una decisione autonoma del Tribunale di Sorveglianza di Firenze che scadrà il prossimo giugno. A oggi il residuo pena da espiare di Adriano Sofri supera i cinque anni.
Concludevo la mia lettera del settembre 2006, esprimendo fiducia nella rapida conclusione degli aggiornamenti istruttori e nell’emanazione del decreto in tempi ravvicinati. Così non è stato, nel frattempo altre tragedie sono accadute nella vita di Adriano Sofri a rendere la situazione più insostenibile.
Per ragioni di rispetto istituzionale e aderendo alle sollecitazioni di chi mi invitava a rispettare un silenzio certamente riflessivo e operoso, ho atteso fiducioso una sua iniziativa, insieme alle migliaia di uomini e donne che per oltre 1.500 giorni parteciparono a un digiuno a staffetta per affermare le ragioni di un diritto mite.
A distanza di un anno e sei mesi, mi sono convinto che le ragioni dell’attesa non sussistono più e non desidero attendere inerte il protrarsi di una vicenda iniziata con la mia prima lettera indirizzata al Presidente Ciampi il 27 novembre 2001: con il rischio di un’ipocrita assuefazione allo scandalo di uno stato di detenzione inutile che continua.
Nella risposta, il Consigliere giuridico Salvatore Sechi scrisse allora che «il Presidente Ciampi è consapevole della mutazione teleologica che la pena subisce quando venga irrogata a lunga distanza di tempo dai fatti»; ribadendo, sempre a nome del Presidente, l’esigenza di chiudere definitivamente capitoli dolorosi della storia della Repubblica attraverso il formarsi di un largo consenso politico e sociale. Il caso non poté concludersi positivamente per l’ostruzionismo dell’allora ministro della giustizia Roberto Castelli che costrinse il Presidente – già «con la penna in mano» per firmare la grazia, com’ebbe a dichiarare – a sollevare il conflitto di potere, risolto in seguito felicemente dalla Corte Costituzionale.
Viviamo un tempo di imbarbarimento giuridico e di «incattivimento» della società, come dimostra la criminalizzazione di una misura giusta e doverosa come l’indulto. Ciò deve spingere a atti di generosità che possano alimentare uno spirito di riconciliazione di cui l’Italia ha un estremo bisogno.
Caro Presidente, per evitare qualsiasi strumentalizzazione e magari il rinnovellarsi di polemiche insulse, voglio sottolineare che non intendo affatto esercitare una pressione indebita a favore della concessione della grazia a Sofri: il senso del mio messaggio sta in un pressante invito a esercitare le Sue prerogative costituzionali, in qualsiasi direzione intenda pronunciarsi. Per quanto mi riguarda, come cittadino impegnato da anni su una delicata questione politica e costituzionale, non posso far finta di nulla e rassegnarmi nell’ignavia al clima del paese.
La decisione, assolutamente personale, di riprendere un digiuno, di dialogo e di testimonianza, viene offerta a Lei, con fiducia e con la presunzione di aiutarLa a decidere, qui e ora.
L’Italia è stata protagonista della battaglia di civiltà per l’affermazione della moratoria della pena di morte in sede Onu e Lei, signor Presidente, ha sostenuto e condiviso questa iniziativa. So che Lei, custode e garante della Costituzione, apprezza l’articolo 27 sul carattere delle pene, che non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità in vista del reinserimento sociale del condannato e in nome di una convivenza che ripudi l’odio e la vendetta. I principi vanno inverati e riaffermati proprio quando rischiano di indebolirsi nella coscienza collettiva: il digiuno ha, in questa occasione, con assoluta semplicità solo il significato di dare corpo a un impegno civile. Spero con questo di aiutarLa nella riflessione, nel pieno rispetto di quella che il costituzionalista Ernesto Bettinelli chiama la «necessaria e virtuosa solitudine» del Capo dello Stato. Sono sicuro che anche in questa occasione, la Repubblica con i cittadini tutti, uomini e donne, Le sarà riconoscente.
In attesa di un Suo pronunciamento, Le invio il mio saluto più cordiale.

Franco Corleone

Da il Manifesto del 7 marzo 2008.

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Ma io insisto: depenalizzare

Articolo di Franco Corleone tratto da Repubblica Salute 31 gennaio 2008

Una guerra per essere dichiarata ha bisogno del consenso dell’opinione pubblica e a questo scopo si ricorre alla propaganda e ai tecnici della disinformazione. La guerra alla droga non si sottrae a questa regola. In particolare la demonizzazione della canapa  negli anni ’30 negli Stati Uniti vide come artefice Harry Aslinger impegnato nella costruzione di un poderoso castello di menzogne che ancora reggono il tabù del proibizionismo.
Nel corso dei decenni sono stati periodicamente spacciati diversi miti sulla marijuana: i due studiosi americani Zimmer e Morgan (Marijuana, miti e fatti, Vallecchi, 2005) ne hanno analizzati ben venti e li hanno sottoposti a una rigorosa analisi rispetto alla loro fondatezza scientifica. Sulla base dell’esame della letteratura mondiale, sono stati smontati uno a uno.
Recentemente è stato rilanciato l’allarme secondo cui la marijuana causerebbe l’insorgere della schizofrenia e per giustificare questo assunto si sostiene che lo spinello di oggi non è più quello degli anni sessanta e sarebbe talmente potente da non poter essere più classificato come droga leggera.
Lester Grinspoon, psichiatra di Harvard e il più autorevole studioso di canapa, contesta la fondatezza che una malattia mentale possa essere provocata da una sostanza come la marijuana. Ricorda anche studi pubblicati addirittura negli anni settanta da prestigiose riviste come Lancet e Nature che si rivelarono errati e imbarazzanti. Grinspoon sostiene invece che persone  avviate a diventare depresse o  schizofreniche usando la marijuana praticano di fatto una sorta di automedicazione.
Chi conosce l’asservimento al potere della scienza, o almeno di molti, troppi scienziati non si stupisce di ricerche che danno ragione al committente, mentre i Rapporti  Roques e Nolin rispettivamente del Ministero della Sanità francese e del Senato canadese confermano la minore pericolosità della canapa rispetto all’alcol e al tabacco.
Veniamo ai dati. L’Osservatorio europeo di Lisbona (Emcdda) fissa il range della potenza dell’erba tra lo 0,6 % di contenuto di Thc in Polonia e il 12,7% dell’Inghilterra, mentre per le produzioni locali in Olanda viene stimato al 17,7%.
La Relazione sullo stato delle tossicodipendenze in Italia diffusa nel 2007 afferma la presenza di un valore medio inferiore al 10%. Siamo dunque ben lontani dall’aumento denunciato di ben venticinque volte!
Non voglio certo negare i rischi che livelli alti di consumo anche di canapa possano provocare. Sostengo però che i danni della repressione penale sono ben maggiori di quelli del consumo della sostanza criminalizzata. Dal 1973 ad oggi più di cinquecentomila persone sono state segnalate all’autorità giudiziaria  per detenzione di canapa e nel 2006 con la nuova legge Fini-Giovanardi il rischio di condanne per spaccio presunto con pene da sei a venti anni di carcere riguarda quasi trentamila persone. Le segnalazioni al prefetto per semplice consumo nel 2006 sono state oltre 55.000 di cui il 75% per marijuana.
Solo la depenalizzazione del consumo di sostanze stupefacenti e la legalizzazione della canapa può liberare la scienza e sconfiggere le concezioni magiche favorendo un confronto non ideologico e non strumentale.

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Concordato e così sia

Franco Corleone per Fuoriluogo, ottobre 1998

Ora che il miracolo di San Gennaro si è ripetuto alla presenza del sindaco Bassolino e di qualche contestatore, si può pacatamente svolgere un ragionamento sulla vicenda del cardinale Giordano? Per mille ragioni non sfiorerò neppure il merito dell’indagine giudiziaria e il tema dell’innocenza o della colpevolezza del presule. Intendo invece concentrare l’attenzione su come questo caso è stato inserito nella incessante querelle sul funzionamento della giustizia. La tentazione di molti di assimilare il caso Giordano a una persecuzione di regime quale quella pretesa di Berlusconi si è dispiegata inizialmente con l’accusa consueta allo “strapotere delle procure”. Ma dopo un autorevole intervento di Gianni Baget Bozzo, che escludeva qualsiasi relazione tra le due vicende giudiziarie, la polemica si è concentrata sulla asserita violazione del Concordato. D’altronde, e non era la prima volta, è stato proprio il cardinale Giordano con estrema arroganza a brandire il Concordato come uno scudo nei confronti della magistratura. Non stupisce che giuristi clericali, o zuavi pontifici come l’on. Giovanardi, abbiano sostenuto zelantemente un tale argomento. È invece sconvolgente trovare arruolati in tale compagnia liberali storici come Nicola Matteucci e l’editorialista del “Foglio”. Ciò conferma quanto la questione giustizia abbia ormai lacerato le coscienze e non consenta di esaminare una vicenda per quello che è. La teoria del complotto e la logica del muro contro muro hanno impedito di apprezzare gli interventi di Prodi e di Flick, cattolici che hanno difeso le ragioni dello Stato e non quelle della Chiesa. Senza dubbio l’Italia degli Ernesto Rossi e dei Piccardi, di Salvemini e di Calamandrei è sempre più dimenticata e un Paese senza memoria e senza radici si ritrova a balbettare perfino sui cardini della legittimità dello Stato laico e della democrazia. Il prossimo 11 febbraio saranno trascorsi settant’anni dalla firma dei Patti Lateranensi tra il cardinal Gasparri e il cavalier Benito Mussolini. Eppure le ombre di quel passato si allungano ancora in modo malsano e tentacolare, se è vero com’è vero che oggi non si levano voci per denunciare gli attacchi alla laicità della società italiana, come invece è accaduto in passato, ad esempio al Convegno degli Amici del Mondo nel 1957. Ma veniamo a esaminare il contenzioso sollevato dal cardinal Giordano e dal Vaticano nella nota di protesta. Tralasciando il richiamo alle prerogative dei cardinali equiparati ai principi di sangue, per nostra fortuna eliminati dalla Costituzione, restano le obiezioni per la spettacolarizzazione della perquisizione (per altro non effettuata), per il non rispetto della Curia vescovile (che avrebbe dovuto esser considerata come un luogo di culto), per la supposta illiceità delle intercettazioni telefoniche a un alto prelato; e, infine, per la mancata comunicazione preventiva all’autorità ecclesiastica competente del procedimento penale. Ebbene, alcuni dei problemi sollevati fanno parte della patologia del nostro sistema giudiziario, ma non c’entrano affatto con il Concordato e i suoi privilegi. Un conto è denunciare la carenza di garanzie per tutti i cittadini e invocare le giuste riforme, e se il caso di un cittadino che si ritiene più uguale degli altri può accelerare le modifiche attese, queste ben vengano comunque; altro è protestare per le supposte violazioni delle norme che regolano i rapporti tra Stato e Stato (anzi, in questa logica, la presa di posizione dell’altra sponda del Tevere, che lamenta alcune disfunzioni della giustizia italiana, si configura a rigore come un’ingerenza nella vita interna dello Stato italiano). Resta da esaminare il punto più scabroso, quello dell’informazione preventiva. Non è questa la sede per un approfondimento tecnico e rimando, per chi fosse interessato, allo studio di Mario Pisani del 1991 dedicato al processo penale nelle modificazioni del Concordato tra Italia e Santa Sede. Basti qui dire che, nel nuovo Concordato del 1984, la comunicazione all’autorità ecclesiastica (destinata a facilitare l’azione disciplinare) non deve essere inoltrata immediatamente, come prevedeva il Concordato del ’29: quindi la previsione dell’art. 129 delle norme di attuazione del nuovo codice di procedura penale del 1989 non è affatto in contrasto con la norma concordataria. Va aggiunto che l’inizio dell’azione penale si colloca nel momento della formulazione dell’imputazione e non nella fase delle indagini preliminari. Vi è da aggiungere che la violazione dell’obbligo non è espressamente sanzionata e non comporta nullità. Di fronte a un quadro così ineccepibile e limpido, si comprende come sia stata semplice e obbligata la risposta del governo italiano nonostante pressioni più o meno lecite. Quel che appare strabiliante è altro. Ad esempio, il silenzio con cui i partiti della maggioranza hanno seguito una vicenda così delicata: solo i Popolari hanno espresso disappunto per la conclusione cui il governo era giunto. Pare che nessuno abbia ben valutato le conseguenze di una ammissione di violazione del Concordato. Si sarebbe verificato, non sul matrimonio o sulla scuola, ma sulla giustizia, sull’attività giurisdizionale, cioè in un campo essenziale per l’affermazione e l’esistenza di uno stato autonomo, la riduzione dell’Italia a Paese a sovranità limitata. Non c’è da illudersi o sperare che qualcuno osi riprendere la battaglia per cancellare l’art. 7 della Costituzione o per abrogare il Concordato. D’altronde, quando Bettino Craxi, per acquisire benemerenze celesti e far dimenticare le tradizioni socialiste, sottoscrisse nel 1984 il nuovo Concordato con il Vaticano, l’opposizione fu condotta da minoranze estreme. Un risveglio di attenzione è urgentissimo. Il caso non è chiuso. Il Vaticano intende rilanciare il confronto con lo Stato italiano. Il cardinale Giordano serve anche a questo. Sul piatto non vi sono solo compensazioni sul terreno insidioso della scuola e della famiglia. Il Segretario di Stato, cardinale Sodano, si è mostrato preciso e determinato nel chiedere privilegi che neppure il Concordato fascista prevedeva. L’assalto sarà tentato all’interno della Commissione paritetica imprudentemente promessa dal governo, perché questo caso non avrebbe dovuto prevedere alcuna ulteriore sede di discussione. La scelta dei rappresentanti della Repubblica italiana è di estrema delicatezza. La delegazione dovrà essere reale controparte di quella vaticana. Una reviviscenza del clericalismo, infatti, metterebbe in pericolo libertà e democrazia.

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I miei articoli Le droghe

Fantasmi nel Palazzo di Vetro. Il pensiero labile dell’ONU sulle droghe

Franco Corleone su Fuoriluogo, luglio 1998

L’assemblea straordinaria delle Nazioni Unite del 9 giugno rimarrà nella storia come un incontro mediatico ben riuscito ma dallo scarso, se non nullo, risultato concreto.

Pino Arlacchi ha avuto l’abilità di richiamare decine di capi di stato e di governo per celebrare un rito di buoni sentimenti, di goffa retorica, di grassa demagogia. Una volta di più la politica, nel consesso più alto, è stata ridotta a fatto meramente virtuale, contraddicendo così il suo significato nobile e profondo per ridurla a gioco di specchi.

Un’occasione sprecata, dunque. Responsabilità che ricade su chi ha rifiutato ogni ipotesi di confronto tra esperienze e opinioni diverse costruendo un teatrino di marionette.

Era davvero imbarazzante assistere alla sfilata di tanti capi di stato, a cominciare da Clinton, che leggevano freddamente una sfilza di luoghi comuni assemblati da mani gelide di funzionari. Una guerra senza passione è destinata alla sconfitta e, d’altronde, Chirac è stato solo a evocare la necessità di una crociata.

Per fortuna, non pochi rappresentanti di nazioni importanti si sono sottratti al clima dominante e precostituito artificialmente e artificiosamente, rivendicando le azioni reali, le scelte quotidianamente compiute nei propri Paesi.

In questo senso, il presidente Romano Prodi ha svolto un ruolo significativo. La rivendicazione dell’autonomia degli stati e del suo rafforzamento, la contestazione della conversione militare e autoritaria delle colture, la dichiarazione di fallimento totale della scelta del carcere per i tossicodipendenti, l’affermazione senza incertezze della politica di riduzione del danno, hanno assunto il sapore, per gli osservatori più attenti, di una linea alternativa, seppure moderata.

Prodi non è stata l’unica voce “stonata” e non è stata una presenza isolata. Infatti i rappresentanti dell’Olanda, della Svizzera, della Nuova Zelanda, del Messico e di molti altri Paesi sono usciti dal coro rigorosamente proibizionista.

Eppure il documento finale adottato, non votato, ricalca pedissequamente, anche se con correzioni attribuibili alla mediazione portoghese, i testi iniziali elaborati a Vienna.

Le modalità di decisione dell’ONU obbligano a una riflessione sul carattere democratico di un’organizzazione che spende il 70% dei suoi fondi per mantenere un apparato burocratico che è sostanzialmente svincolato e avulso dalla volontà, dal controllo e dal dibattito dei parlamenti e dei governi nazionali.

Una tecnostruttura diplomatica astratta e saccente, capace di elaborare brevi frasi dal tono apodittico sull’universo, ma non di concepire un pensiero profondo e originale, non può arrogarsi la responsabilità di individuare soluzioni a questioni così serie, che riguardano la salute e la vita degli individui, e l’economia dei popoli.

Viene anche da chiedersi se la politica di un Paese democratico o dell’Unione Europea possa essere decisa da un’assemblea in cui il peso e la presenza di Paesi con regimi autoritari, militari o totalitari è assai cospicua (per fortuna queste decisioni non hanno carattere vincolante).

Non vi è stato dibattito sui discorsi dei rappresentanti degli stati, né confronto sulle prese di posizione delle delegazioni governative; a maggior ragione, è rimasto sullo sfondo il contenuto del “manifesto dei 500” pubblicato l’8 giugno su due intere pagine del “New York Times”, sottoscritto da personalità di tutto il mondo.

Eppure, l’appello ha agito come “l’ombra di Banco” per tutto il periodo della conferenza. D’altronde, firme come quelle di George Shultz e di Javier Perez de Cuellar non potevano passare inosservate e non fare riflettere lo stesso Kofi Annan, a cui il documento era indirizzato.

L’azione della delegazione del governo, composta dalle ministre Bindi e Turco e da chi scrive in rappresentanza del ministero della Giustizia, proprio per il ruolo giocato e per avere rivendicato l’esistenza di una via italiana, ha suscitate polemiche e proteste da parte di Alleanza Nazionale e in particolare dell’on. Mantovano, ormai in servizio permanente effettivo nella difesa dei valori della famiglia e della “tradizione”.

Un altro fantasma si aggirava all’interno del Palazzo di Vetro a turbare la falsa coscienza di alcuni assatanati giornalisti americani: lei, la marijuana. Sembra quasi che l’oppio e la coca, con la rituale demonizzazione evocatrice del “flagello” per i giovani, in realtà servano da alibi per attaccare il vero nemico, che sarebbe costituito dalla cannabis.

Sarà un tratto del puritanesimo o una conferma della stupidità?

Pino Arlacchi si è affannato a presentare come una novità nella politica dell’ONU la scelta a favore della riduzione della domanda.

Per fortuna ci ha pensato lo zar antidroga degli USA, il generale Barry McCaffrey, a chiarire i reali intendimenti, sparando a zero contro le strategie di riduzione del danno che, a suo dire, “sono diventate un eufemismo per la legalizzazione della droga, una copertura per chi vuole abbassare la soglia di tolleranza verso l’uso di stupefacenti”.

D’altronde lo slogan scelto per la conferenza “Un mondo senza droga” (simile a quello utilizzato per il referendum battuto in Svizzera) ha inequivocabilmente un sapore moralistico che si pone agli antipodi di una concezione laica che rifiuti gli stilemi dello stato etico.

Che cosa insegna questa vicenda all’Italia e all’Europa? Certamente nulla sul piano operativo e dei contenuti, perché il dibattito nei singoli Paesi è assai più articolato e approfondito delle formulette usate nei facili decaloghi dell’UNDCP.

Sul piano simbolico, l’idea che esista e sia confermato un pensiero ufficiale unico, seppure debole, diffuso e dominante è pericolosa. Va contrastata, senza limitarsi alla difesa di spazi ridotti di sopravvivenza.

Occorre trovare un terreno di confronto spregiudicato e un luogo di discussione non ipotecati dalla paura e dal ricatto di essere etichettati come liberalizzatori, amici dei narcotrafficanti o altre infamie.

Non è tempo di agitare, come fece Nikita Krusciov tanti anni fa, una eloquente scarpa, e neppure di irridere alle illusioni in buona fede, ma di darsi un obiettivo puntuale che coinvolga alcuni Paesi europei per cambiare o denunciare le convenzioni, almeno nella parte relativa all’apparato sanzionatorio.

Il ruolo dell’Europa si misura anche dalla capacità di riscrivere le regole dello stato sociale e di ricontrattare alla luce del sole una politica sulle droghe intelligente, rispettosa delle differenze culturali e sociali dei Paesi.

Vi è un aspetto realmente originale nel piano di Arlacchi che non va trascurato. È la dimensione del tempo. Il 2003 e il 2008 sono state indicate come le date per il raggiungimento degli obiettivi. Esse devono costituire la verifica del successo o del fallimento, senza ambiguità.

Se l’operazione di “liberazione dalla droga” fallirà, pur in presenza di un sostegno politico generalizzato e con l’impiego di risorse straordinarie, il fallimento dovrà essere senza appello e si dovrà imboccare finalmente una strada ragionevole.

Giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno occorrerà esercitare un monitoraggio continuo dei risultati e un’analisi dei costi-benefici, per non consentire manipolazioni di sorta.

Arlacchi ha anche detto che la battaglia sarà vinta, quando la droga non sarà più appetibile; si tratta di un’affermazione così vera che forse il limite decennale non basterà. Vi è invece il rischio che perseguendo l’eliminazione delle droghe vegetali, si favorisca il dominio incontrollato dei prodotti chimici, che sempre più si stanno diffondendo nei Paesi sviluppati.

Un’azione che non abbia la presunzione di risolvere un problema una volta per sempre, ma abbia l’umiltà di comprendere e superare le ragioni dei fenomeni sociali avendo fiducia nell’autonomia e nella responsabilità degli individui, è molto più coraggiosa e onesta intellettualmente di chi insegue miraggi prometeici. La carica dei 500 è appena iniziata.