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Rototom, un processo assurdo

La persecuzione giudiziaria contro  il festival Rototom Sunsplash è iniziata nel luglio 2009 dopo una indagine bizzarra dei carabinieri con l’accusa agli organizzatori di “agevolazione all’uso di sostanze stupefacenti”. Oggi, a distanza di tre anni, sta diventando una storia infinita dopo il recente rinvio a giudizio di Filippo Giunta, responsabile dell’evento culturale. Nel frattempo il festival in Italia non esiste più, perché da Osoppo è emigrato in Spagna.
E’ l’ennesima conferma della crisi (e dei tempi) della giustizia, che sceglie di perseguire i deboli e salvare i potenti. Per sostenere i teoremi ideologici della legge Giovanardi sulle droghe, si dilapidano allegramente soldi pubblici e soprattutto si distolgono forze dall’accertamento e dalla repressione di reati gravi, da quelli ambientali a quelli finanziari.
La montatura giudiziaria si aggrappa all’art. 79 della legge antidroga (309/90): esso prevede la pena da tre a dieci anni di carcere per  chiunque adibisce un locale pubblico o un circolo privato a luogo di convegno di persone che ivi si danno all’uso di droghe. E’ una norma ambigua, che raramente è stata utilizzata negli impianti accusatori per la difficoltà interpretativa. Ma il giudice per le indagini preliminari, Roberto Venditti, ha accolto l’impianto accusatorio e ha sbrigativamente equiparato il Parco del Rivellino, frequentato da decine di migliaia di persone, alle quattro mura di un caffé. Per rafforzare la sua interpretazione della norma nel provvedimento di rinvio a giudizio, il magistrato richiama il secondo comma che allarga la previsione “a un immobile, un ambiente o un veicolo a ciò idoneo”. Tace però che lo stesso comma specifica che si deve trattare di un luogo di “convegno abituale di persone”. La partecipazione a un concerto, a un dibattito o la visita agli stand hanno un carattere occasionale, non certo abituale. In più, quando si parla di convegno abituale, ci si riferisce con evidenza a un “giro” definito di persone.
Il giudice Venditti ricalca anche le valutazioni del procuratore del tribunale di Tolmezzo Giancarlo Buonocore, secondo cui  Rototom sarebbe stato un punto d’incontro di persone in preda alle “suggestioni culturali riconducibili all’ideologia rastafariana che prevede l’associazione tra musica reggae e marijana” (sic!). Meno pregiudizi razzisti e più conoscenza della storia dei Caraibi e dei movimenti di resistenza al dominio coloniale avrebbero potuto evitare affermazioni così spericolate.
Ma sospetto e pregiudizio ancora ricorrono quando il Gup ritiene di trovare conferma del comportamento “dolosamente tollerante” degli organizzatori del festival nel servizio di assistenza legale all’interno del festival. Di fronte a una legge fra le più punitive in Europa,  che riempie le galere di tossicodipendenti e di consumatori con pene che vanno da 6 a 20 anni di carcere, si dovrebbe fare come Ponzio Pilato?
Nel 2009 una medesima montatura contro il Livello 57di Bologna fu alla fine ridicolizzata da una sentenza di assoluzione, giunta però troppo tardi per riparare il danno provocato dalla chiusura del centro sociale.
Il processo che si svolgerà in Carnia deve diventare l’occasione per mettere sul banco degli imputati la legge Giovanardi. L’appuntamento è dunque per il 31 maggio a Tolmezzo in nome della giustizia giusta e del diritto, della cultura e della libertà.

(articolo per la rubrica di Fuoriluogo sul Manifesto del 1 febbraio 2012)

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Canapa in giardino, la svolta

Dalla Sardegna giungono buone notizie rispetto alla criminalizzazione della coltivazione domestica di canapa. L’8 luglio scorso, la Corte d’Appello di Cagliari ha cancellato la condanna contro due fratelli di Carbonia: in primo grado, il Tribunale di Cagliari li aveva condannati ad otto mesi di reclusione e duemila euro di multa per avere coltivato quindici piantine nella propria abitazione.
La perizia aveva accertato che solo una piantina alta 50 cm. conteneva 164 mg di Thc (quantitativo inferiore al valore della quantità massima detenibile a uso personale), mentre le altre, tra i 10 e 20 cm., non avevano materiale analizzabile.
La dott.ssa Fiorella Pilato, presidente estensore della sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato, ha affrontato il problema se la coltivazione di poche piante destinate all’uso personale possa avere rilevanza penale o se invece tale condotta possa essere assimilabile alla detenzione (ad uso personale): lo ha fatto prendendo le distanze dal dictum della sentenza 28605 del 10 luglio 2008 delle Sezioni Unite della Cassazione che affermò il principio della punibilità della coltivazione “senza se e senza ma”, indipendentemente dalla quantità e dalla destinazione.
La dr.ssa Pilato sottopone a serrata confutazione l’assunto della Cassazione secondo cui la coltivazione “merita un trattamento diverso e più grave” rispetto alla detenzione, per il solo fatto di aumentare la quantità complessiva di stupefacenti presenti sul mercato (sic!). Questa affermazione apparentemente logica si mostra invece come un vero e proprio paralogismo. La quantità di stupefacenti  presente sul mercato è nell’ordine di svariate tonnellate e non è certo qualche piantina che può aumentarla significativamente. Ma paradossali sono le conseguenze: il verdetto della Suprema Corte spingerebbe il consumatore, la cui attività è penalmente irrilevante, a rivolgersi al mercato illecito e clandestino incentivando lo spaccio e i proventi di una attività criminale. Conclude la dr.ssa Pilato: “Soltanto in astratto può affermarsi che qualsiasi coltivazione rappresenti un disvalore assoluto”.
La sentenza delle Sezioni unite della Cassazione afferma che la risoluzione del problema della droga “deve essere circoscritta al legislatore e ad esso soltanto è la responsabilità delle scelte circa i limiti, gli strumenti, le forme di controllo da adottare”, volendo con ciò limitare il potere di interpretazione delle norme da parte del giudice. Ma, in contrasto con quanto dichiarato, si arroga il diritto di aggravare le disposizioni di una legge già estremamente punitiva per l’introduzione di un’unica tabella per tutte le sostanze; e perfino di andare oltre il dettato della Convenzione internazionale di Vienna del 1988 che (par. 2 dell’art.3) equipara la coltivazione per consumo personale al possesso e all’acquisto. Come ho già scritto, la sentenza della Cassazione è culturalmente mediocre e senza alcun  pregio giuridico, frutto solo del pregiudizio ideologico e moralistico.
Infine, la dr.ssa Pilato ribadisce l’interpretazione contenuta in una sentenza del Tribunale di Milano: gli articoli 26 e successivi, che stabiliscono le pene per la coltivazione, si riferiscono alle attività di carattere industriale, non ai vasi sul balcone. Perciò, gli atti dei due fratelli di Carbonia sono stati rimessi al Prefetto per le sanzioni amministrative previste dall’art.75 per il consumo personale.
Dopo la magistratura, sarebbe ora che anche la politica battesse un colpo.

Articolo di Franco Corleone per la rubrica di Fuoriluogo su il Manifesto del 16 novembre 2011.

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Droghe e politica, l’erba dell’Uruguay è più verde

Franco Corleone scrive sulla proposta di legalizzazione della coltivazione della canapa nel paese sudamericano per la rubrica di Fuoriluogo sul Manifesto del 13 aprile 2011. Vai allo speciale sulla politica delle droghe in Sud America su fuoriluogo.it.

Alicia Castilla

Dall’Uruguay giunge la notizia della presentazione in Parlamento di una proposta di legge per la legalizzazione della coltivazione per uso personale della canapa.
L’Uruguay è un paese che ha abbandonato la war on drugs e recentemente ha avuto una svolta politica progressista. La legge non criminalizza l’uso personale di droghe e il governo dà la priorità al perseguimento dei grandi spacciatori invece di concentrare risorse ed energie contro i pesci piccoli. Nell’ultimo decennio, si è mostrata una certa larghezza di vedute soprattutto verso la marijuana: la norma non punisce il possesso di un cosiddetto “ragionevole quantitativo” per consumo personale, la cui legittimità è affidata alla discrezionalità del giudice. Dal 2007, diversi gruppi di attivisti pro-canapa hanno aperto un confronto con le autorità per chiedere la legalizzazione della auto coltivazione.
La vicenda è però esplosa nello scorso gennaio quando una giudice, Adriana Aziz, ha imprigionato Alicia Castilla, nota militante, autrice di due volumi sulla cultura della canapa e che pubblica ogni anno un Almanacco sulla coltivazione biodinamica della marijuana.
E’ così scoppiata la contraddizione di una legge che contemporaneamente vieta la coltivazione e ammette il possesso di una “ragionevole” quantità di sostanza per il consumo privato.
Il 24 febbraio si è svolta una manifestazione davanti alla Suprema Corte per la liberazione di Castilla e di altri 350 persone condannate per il possesso di piccole quantità di marijuana. Il portavoce della Suprema Corte Raul Oxandabarat in una conferenza stampa ha ammesso l’esistenza di un vuoto legislativo e lo Zar antidroga Milton Romani ha riconosciuto che “non è prudente incarcerare una donna che chiaramente non costituisce alcun pericolo per la salute pubblica”. Immediatamente la politica ha battuto un colpo: il deputato Sebastian Sabini del Movimento di partecipazione popolare (MPP), ha presentato una proposta di legge per la legalizzazione  della canapa,  stabilendo la liceità del possesso fino a 25 grammi e della coltivazione domestica fino ad otto piante femmine. Sabini è un esponente del maggior partito della coalizione di governo e ha trovato l’accordo con Nicolas Nunez, leader del Partito Socialista. Anche parlamentari dell’opposizione hanno predisposto un testo di riforma ma lasciando al giudice la valutazione sulla destinazione della sostanza detenuta, se per uso o per spaccio.
Sono interessanti le analogie con la situazione giuridica italiana, in ambedue i paesi le norme ricalcano i trattati Onu: l’articolo principale (il 73 della legge italiana, il 3 di quella uruguayana) criminalizza indiscriminatamente tutte le condotte, dal traffico, alla coltivazione, al possesso. Le norme che in Uruguay depenalizzano il possesso di “ragionevoli quantità” (in Italia infliggono solo punizioni meno drastiche) si presentano come una sorta di “eccezione” alla norma generale e rimane la questione se la coltivazione ad uso personale debba essere equiparata alla detenzione. In Italia, una recente sentenza del tribunale di Milano stabilisce l’equiparazione, nonostante altre sentenze della Cassazione di segno ( ne ho scritto sul manifesto, 11/2/ 2010).
Quanto alla politica, il capo del Dipartimento antidroga italiano, Giovanni Serpelloni si diletta a commissionare studi sui pretesi danni dell’uso di cannabis, mentre nel mondo si ragiona su come eliminare i danni certi prodotti dall’incarcerazione per una sostanza a minor rischio come la marijuana. Carlo Giovanardi (cui si deve l’approvazione della legge che ha equiparato tutte le droghe e che ha contribuito a riempire le galere di tossicodipendenti e di presunti spacciatori) sostiene che in Italia il consumo non è penalizzato, ma sanzionato solo in via amministrativa. Non è così, perché la detenzione di una quantità superiore a quello stabilita dal governo (tramite semplice decreto del ministro della sanità) apre le porte delle prigioni (da sei a venti anni di carcere, da uno a sei solo in caso il giudice riconosca la “lieve entità” del reato).
Qualche anno fa, Ethan Nadelmann, direttore della Drug Policy Alliance, intitolava un saggio sulla politica globale delle droghe “L’Europa ha qualcosa da insegnare all’America”. Dopo l’autorevole appello dei tre ex presidenti sudamericani Cardoso, Gaviria, Zedillo a superare la “guerra alla droga”, dopo la richiesta di Evo Morales di emendare i trattati Onu per legalizzare la foglia di coca, possiamo dire: l’Europa ha qualcosa da imparare dall’America Latina.

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Battisti, l’ergastolo e i poteri del Quirinale

L’articolo di Franco Corleone per la rubrica di Fuoriluogo sul Manifesto del 12 gennaio 2010. La lezione di Aldo Moro “La funzione della pena”, pubblicata nel volume Contro l’ergastolo, Ediesse, 2009, su www.fuoriluogo.it

C’era una volta Cesare Battisti, l’esponente dell’irredentismo trentino impiccato dagli austriaci il 12 luglio 1916. Oggi, a causa di una irriverente omonimia, la memoria del martire è cancellata a vantaggio di un protagonista minore della lotta armata. Anche questo esito è conseguenza certamente non voluta dell’orgia di parole sopra tono, delle speculazioni interessate, delle minacce altisonanti.

In un paese serio, la sua classe politica avrebbe reagito diversamente alla decisione del Presidente Lula di negare l’estradizione per un cittadino italiano condannato all’ergastolo per la responsabilità diretta o morale di quattro omicidi compiuti nel 1978. L’utilizzo di termini come “schiaffo all’Italia” o di “insulto alla giustizia” o addirittura di “attacco alla democrazia” sono il segno caratteristico di un paese dalla tenuta nervosa fragile e dalla tendenza vittimistica e isterica.

L’Italia avrebbe dovuto cogliere l’occasione offerta dal Brasile per fare i conti più che con la storia del terrorismo, delle leggi speciali, insomma con il passato, quanto meno con il suo presente.

La gran parte della stampa ha dato una pessima prova di disinformazione abbandonandosi alla più vieta propaganda: il complotto giudaico massonico questa volta è stato sostituito dalla protervia di un paese “inferiore”: senza che nessun giornale “indipendente” abbia ritenuto di fornire in maniera completa le ragioni del rifiuto di accedere alla richiesta di estradizione da parte del governo brasiliano e poi di Lula. Cosicché la decisione brasiliana appare un segno di stravaganza, quasi un dispetto. E invece vale la pena di capire perché un grande paese è disposto a mettere a rischio i rapporti economici e strategici con un partner importante: se non è un capriccio vi devono essere motivi che ci devono interrogare.

Mauro Palma e Alessandro Margara ( Manifesto, 31/12 e 7/1) hanno messo in luce i due punti che suscitano la contrarietà del Brasile: il fatto che l’Italia conservi la pena dell’ergastolo e la mancata ratifica del protocollo addizionale alla convenzione contro la tortura (che prevede un meccanismo ispettivo sovranazionale e l’istituzione di una autorità garante dei diritti dei detenuti).

Sono davvero questioni così irrilevanti da non meritare un confronto? Antonio Cassese, acuto giurista e paladino dei diritti umani, è incorso in un errore grave sostenendo che per la pena dell’ergastolo esistono forme di detenzione alternativa, delle quali Battisti potrebbe usufruire. Non è così, in quanto i suoi reati rientrano fra quelli previsti dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, che non consentono la liberazione condizionale. Ciò dimostra, se mai ce ne fosse stato bisogno, che in Italia l’ergastolo non è una finzione giuridica, come si vorrebbe far credere, anzi è una realtà pregnante (perfino in aumento negli ultimi anni). Con la stessa logica con cui l’Italia si rifiuta di consegnare un prigioniero ad un paese che prevede la pena di morte poiché estranea al suo ordinamento, così il Brasile si comporta per l’ergastolo.

Questo caso non si può risolvere in una bulimia di proclami, di ritorsioni e di boicottaggi più esilaranti che gravi. Deve invece essere una occasione per affrontare i nodi che sono emersi e che si vogliono nascondere sotto la coperta della lotta al terrorismo. Oltre ad esprimere delusione e rammarico, il presidente Napolitano potrebbe compiere degli atti concreti di sua esclusiva competenza per rimuovere gli equivoci: ad esempio, annunciare la commutazione dell’ergastolo di Battisti in una reclusione congrua e invitare il Parlamento ad adempiere a quegli obblighi internazionale che le associazioni che si occupano di carcere, giustizia e diritti chiedono da anni. Allora la richiesta di estradizione avrebbe maggiore forza e legittimità sostanziale. Questa è la vera questione su cui l’opposizione dovrebbe incalzare il governo, senza farsi sedurre dall’urlo del topo di Frattini e La Russa e infilarsi in polemiche giuste, ma minori, sulla scarsa credibilità internazionale dell’Italia.

L’ammonimento ai giovani di Aldo Moro a proposito dell’ergastolo, “Ricordatevi che la pena non è la passionale e smodata vendetta dei privati”, è un monumento del pensiero giuridico umanistico da cui non si dovrebbe prescindere mai.

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Gli spazi della pena nelle macerie del carcere

Articolo di Stefano Anastasia e Franco Corleone per Il Manifesto, 2 dicembre 2010

E’ questione di giorni, il tempo della pubblicazione nella Gazzetta ufficiale e il topolino comincerà a muovere i suoi primi passi tra le mura delle carceri italiane, rosicchiandone qualche tramezzo e facendone uscire – nella meno realistica delle ipotesi – settemila detenuti. Se così fosse, le presenze in carcere potrebbero scendere, nel giro di qualche mese, a 62mila: tante quante furono sufficienti a spingere una amplissima maggioranza del Parlamento a votare l’indulto del 2006. Questi gli effetti declamati dell’approvazione del disegno di legge governativo per l’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a un anno.
E’ questione di tempo, poi il topolino si suiciderà (come peraltro si usa, in galera): entro e non oltre il 31 dicembre 2013 l’esecuzione a domicilio delle pene fino a un anno si dissolverà come neve al sole, tanto– per allora – sarà stato completato il fantomatico “piano carceri” e, addirittura, saranno state riformate le misure alternative alla detenzione. Così prescrive l’ottimistico/propagandistico art. 1 del provvedimento. Prudentemente il dispositivo di autodistruzione è stato programmato per la fine del 2013, anche se i lavori del “piano carceri” è previsto che finiscano entro il 2012: non sia mai la legislatura dovesse andare avanti con questo Governo, ne risponderà chi verrà dopo, del topolino e della montagna che lo ha partorito.
Intanto, Franco Ionta, il Bertolaso del settore, Capo Dipartimento e Commissario straordinario alla “emergenza carceri”, metterà a ferro e fuoco l’Italia penitenziaria, cercando di rendere disponibili – in due anni – 9150 nuovi posti letto detentivi, 4400 dei quali ricavati all’interno della attuali strutture penitenziarie. Non occorre essere Jeremy Bentham per sapere che c’è qualche relazione tra l’organizzazione degli spazi penitenziari e la funzione della pena. E allora, se tanto ci dà tanto, l’obiettivo del piano carceri è la pura e semplice saturazione degli spazi penitenziari, secondo la pratica dello storage, la compressione (reale o informatica) degli archivi o dei magazzini. Poco male fin quando si tratti di ammassare materiale inerte; completamente diverso quando, negando il diritto alla affettività e accanendosi in particolare sui tossicodipendenti, destinatari di un simile trattamento siano esseri umani ai quali i nostri principi, prima ancora che il nostro ordinamento giuridico, riconosce diritti fondamentali incomprimibili, non ultimo quello di venire fuori da quegli ammassi di corpi e cemento.
A questa insopportabile contraddizione è dedicato il Convegno organizzato oggi e domani dalla Società della ragione, a Roma, presso il Senato della Repubblica. Architettura versus edilizia non vuole essere l’ennesima occasione di denuncia dell’ormai noto sovraffollamento, ma ha l’ambizione di sollecitare una riflessione su quali spazi per la pena secondo la Costituzione. Al contrario del parametro esclusivamente quantitativo della edilizia penitenziaria, ossessionata dalla urgenza di soddisfare una parossistica domanda di “più carcere”, l’architettura mette in campo risposte sulla qualità della vita, anche in un luogo di costrizione e di sofferenza come il carcere, a partire dai bisogni dei suoi abitanti. E’ la proposta di un cambio di paradigma e, magari, di una nuova prospettiva di riforma, tanto più rilevante quanto più vicina sembra essere la fine di un governo che ha fatto della speculazione sull’insicurezza il proprio tratto distintivo fino a naufragare nella ingovernabilità del sistema penitenziario.

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Carcere, una riforma dopo le chiacchiere estive

Agosto sta finendo e la vita nelle carceri prosegue nell’ordinarietà della illegalità permanente. Qualche cinico potrà vantarsi dell’assenza di rivolte e dire che non è successo nulla; che si può continuare tra morti sospette, suicidi (siamo a quota 42), malattie  e autolesionismo.
Mauro Palma sul Manifesto del 13 agosto, analizzando l’iniziativa del “Ferragosto in carcere” ha giustamente sottolineato che non mancano analisi e fotografie di una realtà che è andata degenerando. Ancora più puntualmente ha voluto richiamare il senso dell’iniziativa, forte solo se indirizzata in maniera inequivoca a voltare pagina.
Purtroppo non è né facile né semplice definire un progetto per il cambiamento radicale del carcere. Travolti dall’emergenza del sovraffollamento, anche le associazioni e i movimenti impegnati sul terreno riformatore sono stati risucchiati nell’arida contabilità della capienza reale degli istituti penitenziari, trovandosi a contestare le cifre offensive (verso la dignità delle persone) della capienza “tollerabile”. Fiumi di parole e un enorme volume di tempo ed energie nel tentativo di vuotare il mare con un secchiello.
Certo l’attività di pronto soccorso va proseguita, ma vanno anche denunciati gli autori dei crimini; in questo caso i responsabili della distruzione dei valori costituzionali sul carattere della pena e sulle modalità della sua esecuzione. Per questo non si può dare alcun credito alle promesse del ministro Alfano di facilitare le misure alternative. Meglio concentrarsi dunque sui nodi cruciali della questione.
L’attenzione al carcere è fondamentale per molte ragioni e sul significato della detenzione le parole di Aldo Moro rimangono le più umane, in particolare quelle contro l’ergastolo. ll carcere ci parla anche della giustizia, del suo funzionamento concreto e dei destinatari odierni della politica criminale dietro le leggi suggerite dall’ossessione securitaria. Se il carcere contiene la metà dei detenuti per reati (perlopiù minori) di violazione della legge sulle droghe o per reati compiuti in quanto tossicodipendenti, vuol dire che  la macchina della giustizia è soffocata e ingolfata da indagini e processi per la repressione di un tabù ideologico.
Qui sta l’origine della lentezza e della crisi della giustizia, altro che processo breve. Che aspetta il Partito Democratico a porre questa discriminante al partito della Proibizione e dello Stato etico?
Se aggiungiamo gli effetti della legge contro gli immigrati e la persecuzione contro i soggetti più deboli a causa della legge Cirielli, ci scontriamo con il volto feroce della giustizia di classe.
Allora dobbiamo urlare senza mezzi termini che il sovraffollamento non è una calamità  naturale ma un effetto voluto dagli imprenditori della paura; e che l’unica misura accettabile di capienza è quella costituzionale. Se si rispettasse lo stato di diritto, mite e laico, in Italia i detenuti non dovrebbero superare le trentamila unità.
Che fare dunque? Bisogna convincersi che la crisi non può essere un alibi; il governo e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sono privi di un progetto sul carcere e sono capaci solo di parlare a vanvera di edilizia carceraria, senza neppure confrontarsi sulla qualità architettonica e la sua funzione rispetto alla riforma penitenziaria.
Forse bisogna decidere di ripartire dal quel testo del 1975 e dal regolamento di attuazione del 2000 rimasto nel cassetto:  non è più il caso di accontentarsi delle giaculatorie pseudo riformiste.
Quest’anno ricorre il ventesimo anniversario dell’istituzione della Polizia Penitenziaria. Non è il caso di fare un bilancio della smilitarizzazione degli agenti di custodia (battaglia che vide allora  impegnata Adelaide Aglietta con un lungo sciopero della fame)?
Io non me la sento di unirmi al coro cerchiobottista di chi sostiene che vi sono troppo pochi agenti. Dico invece che bisogna ipotizzare una nuova riforma: ad esempio concentrando i compiti della Polizia Penitenziaria sull’Alta Sicurezza, sul 41 bis, sulle traduzioni e sulla vigilanza esterna e investendo un nuovo Corpo civile dei compiti trattamentali e del reinserimento sociale dei detenuti, come avviene ad esempio in Catalogna. E da subito iniziare una campagna d’autunno per la liberazione a Natale di 10.000 tossicodipendenti illegalmente sequestrati in galera.

Articolo per la rubrica di Fuoriluogo sul manifesto del 25 agosto 2010.

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Giovanardi e il rapporto droga: numeri e nuvole

Se Giovanardi, nel presentare la Relazione 2010 al Parlamento sulle tossicodipendenze, avesse voluto sorprenderci positivamente, avrebbe avuto una scelta obbligata: dedicare il documento sui dati del 2009 a Stefano Cucchi e alla sua via crucis, dall’arresto alla morte, simbolo della persecuzione e del disprezzo per i tossicodipendenti. Sarebbe stato un segno di umanità e di resipiscenza rispetto al cinismo manifestato a caldo. Invece ha pensato bene di annunciare il trionfo della guerra alla droga in Italia con la diminuzione del 25% di consumatori di sostanze stupefacenti in un solo anno.

Un milione di drogati in meno che ricorda l’altro efficace slogan berlusconiano di un milione di nuovi posti di lavoro!

Che l’ispiratore di questa linea ottimista sia l’imbonitore di Arcore è testimoniato dal commento della Presidenza del Consiglio che ha elogiato l’opera dello zar e l’azione del Governo per aver causato un evidente danno alla mafia. Ma i dati del crollo dei consumi sono incredibili. Soprattutto è incredibile che si pretenda di parlare in nome della scienza. Come è possibile che i consumatori “life time” di canapa (che hanno consumato almeno una volta nella vita) passino in un anno dal 32 al 22 per cento? Dove sono finiti, sono tutti morti in un così breve lasso di tempo? O era errata la cifra  dell’anno passato o quello di quest’anno, tertium non datur. La prevalenza life time comunque non può avere scostamenti simili. E’ inaccettabile che il governo si affidi a dati chiaramente inaffidabili per battere la grancassa politica. Forum Droghe non intende far passare questa valutazione come una bufala su cui scherzare e sta lavorando con un gruppo scientifico per contestare radicalmente il modo di lavorare del Dipartimento antidroga e per costituire un Osservatorio indipendente a disposizione degli operatori.

Con questo escamotage ancora una volta Giovanardi è riuscito a non far parlare i giornali dei dati veri, quelli relativi alle conseguenze della legge da lui promossa quattro anni fa in termini di incarcerazioni e di sanzioni amministrative.

Nel 2008 gli ingressi in carcere dalla libertà per tutti i reati erano stati 92.800 di cui dichiarati tossicodipendenti ben 30.528 soggetti, pari al 33%. Nel 2009 gli ingressi in carcere sono stati 88.066, con una flessione del 5% e le persone con problemi di tossicodipendenza ammontano a 25.180, pari al 29%. Secondo i dati della Relazione vanno aggiunti gli ingressi in carcere per violazione del Dpr 309/90 e in particolare per l’art. 73 relativo a condotte di detenzione e spaccio che riguardano 27.640 persone rispetto ai 26.931 soggetti del 2008.

Il numero delle denunce è invece nettamente più alto (36.277) e gli arresti sono stati ben 29.529.

I soggetti in carico al Sert in carcere nel 2009 sono stati 17.166, in aumento rispetto al 2008, quando erano 16.798.

Il quadro che emerge conferma, al di là di minime differenze, che il sovraffollamento che attanaglia le carcere è dovuto alla presenza di tossicodipendenti e di imputati di piccolo spaccio.

I dati relativi alle segnalazioni alle prefetture per semplice consumo sono ancora provvisori e assommano a 28.494 unità; è certo invece il dato di aumento delle sanzioni inflitte (15.923 rispetto alle 14.993 del 2008). Resta confermata la percentuale di segnalazioni per consumo di cannabis, il 72%.

Un ultimo dato che mostra il peso impressionante sul funzionamento della giustizia della legislazione antidroga è offerto dal numero di persone coinvolte in processi penali pendenti: 224.647 nel secondo semestre del 2009. Le persone in trattamento presso i Sert si attestano sulla cifra di

168.364 con una situazione del personale assolutamente carente.

Di questo quadro che conferma le analisi fatte nel Libro Bianco sugli effetti della Fini Giovanardi, presentato in occasione della Conferenza nazionale di Trieste, discuteremo martedì 13 luglio a Firenze in occasione della presentazione del volume “Lotta alla droga. I danni collaterali” sull’impatto sul carcere e sulla giustizia in Toscana della legge contro gli stupefacenti. E’ una ricerca che dà un contributo per un approccio scientifico alle politiche antidroga.

(Articolo pubblicato dal Manifesto il 7 luglio 2010. La presentazione del volume “Lotta alla droga. I danni collaterali” su www.fuoriluogo.it)

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Cacciatori di semi

Articolo sulla vicenda dei due titolari di Semitalia per la rubrica settimanale di Fuoriluogo sul Manifesto del 12 maggio 2010.

Nell’anno di grazia 2010 in Italia si può finire in galera per un reato d’opinione. La cronaca di questi giorni parla da sé. Da quindici giorni due giovani imprenditori di Vicchio, storico paese del Mugello, sono imprigionati a Sollicciano, il carcere di Firenze, su ordine del pubblico ministero di Bolzano per violazione dell’articolo 82 della legge antidroga, il Dpr 309 del 1990, che punisce l’istigazione, il proselitismo e l’induzione all’uso illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope.

Nella realtà Marco Gasparrini e Luigi Bargelli  titolari di una società, la Semitalia, da sette anni a questa parte si sono limitati a vendere semi di canapa utilizzando un sito on line. L’attività è perfettamente legale in quanto la legge italiana punisce la detenzione e lo spaccio di sostanze stupefacenti in relazione alla quantità e alla presenza di principio attivo. Le Convenzioni internazionali che sono alla base della legislazione proibizionista non contemplano tra le sostanze vietate i semi in quanto sono un prodotto neutro, che non può essere assimilato alla droga. Il pm titolare dell’inchiesta, Markus Mayr, ha candidamente affermato che infatti l’arresto non è per il commercio di semi di canapa ma per l’istigazione all’uso. A sua detta, il reato procederebbe per deduzione, sulla base dei numerosi sequestri di piante coltivate con i semi provenienti dalla ditta toscana (sic!).

Ho denunciato la presenza in carcere di due detenuti “abusivi”, nel senso che occupano due posti in un carcere sovraffollato senza alcun titolo, ma come vittime di un vero e proprio abuso.

Il magistrato di Bolzano ha utilizzato un articolo che già di per sé trasuda ideologia e rappresenta un oltraggio al diritto per come è scritto. Ma ha fatto di peggio: ha forzato la lettera della legge che indica l’istigazione quale attività pubblica con un dettaglio dei luoghi tutelati (scuole, caserme, carceri, ospedali). Oltretutto, in quel famigerato articolo della Iervolino-Vassalli non si parla di istigazione alla coltivazione.

La persecuzione giudiziaria dei due commercianti fiorentini fa emergere gravi contraddizioni e  disparità nell’applicazione della legge. Nel febbraio scorso, in questa stessa rubrica commentavo una fondamentale sentenza del giudice Salvini del tribunale di Milano che ha assolto un cittadino accusato di aver coltivato in giardino sette piante di marijuana. Allora, facciamo il punto. Secondo Giovanardi, la legge non punisce col carcere il semplice uso di droga, ma solo con sanzioni amministrative; secondo l’autorevole magistrato Giorgio Salvini, la coltivazione domestica è equiparata al consumo personale e non sanzionabile con misure penali; invece per la scuola giuridica di Bolzano tutti devono essere messi in galera, consumatori e coltivatori, iniziando da Marco Gasparrini e Luigi Bargelli per il non- reato di vendita di semi.

Il codice Rocco, emblema del diritto etico, rivive nel Sud Tirolo! A pochi chilometri da Vicchio si trova Scarperia, paese produttore di coltelli: suggeriamo al pm di Bolzano di accusare di istigazione all’omicidio tutti i venditori di lame che abbiano fornito l’arma a uxoricidi. Per la par condicio, naturalmente.

Mentre il procuratore della repubblica di Venezia Vittorio Borraccetti raccomanda di arrestare solo per i casi estremi per non aggravare inutilmente il sovraffollamento delle carcere, i pm di Bolzano incarcerano allegramente, anche in assenza delle condizioni della custodia cautelare previste dal codice. Magari per soddisfare il protagonismo di esponenti della polizia giudiziaria locale che non hanno di meglio da fare che vantarsi di essere  “cacciatori di semi”. Oggigiorno molti attaccano i  principi sacri dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura, mettendo in discussione che il giudice sia soggetto solo alla legge. Per difenderli,  mi aspetto che l’Associazione Nazionale Magistrati non copra per spirito di corpo i magistrati che si inventano la legge per pregiudizio  ideologico.

Venerdì il Tribunale della Libertà di Bolzano deciderà sulla sorte di due giovani incensurati, impegnati nella loro comunità (uno è vice presidente del consiglio comunale) e che hanno ricevuto la solidarietà di tutto il paese.

Senza scomodare Berlino, ci basta che ci sia un giudice a Bolzano!

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I miei articoli In Primo Piano Le carceri

La guerra alla droga all’italiana non prevede diritti

L’ombra di Stefano Cucchi continua ad agitare i sonni del sottosegretario Giovanardi. L’ineffabile zar antidroga insiste a diffondere dichiarazioni insultanti per la memoria del giovane che sarebbe morto perché drogato e non per i pestaggi e il successivo abbandono da parte dei medici. Non può essere solo cinismo. Giovanardi si rende conto che il corpo martoriato di Cucchi è la rappresentazione crudele degli effetti della war on drugs all’italiana. Nonostante un abisso morale ci divida da chi tratta i consumatori di sostanze come esseri privi di diritti, insistiamo nella ricerca del confronto per far uscire dal carcere migliaia di detenuti tossicodipendenti e perseguire la via sociale e non palazzinara alla soluzione del sovraffollamento delle carceri. Per questo, tra qualche giorno parteciperemo con varie associazioni, a un incontro con il capo del Dipartimento antidroga, Giovanni Serpelloni. Questi in un’intervista all’Avvenire del 6 aprile ha messo le sue carte in tavola. Con funambolici giochi di prestigio, ha dimezzato il numero dei tossicodipendenti in carcere, sostenendo che vi sono tossicodipendenti veri e falsi e che quelli con il bollino degli standard clinici internazionali sarebbero solo 7mila. I dati ufficiali sono ben altri: i tossicodipendenti sarebbero oltre 15mila. Il doppio rispetto ai numeri di Serpelloni, che con le sue minimizzazioni vorrebbe dimostrare che la Fini-Giovanardi non ha prodotto una criminalizzazione dei consumatori.
Ma Cucchi allora perché è stato arrestato? Il 38% dei detenuti è dentro per avere violato un’unica norma: l’articolo 73 della legge sulle droghe. Su quel 38% bisognerebbe lavorare per risolvere seriamente il tema del sovraffollamento. Noi saremmo per mettere mano al complessivo impianto ideologico proibizionista, ma sappiamo chi sono i nostri interlocutori. Percò proponiamo un’agenda pragmatica di deflazione carceraria: abrogare le norme della legge Cirielli sulla recidiva che penalizzano i tossicodipendenti non consentendo loro di accedere ai benefici e all’affidamento terapeutico; limitare la custodia cautelare promuovendo il ricorso ai domiciliari; evitare per i piccoli spacciatori-consumatori le pene da 6 a 20 anni; eliminare il limite a due sole concessioni dell’affidamento terapeutico. Solo a seguire si potrà chiedere alle Regioni un impegno straordinario per l’affidamento in comunità o per trattamenti non residenziali nel territorio.
Questo è il terreno discriminante per affrontare il macigno del sovraffollamento carcerario. Il dibattito parlamentare sulle misure di decongestionamento delle carceri è partito male. La proposta di legge Alfano, pur avendo in sé la consapevolezza di affrontare il problema, pone tali e tanti limiti da renderla quasi evanescente. Si pensi all’obbligo della riparazione a favore delle vittime. Cosa dovrà riparare un consumatore di droghe o un immigrato accusato di irregolare permanenza in Italia? Fare il badante a Borghezio? Ben venga una discussione ponderata che faccia uscire allo scoperto partiti e posizioni. Tutti sappiano però che per superare l’emergenza carceraria bisognerebbe modificare tre leggi: la Cirielli sulla recidiva, la Bossi-Fini sull’immigrazione e la Fini-Giovanardi sulle droghe. Tutto il resto non è risolutivo. Noi temiamo che il fallimento annunciato della proposta Alfano faciliti il disegno della speculazione edilizia penitenziaria senza controllo.

Franco Corleone e Patrizio Gonnella, dal Manifesto del 14 aprile 2010.

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I miei articoli In Primo Piano Le carceri

Gli affari prima di tutto, anche sulle Carceri

Il ministro della Giustizia Alfano nella conferenza stampa a Palazzo Chigi per illustrare le misure per risolvere il sovraffollamento nelle carceri giunte a contenere 65.000 persone ha proclamato una missione senza precedenti. Abbandonare la via delle amnistie e degli indulti che hanno caratterizzato la storia repubblicana e concentrare le risorse per costruire nuove carceri per arrivare a contenere fino a 80.000 detenuti.
E’ stato confermato lo stato di emergenza delle carceri che nelle parole della modesta caricatura di Bava Beccaris si sostanzia in questo anno nella costruzione di 47 padiglioni nelle aree delle carceri esistenti.
Il tandem Berlusconi-Alfano hanno giustificato la via cementificatrice in nome dei principi costituzionali della concezione della pena rieducativa e del senso di umanità, per difendere cioè la dignità e la salute delle persone private della libertà.
Di fronte a tanta faciloneria e pressapochismo intellettuale si rimane costernati. La vita negli hangar per ammassare corpi sarà bestiale: senza acqua, senza luce, senza cucine, senza spazi di socialità, senza educatori.
Un ministro irresponsabile e presuntuoso è davvero pericoloso. Un ministro della giustizia che non sa che l’ultimo indulto di tre anni fa è stato approvato dopo ben sedici anni di assenze di misure di clemenza e che attribuisce i numeri attuali di presenze al rientro in carcere degli “indultati” dimostra di non sapere quello di cui parla (o straparla?).
Demagogia e propaganda sono le armi per coprire le responsabilità di una Amministrazione penitenziaria incapace, senza idee e segnata da una paralisi progressiva.
Alfano non è un contabile, dovrebbe essere un ministro che si confronta con le scelte criminali del governo e della sua maggioranza. Non può far finta di non sapere che le carceri sono piene di immigrati, di tossicodipendenti e di poveri e di emarginati.
Alfano dovrebbe spalancare i suoi occhioni perennemente stupefatti sulla vergogna di una legge come la Cirielli che condanna a una sorta di ergastolo bianco i soggetti più deboli, in particolare i tossicodipendenti, colpevoli e vittime della recidiva.
Il finto buon senso che giustifica la scelta di non affrontare le ragioni del sovraffollamento con l’aumento dei posti letto fa letteralmente vomitare.
Non sono poche le celle, sono troppi i detenuti che non dovrebbero entrare in carcere e soprattutto non starci.
La criminalizzazione di massa mette a rischio la qualità della democrazia di un paese e l’Italia sta precipitando in un gorgo che fa strage di giustizia e di diritto.
La strada annunciata dal Governo ha dei costi enormi. 600 milioni di euro sottratti alle misure alternative e al reinserimento sociale dei detenuti per millantare un miglioramento delle condizioni di vita dei prigionieri.
In realtà il carcere si conferma con la forza dei numeri previsti una orrenda discarica sociale.
La promessa di allargare la detenzione domiciliare a chi deve scontare l’ultimo anno di pena e i lavori di pubblica utilità sono affidati a un disegno di legge dalla sorte incerta. Gli affari prima di tutto!

Articolo di Franco Corleone per il Manifesto del 14 gennaio 2010