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La famiglia Cucchi, una come tante

La famiglia Cucchi, una come tante

La sorella del ragazzo morto nell’ottobre 2009 ha presentato in città “Vorrei dirti che non eri solo”

Venerdì sera presso la Sala della musica dell’ex convento di San Paolo, Ilaria Cucchi ha presentato il libro scritto con Giovanni Bianconi “Vorrei dirti che non eri solo”. Ad aprire la presentazione è stato il vicesindaco Massimo Maisto con un breve saluto ai presenti.

A un anno dalla scomparsa di Stefano Cucchi, la sorella Ilaria racconta la storia di una famiglia italiana come tante, con le debolezze e i difficili rapporti con un ragazzo che a periodi entra ed esce dal tunnel della droga.
Un libro toccante che non nasconde nulla, ricco di unicità, ma che richiama un tema purtroppo comune a molte famiglie, come ha sottolineato Franco Corleone, presidente della Società della Ragione Onlus e Garante per i diritti dei detenuti.

La presentazione di Ilaria Cucchi, breve e spontanea, ha messo in luce una totale consapevolezza della “difficile situazione” del fratello che era “alla continua ricerca della propria libertà”; e il titolo stesso del libro “è la dimostrazione di come la sua famiglia provi tutt’oggi un senso di colpa per quei sei giorni in cui Stefano restò in carcere, abbandonato”.

Durante il suo intervento Corleone ha richiamato inoltre l’attenzione al problema del “pregiudizio verso la tossicodipendenza, come causa scatenante di queste tragedie, in cui spesso i ragazzi coinvolti, da vittime diventano colpevoli della propria morte, perché considerati cittadini non a pieno titolo in quanto tossicodipendenti”.

Questo tema è emerso anche nell’intervento di Patrizia Moretti, mamma di Federico Aldrovandi, ormai diventata supporto morale da cui Ilaria trae forza e tenacia per arrivare alla verità. Due donne che vogliono semplicemente capire la verità, non per vendetta ma per denunciare le loro storie, decidendo anche di pubblicare foto forti e scioccanti, per svegliare le coscienze e fare in modo che non accada nuovamente.

Alla presentazione è intervenuto anche l’avvocato ferrarese Fabio Anselmo, che dopo aver difeso la famiglia Aldrovandi è stato scelto quale legale anche dalla famiglia Cucchi. Secondo Anselmo il sistema giudiziario che governa questi casi è “minato da un problema culturale presente nelle istituzioni, che troppo spesso davanti a queste situazioni si “chiudono a riccio” cercando di salvaguardare l’immagine a difesa di chi viene processato, spesso interferendo nel processo e creando un disagio psicologico alle famiglie delle vittime”.

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Il lungo calvario di Ilaria Cucchi

Il lungo calvario di Ilaria Cucchi

La sorella di Stefano, morto mentre era in stato di arresto, ha presentato il suo libro a Ferrara

Da La Nuova Ferrara del 5 dicembre 2010.

«Il libro di Ilaria racconta di una famiglia italiana, delle difficoltà dei rapporti, dell’amore e della cura: non è un libro di denuncia ma c’è la cronaca di un calvario lungo sei giorni durante i quali la famiglia di Stefano Cucchi, morto il 22 ottobre 2009 all’ospedale Sandro Pertini di Roma mentre era in stato d’arresto, si è trovata abbandonata e poi maltrattata dalle istituzioni, quelle stesse istituzioni nelle quali avevano nutrito fiducia».

Con queste parole Franco Corleone, presidente della Società Ragione e Garante dei Diritti dei detenuti, ha presentato venerdì sera presso la Sala della Musica il libro “Vorrei dirti che non eri solo” di Ilaria Cucchi e Giovanni Bianconi, edito da Rizzoli.

«Il primo problema che la mia famiglia si è trovata ad affrontare è stato la mancanza di verità. Abbiamo saputo della sua morte grazie alla notifica del decreto del giudice che aveva richiesto l’autopsia del cadavere dopo giorni di attesa fuori la porta dell’ospedale, dove i medici ci rassicuravano dicendoci che Stefano era tranquillo – ha spigato la Cucchi -. Lui sapeva che nelle difficoltà avrebbe potuto sempre contare su di noi ed invece in quei giorni avrà pensato che l’avevamo abbandonato, questo ci dà ancora più dolore ed alimenta la nostra rabbia. Chi ha il diritto di decidere che una persona debba essere improvvisamente privata dei suoi diritti civili e debba morire da solo, ucciso dal pregiudizio di chi lo ha etichettato come un tossicodipendente? Io sono stata fortunata, ho trovato delle persone intorno a me che hanno saputo indirizzarmi, come Patrizia Moretti, che mi hanno sostenuto fino ad ora. Quando ci hanno fatto vedere il cadavere di mio fratello in una teca di vetro, senza poterlo neanche accarezzare, abbiamo capito che solo la verità avrebbe restituito dignità a Stefano e un po’ di pace a noi».

Di pregiudizio hanno parlato anche Patrizia Moretti e l’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi. «Il prezzo che queste persone stanno pagando è troppo alto perchè sia accettato da una società civile – ha affermato Anselmo -. Se la legge è uguale per tutti, i rappresentanti delle istituzioni, che indossino o meno la divisa e che vengono accusati di avere approfittato del loro potere devono essere spogliati di quest’ultimo e posti a giudizio quali cittadini, sullo stesso piano delle proprie vittime. Invece, di fronte a tragedie come queste, le istituzioni si chiudono a riccio a protezione della propria immagine e si schierano a fianco dei propri operatori e non di tutti i cittadini. Il perpretarsi di questa cultura di impunità del potere è inaccettabile perché, cullata dai media e sospinta dalla pubblica opinione, partorisce i casi Cucchi ed Aldrovandi. La denuncia è l’unico mezzo per cambiare questa mentalità ma lo Stato chiede trasparenza ai cittadini e poi non è in grado di assicurarla agli stessi: il pm e il giudice che hanno interrogato Stefano Cucchi hanno dichiarato di non aver notato lo stato di salute del ragazzo per non averlo mai guardato in faccia».

Scarica l’articolo in forma to pdf: nuovaferrara4dic2010.pdf.

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La guerra alla droga all’italiana non prevede diritti

L’ombra di Stefano Cucchi continua ad agitare i sonni del sottosegretario Giovanardi. L’ineffabile zar antidroga insiste a diffondere dichiarazioni insultanti per la memoria del giovane che sarebbe morto perché drogato e non per i pestaggi e il successivo abbandono da parte dei medici. Non può essere solo cinismo. Giovanardi si rende conto che il corpo martoriato di Cucchi è la rappresentazione crudele degli effetti della war on drugs all’italiana. Nonostante un abisso morale ci divida da chi tratta i consumatori di sostanze come esseri privi di diritti, insistiamo nella ricerca del confronto per far uscire dal carcere migliaia di detenuti tossicodipendenti e perseguire la via sociale e non palazzinara alla soluzione del sovraffollamento delle carceri. Per questo, tra qualche giorno parteciperemo con varie associazioni, a un incontro con il capo del Dipartimento antidroga, Giovanni Serpelloni. Questi in un’intervista all’Avvenire del 6 aprile ha messo le sue carte in tavola. Con funambolici giochi di prestigio, ha dimezzato il numero dei tossicodipendenti in carcere, sostenendo che vi sono tossicodipendenti veri e falsi e che quelli con il bollino degli standard clinici internazionali sarebbero solo 7mila. I dati ufficiali sono ben altri: i tossicodipendenti sarebbero oltre 15mila. Il doppio rispetto ai numeri di Serpelloni, che con le sue minimizzazioni vorrebbe dimostrare che la Fini-Giovanardi non ha prodotto una criminalizzazione dei consumatori.
Ma Cucchi allora perché è stato arrestato? Il 38% dei detenuti è dentro per avere violato un’unica norma: l’articolo 73 della legge sulle droghe. Su quel 38% bisognerebbe lavorare per risolvere seriamente il tema del sovraffollamento. Noi saremmo per mettere mano al complessivo impianto ideologico proibizionista, ma sappiamo chi sono i nostri interlocutori. Percò proponiamo un’agenda pragmatica di deflazione carceraria: abrogare le norme della legge Cirielli sulla recidiva che penalizzano i tossicodipendenti non consentendo loro di accedere ai benefici e all’affidamento terapeutico; limitare la custodia cautelare promuovendo il ricorso ai domiciliari; evitare per i piccoli spacciatori-consumatori le pene da 6 a 20 anni; eliminare il limite a due sole concessioni dell’affidamento terapeutico. Solo a seguire si potrà chiedere alle Regioni un impegno straordinario per l’affidamento in comunità o per trattamenti non residenziali nel territorio.
Questo è il terreno discriminante per affrontare il macigno del sovraffollamento carcerario. Il dibattito parlamentare sulle misure di decongestionamento delle carceri è partito male. La proposta di legge Alfano, pur avendo in sé la consapevolezza di affrontare il problema, pone tali e tanti limiti da renderla quasi evanescente. Si pensi all’obbligo della riparazione a favore delle vittime. Cosa dovrà riparare un consumatore di droghe o un immigrato accusato di irregolare permanenza in Italia? Fare il badante a Borghezio? Ben venga una discussione ponderata che faccia uscire allo scoperto partiti e posizioni. Tutti sappiano però che per superare l’emergenza carceraria bisognerebbe modificare tre leggi: la Cirielli sulla recidiva, la Bossi-Fini sull’immigrazione e la Fini-Giovanardi sulle droghe. Tutto il resto non è risolutivo. Noi temiamo che il fallimento annunciato della proposta Alfano faciliti il disegno della speculazione edilizia penitenziaria senza controllo.

Franco Corleone e Patrizio Gonnella, dal Manifesto del 14 aprile 2010.

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La Misura è colma

Articolo pubblicato su Terra del 02/01/2010

Ci siamo lasciati alle spalle un anno orribile e terribile, caratterizzato dalle proteste dei detenuti nel mese di agosto e dalla morte di Stefano Cucchi.
Nel pieno dell’estate il mondo delle carceri, un’umanità abbandonata e disperata, ha fatto sentire la propria voce per denunciare condizioni di vita indecenti e disumane.
Il Governo e l’Amministrazione penitenziaria hanno manifestato un’assenza di reazione assolutamente imbarazzante; nessuna iniziativa per mostrare una attenzione anche minima alle richieste legittime e ragionevoli. Intanto in carcere si continua a morire; per suicidio o per cause misteriose.  Continua a scorrere il sangue prodotto dall’autolesionismo: l’unico linguaggio di persone deboli e fragili che usano il proprio corpo per comunicare una disperazione inascoltata.
Il calvario di Stefano Cucchi ha suscitato un orrore diffuso anche in settori dell’opinione pubblica che in questi anni erano state suggestionate dalle evocazioni della certezza della pena e del mito del carcere come luogo di eliminazione dei conflitti. E’ una tragedia che deve far coltivare l’indignazione più profonda e far gridare che “mai più, mai più” possa accadere un accanimento così bestiale contro un corpo meritevole solo di rispetto. E’ stata la bancarotta della pietà, ma occorre chiedersi come è potuto accadere. La spiegazione è una sola: medici, giudici, forze di polizia hanno introiettato la convinzione che un tossicodipendente, un “drogato” non è un uomo, non ha diritti e può essere vilipeso con la convinzione dell’impunità.
Sembra proprio che ci si aspetti (o ci si auguri) una rivolta o un episodio di violenza, ovviamente verso un direttore o un agente di polizia penitenziaria per gridare all’emergenza e dare sfogo a una spirale di repressione e violenza liberatoria. E poi ottenere le agognate risorse per una nuova stagione di edilizia carceraria “d’oro”. Affermo invece che troppi sono i detenuti e non poche le galere e che occorre un piano straordinario per liberare i tossicodipendenti e per aumentare le misure alternative.
E’ indispensabile la convocazione degli Stati Generali del Carcere per un confronto tra tutte le realtà e i soggetti che si occupano di questo pianeta dimenticato e sconosciuto per scrivere una agenda delle riforme indispensabili.
Il cardinale Tettamanzi ha visitato il carcere di San Vittore il giorno di Natale ed è rimasto sconvolto per lo stato delle celle che “offendono la dignità umana”. Ma le parole davvero rivoluzionarie rispetto al senso comune sono state quelle dedicate alla composizione della popolazione detenuta: l’arcivescovo erede di Martini ha parlato di immigrati e di un percorso per il rientro in una società ospitale per tutti “perchè la più grande etnia che fonda e spiega tutte le altre etnie particolari è quella umana”. In tempi di barbarie e razzismo è una lezione da meditare per la Milano rassegnata ai pogrom.