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Amnistia, non amnesia

carcere-zuglianoTra poco più di otto mesi l’Italia dovrà rispondere alle autorità giurisdizionali europee intorno alla condizione di vita nelle carceri italiane. Dovrà in sintesi fornire risposte adeguate e convincenti su come si è avviata ad assicurare i diritti fondamentali alle persone ristrette nelle nostre carceri, oggi inverosimilmente e tragicamente stipate in luoghi perlopiù fatiscenti. Va ricordato che ci sono circa 30 mila persone in più rispetto ai posti letto regolamentari. Inoltre una parte significativa della popolazione detenuta è costretta all’ozio in cella per 20-22 ore al giorno in condizioni degradanti.
In questo scenario è stato riproposto il tema dell’amnistia. Dopo la riforma costituzionale che ha reso quasi impossibile la sua approvazione con l’introduzione di un quorum assurdamente spropositato, si pone come un tema a tutto tondo politico. Un tema che è venuto periodicamente a galla per fronteggiare il surplus di detenuti.
L’amnistia e l’indulto, nella tradizione della Repubblica ad egemonia democristiana, sono state le vie per governare giustizia e carcere. Sono stati usati alla stregua di due rubinetti di scarico per liberare le scrivanie dei tribunali e sfoltire le presenze in galera. Le decine di provvedimenti di clemenza non suscitavano polemiche perché costituivano la valvola di sfogo per reggere un sistema che aveva scelto di non abrogare il Codice Rocco e di mantenersi fedele al processo inquisitorio.
Strumenti penali tipici di uno stato paternalistico-autoritario che in alternativa alle riforme mancate elargiva manciate di benefici a prezzo di saldo. Così è accaduto fino all’approvazione del nuovo codice di procedura penale e all’ultima amnistia del ministro Vassalli.
Purtroppo non solo quella riforma tanto attesa venne rapidamente ridimensionata dalla legislazione d’emergenza dei primi anni novanta ma non fu accompagnata da un nuovo Codice Penale (si continuarono però a elaborare progetti da parte di Commissioni ad hoc come le ultime elaborate da Federico Grosso, Carlo Nordio e Giuliano Pisapia). Peggio, nuove questioni sociali come l’immigrazione o l’uso di stupefacenti furono utilizzate per alimentare campagne securitarie e alimentare paure. Così in quegli anni si elaborò il diritto autoctono penale del nemico, dove il nemico era il tossicodipendente o l’immigrato. Due tipologie di detenuti che oggi complessivamente  riempiono per due terzi le nostre prigioni.
In questo scenario è assolutamente necessario abrogare quelle leggi, a partire dalla Fini-Giovanardi sulle droghe che come abbiamo dimostrato anche con l’ultimo Libro Bianco, è responsabile in modo massiccio del sovraffollamento carcerario. Eppure il dibattito parlamentare avvenuto a fine luglio in sede di conversione del decreto Cancellieri sull’esecuzione delle pene, che aveva misure di buon senso seppur non risolutive, è stato ancora una volta desolante tanto da temere la riviviscenza di una paccottiglia demagogica. In questo contesto ci preme sottolineare che si è rischiato un nuovo asse della sicurezza con pezzi del Pdl, Fratelli d’Italia, Lega e M5S.
Il tema della clemenza non può prescindere quindi da quello delle riforme sistemiche: amnistia e riforme devono essere contestualizzate, dando così al provvedimento di clemenza quella connotazione di ricostruzione sociale che tale istituto dovrebbe avere (proprio su queste pagine Livio Pepino ha ricordato una delle rarissime amnistie con tale profilo, quella della fine degli anni sessanta dopo la repressione dei movimenti sociali di quegli anni). Da mesi siamo impegnati insieme a molte organizzazioni di società civile, a sindacati come la Cgil, alle Camere Penali, in una campagna che abbiamo chiamato simbolicamente “tre leggi per la giustizia”. Siamo al traguardo delle 50 mila firme e in questo mese le presenteremo alla presidente della Camera Boldrini chiedendo una sessione parlamentare per affrontare in maniera organica un pacchetto di misure incisive. Le nostre tre leggi riguardano l’introduzione del delitto di tortura nel codice penale, il radicale cambiamento della legge sulle droghe, l’abrogazione del reato di immigrazione clandestina, l’istituzione del garante nazionale delle persone private della libertà, modifiche in senso meno repressivo delle norme in materia di custodia cautelare e recidiva, le liste di attesa. A questo complessivo processo crediamo debba essere legata con urgenza l’amnistia  per  ripristinare un trattamento penale ordinario verso quelle categorie sociali deboli contro cui è stata brandita l’arma della repressione penale e per accompagnare la stabile cancellazione dall’area del penale di quei reati privi di offensività e che tali non dovrebbero essere. Si tratta quindi di introdurre una diversa agenda sui temi della giustizia. Lo stesso recente attacco a Magistratura Democratica, la componente garantista dei giudici, ci suggerisce di organizzare con rapidità un confronto serrato sui contenuti per tale cambiamento del funzionamento della macchina che amministra la giustizia: un cambiamento radicale anche perché il riformismo senza riforme porta alla condanna definitiva dell’Italia e la radicalità assoluta e senza compromessi è in realtà la via del buon senso e della ragione. In questo contesto si pone quanto chiaramente evidenziato nella sentenza della Corte di Strasburgo che ha condannato l’Italia: la condizione di vita delle carceri, definita come quotidiano trattamento disumano e degradante, accostata alla tortura dallo stesso ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, rende indilazionabile un provvedimento a efficacia immediata che riporti il sistema nella legalità penitenziaria e contabile. Nelle carceri non vi deve essere un detenuto in più rispetto ai posti letto regolamentari. Il provvedimento di clemenza mirato può servire a questo, se insieme però si cambia la filosofia della pena. In questo senso sarebbe cosa buona e giusta che le indicazioni che stanno emergendo dalla Commissione presieduta da Mauro Palma vengano messe subito in atto, visto che esse vanno verso l’obiettivo di tenere insieme la riduzione dell’impatto carcerario e una migliore qualità della vita nelle carceri.

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La legge Fini va alla consulta

giovanardi_finiLa corte di appello di Roma (terza sezione, presidente ed estensore Bettiol) ha mandato alla Corte costituzionale la famigerata legge Fini-Giovanardi sulle droghe, ritenendola incompatibile con la Costituzione.
La vicenda nasce dalla condanna inflitta dal Tribunale a due ragazze, che erano state fermate dai carabinieri perché trovate in possesso di 27 dosi di marijuana. Nel giudizio di appello, svoltosi il 28 gennaio, il difensore delle ragazze ha eccepito la incostituzionalità della legge e la corte di appello gli ha dato ragione.
La decisione è molto importante perché ritiene che la Fini-Giovanardi contrasta con la Costituzione sotto tre profili.
Anzitutto perché è stata inserita come «maxiemendamento» al decreto-legge sulle Olimpiadi invernali del 2006, che con la droga non avevano nulla a che fare.
A questo proposito la Corte romana si rifà ad alcune sentenze della Consulta, che hanno ripetutamente bocciato altri decreti-legge proprio perché il Parlamento li aveva approvati stravolgendone il contenuto.
I giudici romani sottolineano poi la assurdità della equiparazione di droghe «pesanti» e «leggere», di cui «va rilevata la modestia degli effetti negativi sull’organismo, non differenti da quelli che provocano alcool o nicotina». Perciò, dicono i giudici, comminare per la «cannabis» le stesse pene previste per gli oppiacei è irrazionale e contrasta con l’articolo 3 della Costituzione, che non consente di trattare allo stesso modo fatti fra loro così diversi.
Infine, secondo i giudici, la legge Fini-Giovanardi viola anche la legislazione europea perché «unificando la pena prevista sia per le droghe leggere che per le droghe pesanti» non si è attenuta ad una decisione del 2004 del Consiglio della Unione Europea.
Ora la palla passa alla Consulta, cui spetta di spazzare via una legge assurda che contribuisce quotidianamente al sovraffollamento delle carceri che tutti deprecano.
Auguriamoci che la decisione arrivi in tempi brevi, a meno che non sia il prossimo Parlamento a liberarci ancor prima di una delle peggiori mostruosità dell’era fini-berlusconiana.
Nel frattempo nessun giudice rispettoso della Costituzione può continuare ad infliggere condanne in base ad una legge che una corte di appello della Repubblica ha dichiarato illegittima.
(da il Manifesto del 5 febbraio 2012)

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Droghe, la parola alla Corte

Franco Corleone presenta la questione di legitimità costituzionale che sarà presentata in occasione dell’udienza del processo Rototom per la rubrica di Fuoriluogo sul Manifesto del 23 gennaio 2012. Scarica il dossier (dal sito de la Società della Ragione).

cop-costituzionalitaOggi pomeriggio a Udine, si tiene un seminario organizzato dalla Società della Ragione sulla incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi sulle droghe, alla vigilia del processo contro Filippo Giunta, creatore del festival Rototom Sunsplash e accusato di agevolazione all’uso di sostanze stupefacenti.
Sono sette anni che questa legge provoca effetti disastrosi sul funzionamento della giustizia e sulla condizione delle carceri, determinando il sovraffollamento che è alla base delle condanne  della Corte di Strasburgo per trattamenti disumani e degradanti.
La proposta di Gianfranco Fini fu presentata nel 2003, ma vide la luce solo nel 2006 grazie a un colpo di mano del sottosegretario Carlo Giovanardi: il disegno fu trasformato in maxi emendamento, inserito nel decreto legge dedicato alle Olimpiadi invernali di Torino.
L’opposizione fu tenace e incalzante, in Parlamento e nel Paese. Fu sconfitta solo per uno stupro istituzionale e per la latitanza del Quirinale.
Sul mensile Fuoriluogo vennero poste le questioni di legittimità costituzionale: per la prima volta il legislatore cancellava la volontà espressa dai cittadini nel referendum del 1993 a favore della depenalizzazione del possesso di sostanze stupefacenti per  uso personale. Furono anche segnalate due altre gravi lacerazioni costituzionali rispetto ai principi del giusto processo e delle competenze regionali.
Alcune Regioni sollevarono la questione di legittimità costituzionale per le norme che ledevano la loro autonomia legislativa e organizzativa. La Regione Emilia-Romagna denunciò l’inserimento strumentale delle misure antidroga nel decreto Olimpiadi, che configurava, già di per sé, “un autonomo vizio di costituzionalità”.
Tale rilievo non si traduceva tuttavia nella specifica denuncia della violazione dell’art. 77 della Costituzione, poiché  all’epoca la giurisprudenza della Corte Costituzionale non si era ancora consolidata nel senso della possibilità di verificare i requisiti di “necessità e urgenza” dei decreti legge anche dopo la loro conversione.
Dopo le pronunce della Corte del 2010 e del 2012, le condizioni sono mutate: le sentenze hanno dettato criteri vincolanti per l’approvazione dei decreti legge, stabilendo in particolare il divieto per il Parlamento di inserire disposizioni estranee all’oggetto e alle finalità del testo originario del decreto di urgenza.
Un gruppo di lavoro, coordinato da Luigi Saraceni, ha messo a punto un documento di analisi legislativa e di ricostruzione storica della vicenda, predisponendo una sorta di modello per sollevare davanti all’Autorità giudiziaria la questione di legittimità costituzionale.
Anche da questo versante “giudiziario”, ci sono dunque tutte le ragioni per riprendere la battaglia per un cambio della politica delle droghe in Italia, mettendo in luce il vizio d’origine di una svolta repressiva che ha prodotto gravi guasti umani.
La predisposizione di questo “schema” intende fornire  agli avvocati impegnati ogni giorno nella difesa di giovani consumatori o tossicodipendenti, uno strumento per fermare la macelleria giudiziaria. E’ auspicabile che la parola passi presto alla Corte Costituzionale. La cancellazione del decreto non produrrebbe un vuoto normativo (tornerebbe infatti in vigore la legge precedente), ma creerebbe le migliori condizioni per una riforma sostanziale della legge.

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Carcere e democrazia

Il dramma del carcere è destinato ad aggravarsi non solo perché il numero dei detenuti ha ripreso a crescere dopo una flessione degli ultimi mesi, ma perché è la vivida rappresentazione di una crisi della democrazia. Quando il Presidente della Repubblica dal Quirinale dirama una Dichiarazione in cui esprime “una dura analisi critica e l’espressione di una forte tensione istituzionale e morale per una realtà che non fa onore al nostro paese, ma anzi ne ferisce la credibilità internazionale e il rapporto con le istituzioni europee” e non succede nulla, siamo in piena crisi istituzionale. Quando il Presidente Napolitano auspica che “proposte volte a incidere anche e soprattutto sulle cause strutturali della degenerazione dello stato delle carceri in Italia trovino sollecita approvazione in Parlamento” e la risposta è il silenzio, siamo alla certificazione dell’ignavia e dell’impotenza.
Questo è accaduto il 27 settembre. Che fare? Temo che il disinteresse per le parole della più alta autorità dello Stato accentui la disperazione delle donne e degli uomini ammassati nelle prigioni. Corpi a cui viene tolta la dignità, vengono annullati i diritti fondamentali e per i quali il principio della Costituzione secondo cui la pena deve tendere al reinserimento sociale si rivela una beffarda irrisione. La tracotanza di chi ha la responsabilità di questo stato di cose sembra affidarsi alla sicurezza che in carcere si continuerà a subire in silenzio, a morire, a suicidarsi, e che non ci saranno rivolte violente e che il sangue che scorrerà sarà solo quello delle vittime senza voce.
Hanno rinchiuso nelle gabbie migliaia e migliaia di soggetti deboli, poveri, stranieri, tossicodipendenti, emarginati, border line, trasformando il carcere in una discarica sociale e malignamente si accaniscono secondo la massima vigliacca: forti con i deboli, deboli con i forti.
I garanti dei diritti dei detenuti pochi giorni fa in tante città hanno presentato una piattaforma delle “cose da fare subito” riprendendo una felice espressione di Ernesto Rossi del 1949; io non mi rassegno al fatto che tante buone volontà vengano bistrattate. Immagino perciò un digiuno ad oltranza, fino all’ultimo giorno della legislatura. Una catena nonviolenta e di massa, una mobilitazione collettiva per un obiettivo puntuale: un decreto legge contro gli effetti delle leggi emergenziali e classiste.
Io facevo parte della delegazione dei firmatari della lettera aperta scritta dal prof. Pugiotto in cui si chiedeva al Presidente della Repubblica di inviare un messaggio alle Camere per una assunzione di responsabilità sulla questione del carcere e in quella occasione feci presente che il sovraffollamento non era un accidente ma aveva una causa nelle leggi criminogene e in particolare nella legge sulle droghe. Per rispondere alla “prepotente urgenza” il governo aveva una sola strada, quella del decreto legge per cancellare le norme più nefaste della legge Giovanardi che causano l’ingresso in carcere di oltre ventimila consumatori (e piccoli spacciatori) di sostanze stupefacenti e di ventiquattromila tossicodipendenti, vittime della legge Cirielli sulla recidiva.
Nel 2006 con un colpo di mano istituzionale e contro la prescrizione costituzionale del carattere di necessità e urgenza, la riforma proibizionista e punitiva della legge sulla droga fu inserita nel decreto legge delle Olimpiadi invernali. Oggi di fronte allo spaventoso sovraffollamento delle carceri (metà dei detenuti per fatti relativi a quella legge) vi sono tutte le ragioni politiche e costituzionali per un decreto che incida sui fatti di lieve entità relativi alla detenzione di sostanze stupefacenti e modifichi gli articoli che impediscono la concessione di misure alternative ai tossicodipendenti.
Il governo tecnico non può sottrarsi al dovere di intervento e soprattutto non può buttare sabbia negli occhi promettendo misure ininfluenti come la messa alla prova. Siamo noi che mettiamo alla prova il coraggio del governo. Il digiuno a staffetta darà parola al vasto mondo del carcere, dai detenuti ai parenti, dagli avvocati ai volontari e agli operatori penitenziari, e potrà assumere anche la funzione di mettere la questione della giustizia, vista anche dal punto di vista delle conseguenze finali, tra le priorità dell’agenda della politica. Checché ne pensi la ministra Severino, l’approvazione di un nuovo Codice penale che superi il Codice Rocco, costituisce la base di uno stato di diritto repubblicano e di un diritto penale laico.
Franco Corleone

Da il Manifesto, 23 ottobre 2012

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Carcere, decreto legge subito

Il Presidente Napolitano ha di recente rivolto l’ennesimo invito al Governo e al Parlamento per approvare misure strutturali e cancellare la vergogna di una condizione carceraria che vanifica l’articolo 27 della Costituzione (oltre a umiliare l’Italia in Europa).
La settimana scorsa, i Garanti dei diritti dei detenuti hanno tenuto contestualmente quindici conferenze stampa indicando misure concrete da prendere subito. Silenzio, assoluto e impenetrabile, da parte del governo. Non si sa se attendere rassegnati l’Apocalisse oppure ribellarsi e insistere per senso di responsabilità fino alle estreme conseguenze.
Il sovraffollamento non è una calamità naturale né un mostro invincibile: basta decidere di affrontare le cause strutturali, “facendo le riforme”, come si usa dire.
E’ urgente un decreto legge per cancellare le norme più vergognose e “affolla-carcere” della legge sulle droghe, alla radice della crescita incontrollata dei detenuti. Solo l’anno scorso sono entrate in prigione in violazione della normativa antidroga 28.000 persone (fra consumatori e piccoli spacciatori), mentre sono 15.000 i tossicodipendenti ristretti su un totale di quasi 67.000: la metà dei detenuti ammassati e stipati nelle patrie galere hanno a che fare con la legge proibizionista e punitiva del 2006. Legge che, in spregio alle norme costituzionali sulle ragioni di necessità e urgenza dei decreti, fu inserita abusivamente nel decreto legge sulle Olimpiadi. Il Presidente Napolitano ha invocato misure di “prepotente urgenza”: queste parole, se non vengono archiviate come esercizio di retorica, obbligano il Governo (e precipuamente la ministra della Giustizia Severino) a emanare un decreto legge per evitare l’arresto agli accusati di fatti di lieve entità e per far uscire i tossicodipendenti e inviarli a programmi alternativi (oggi per lo più preclusi da vincoli assurdi e dall’applicazione della legge Cirielli sulla recidiva).
Un provvedimento giusto, fondato e indispensabile. Non è dignitoso baloccarsi con l’annuncio di misure parziali e ininfluenti, come la messa alla prova e generiche depenalizzazioni, senza aggredire il macigno della normativa antidroga.
Se un decreto legge per modificare le norme più discutibili della legge antidroga è la priorità, altre cose buone si possono fare, dall’introduzione del reato di tortura, alla legge per l’affettività in carcere. La riforma del carcere non si realizza con la costruzione di nuove galere ma con l’applicazione del Regolamento del 2000, per garantire condizioni di vita dignitose che favoriscano il reinserimento sociale dei detenuti.
E’ paradossale che il governo non trovi i fondi per la legge Smuraglia sul lavoro in carcere mentre rifinanzia il contratto con la Telecom fino al 2018 per i fantomatici braccialetti elettronici, quando la Corte dei Conti ha denunciato lo spreco di 110 milioni di euro in dieci anni per l’utilizzo di soli15 apparecchi di controllo per la detenzione domiciliare (sic!).
Infine, l’agenda della politica in vista delle elezioni. La riforma della giustizia, da terreno di scontro, può divenire il fondamento del patto sociale, con l’approvazione (finalmente!) del nuovo codice penale.
Non è immaginabile una stagione di ricostruzione del Paese se non si mette al centro l’affermazione del diritto, dei diritti umani e del garantismo.

Franco Corleone, per la rubrica di Fuoriluogo sul Manifesto del 17 ottobre 2012

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Elogio della responsabilità

Franco Corleone commenta la sentenza di Oslo per la rubrica di Fuoriluogo sul Manifesto del 29 agosto 2012.

La sentenza della Corte penale di Oslo rappresenta una lezione di civiltà, da molti punti di vista. Anders Breivik è stato condannato a 21 anni di carcere, il massimo della pena per il codice penale norvegese. Dopo l’orrenda strage del 22 luglio 2011, in cui furono sterminate 77 persone, tra cui 69 ragazzi che partecipavano a una scuola di partito, molti esponenti dei partiti di destra sentirono il dovere di affermare “oggi siamo tutti laburisti”. Sarebbe bello che in Italia potessimo dire “siamo tutti norvegesi”, ma per far ciò dovremmo attuare una riforma copernicana della giustizia e della politica: cominciando dall’abolizione dell’ergastolo, dalla pratica del giusto (e rapido) processo, dal ripudio della cultura dell’emergenza.
La battaglia contro l’ergastolo è invece dimenticata e sepolta. Nel 1998, il Senato votò il superamento della pena perpetua ma poi la proposta fu insabbiata. Anche gli esiti delle Commissioni Grosso e Pisapia per la riforma del Codice Penale sono rimasti nei cassetti. Le forze politiche che hanno fissato il 9 maggio come Giorno della Memoria per le vittime del terrorismo, in ricordo dell’assassinio di Aldo Moro, hanno dimenticato il suo insegnamento contro l’ergastolo, considerato peggiore della pena di morte.
Il processo contro Anders Breivik ha avuto tempi di una celerità impensabile per l’Italia, ma soprattutto ha visto la partecipazione popolare nel nome della tolleranza e del rifiuto della vendetta. Nils Christie, noto criminologo abolizionista, ricordando le centinaia di migliaia di persone che portarono un fiore alle vittime, ha scritto: “Rose, non vendetta. Un’eccellente forma di politica penale”. E il leader socialdemocratico Jens Stoltenberg subito dopo la strage usò queste parole:”Noi sceglieremo la via di più democrazia e più umanità”. Quale politico in Italia sarebbe oggi capace di pronunciare parole di esaltazione dello stato di diritto senza cedere all’orgia della retorica giustizialista? Colmare questo spread di civiltà non può essere compito dei tecnici. Occorrono un’anima e un pensiero che il deserto intellettuale di questi anni hanno disperso e che vanno ritrovati.
Il processo ha affrontato anche la delicata questione della responsabilità dell’imputato. L’accusa, sulla base di una perizia psichiatrica che dichiarava Breivik affetto da schizofrenia paranoide, propendeva per il ricovero in manicomio. La difesa e la maggioranza dell’opinione pubblica chiedevano invece il riconoscimento della sanità di mente e la condanna al carcere. Davvero un nodo intricato, apparentemente. Da una parte, la via rassicurante della pazzia individuale che consente di “sterilizzare” le ideologie razziste rivendicate da Breivnik; dall’altra, il timore di dare dignità politica a un assassino. C’è di più in campo. La pretesa dei lombrosiani contemporanei che, forti di alcuni filoni delle moderne neuroscienze, mettono in discussione addirittura il libero arbitrio, col risultato di avvalorare un ritorno alla psichiatria organicista e meccanicista.
In realtà, la partita non è tra pazzia e sanità di mente. Bisogna avere il coraggio di riconoscere a tutti, senza distinzioni, la responsabilità delle proprie azioni, quel tanto di umano che non può essere negato a nessuno. E’una lezione per noi, in vista della chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari: per rifuggire dal rischio di nuove istituzioni totali.

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Processo alla legge antidroga

Franco Corleone presenta l’iniziativa a sostegno del Rototom a Udine per la rubrica di Fuoriluogo sul Manifesto del 30 maggio 2012.

Domani al Tribunale di Tolmezzo si terrà la prima udienza del processo contro Filippo Giunta, presidente di Rototom e responsabile del Sunsplash, il festival reggae che dal Friuli si è trasferito in Spagna in seguito alla persecuzione giudiziaria.

L’accusa stravagante è di agevolazione dell’uso di sostanze stupefacenti secondo l’art. 79 della legge sulle droghe e la pena per questo reato è la reclusione da tre a dieci anni; prima della modifica del 1996, la pena per le sostanze leggere era da uno a quattro anni; ora, secondo il pensiero di Giovanardi per cui “la droga è droga”, le pene sono state unificate e aumentate, almeno per la canapa.

Un cartello ampio di associazioni e movimenti ha voluto cogliere questa occasione per riflettere sulle conseguenze della lotta alla droga e sugli effetti che la legge in vigore produce sulla giustizia e sul carcere. L’appuntamento è per venerdì 1 giugno ad Udine (sala Aiace, 10-19).

L’intasamento dei tribunali e il sovraffollamento degli istituti penitenziari sono in gran parte dovuti proprio alle energie spese nella “lotta alla droga”, che si traduce nella lotta a chi usa la droga e ai pesci piccoli dello spaccio. Il risultato è la bulimia del carcere con il cinquanta per cento dei detenuti rappresentato da consumatori, piccoli spacciatori, tossicodipendenti.

Giuristi, politici e operatori contesteranno l’ispirazione culturale, l’impianto giuridico e l’applicazione pratica delle norme. Non sarà solo una denuncia: saranno illustrate alternative efficaci, praticabili e umane al fallimento della proibizione. Il giurista Luigi Saraceni, metterà in campo l’illegittimità costituzionale della legge Fini-Giovanardi. Peter Cohen, sociologo e studioso  delle droghe a livello internazionale concluderà la giornata con una riflessione sul carattere “magico” e non scientifico delle politiche antidroga: un esempio è la teoria, diffusa in questi anni in Italia, secondo cui la cannabis provocherebbe dei “buchi nel cervello”.

Per una felice eterogenesi dei fini, il processo a Rototom potrebbe fare scattare un cambio delle parti, trasformando gli accusati in accusatori. I giudici dovranno decidere se accettare l’impianto accusatorio sgangherato oppure respingere l’uso strumentale di una legge già di per sé troppo repressiva e punitiva. Il giudizio, che andrà seguito con estrema attenzione, udienza dopo udienza, potrà costituire la spinta per far rinascere un movimento per la riforma della legge.

Nel 1975, un giudice di Firenze arrestò la femminista Adele Faccio, il ginecologo Giorgio Conciani e il segretario radicale Gianfranco Spadaccia per avere aiutato tante donne ad abortire, incorrendo nel reato previsto dal Codice Rocco. Da quella vicenda giudiziaria partì una battaglia politica che portò all’approvazione della legge 194. Anche oggi il Parlamento e i partiti devono rispondere a una questione di prepotente urgenza. L’agenda della politica deve condividere la priorità di liberare i tossicodipendenti dalle catene del carcere e di interrompere una persecuzione di massa che criminalizza decine di migliaia di giovani ogni anno. Le storie di Stefano Cucchi e di Aldo Bianzino sono un monito tragico.

Possiamo sperare che da Tolmezzo parta una campagna vincente per il diritto, la cultura e la ragione? E’ tempo di responsabilità, di tutti e di ciascuno.

Le info sul convegno di Udine su www.fuoriluogo.it/rototom.

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Un’amnistia per i reati lievi sulle droghe

Sono convinto che non possiamo più continuare ad accettare che, di fronte alla tragedia quotidiana che vive il carcere, si persegua una gestione rassegnata e contrassegnata dal tratto della normale amministrazione, quando la situazione è davvero insostenibile e richiede un cambio di passo visibile, una discontinuità profonda. In occasione della Festa della Polizia Penitenziaria il Presidente Napolitano è tornato sul tema del sovraffollamento e ha chiesto a Parlamento e governo di superare la paralisi attraverso «nuove e coraggiose soluzioni strutturali e gestionali». Il Presidente del Senato Schifani annuncia un’altra sessione straordinaria sulle carceri. Quello della Camera Fini suggerisce la strada della depenalizzazione e la scelta di privilegiare l’adozione di misure alternative. Di fronte a queste intenzioni tocca a noi non lasciarle cadere e chiedere decisioni coerenti. Purtroppo la ministra Severino propone misure modeste come il disegno di legge sulle pene detentive non carcerarie e la messa alla prova e insiste con la scelta di un Piano carcere che prevede programmi di edilizia inutile e dannosa.
Ho avuto modo di esprimere al Csm, al Presidente della Repubblica, al ministro Riccardi, ai vertici del Dap che la ragione della bulimia carceraria è determinata dalla legge sulla droga, quella del 1990 aggravata dalla modifica ideologica e ancor più punitiva realizzata con un vulnus costituzionale nel 2006. È questa la legge che provoca il maggiore afflusso in carcere. Il 33% degli ingressi in carcere è relativo alla violazione dell’art. 73 (detenzione e spaccio); nel 2011 ben 22.677 consumatori e piccoli spacciatori sono stati colpiti e una alta percentuale è ristretta per fatti di lieve entità, come previsto dal quinto comma, ma con pene da uno a sei anni di carcere.
Occorre interrompere il flusso di entrata oltre che liberare dalle catene i tossicodipendenti, che rappresentano un’altra alta quota di vittime sull’altare della disumanità dell’ossessione securitaria. La proposta di legge dell’on. Cavallaro è lo strumento per affrontare efficacemente la questione. Al Senato lo stesso testo è stato presentato dai senatori Ferrante e Della Seta. Si prevede l’istituzione di un reato autonomo della detenzione di sostanze stupefacenti nella modalità della lieve entità, oggi configurata come semplice attenuante con una pena da sei mesi a tre anni che eviterebbe l’ingresso in carcere e la possibilità di misure alternative. L’iter potrebbe essere rapido se queste e le altre norme previste venissero inserite nel disegno di legge governativo già in discussione. Mi sento di proporre un provvedimento mirato, cioè una amnistia limitata ai fatti relativi al quinto comma dell’art. 73 del Dpr 309/90, che inciderebbe sulle presenze in carcere e sarebbe contestuale alla modifica della legge.
Ho aderito all’appello per l’introduzione del reato di tortura nel Codice Penale, la cui approvazione richiederebbe poco tempo da parte del Parlamento ma avrebbe un grande valore simbolico. Questa campagna, lanciata da Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, si deve accompagnare alla ratifica del Protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura (Opcat). L’Italia ha firmato il Protollo nel 2003 ma non lo ha mai ratificato, contrariamente alla quasi totalità dei Paesi dell’Unione Europea. L’Italia non ha quindi alcun rappresentante nell’organismo di Ginevra che prevede un potere ispettivo a livello globale. La firma del Protocollo obbligherebbe anche l’Italia a istituire la figura del garante nazionale dei diritti dei detenuti ed è una ragione in più per adempiere a un dovere colpevolmente disatteso. Mauro Palma ha scritto al ministro Terzi per sollecitare una decisione nel gennaio scorso, ma nulla si è mosso. Abbiamo chiesto al nuovo Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Tamburino di scegliere come priorità l’applicazione del Regolamento del 2000 non solo per migliorare la vivibilità quotidiana nelle carceri ma per indicare la strada maestra della riforma. Attendiamo con fiducia l’istituzione di un Tavolo di confronto e di iniziativa che inizi dall’abbandono della via del cemento.
Che fare dunque? Che tipo di mobilitazione va inventata? Confesso di non avere una risposta certa. Per aiutarmi a pensare ho iniziato un digiuno, sperando che si formi una catena che veda impegnati garanti ed esponenti del volontariato. I prossimi giorni devono vederci impegnati a trovare forme originali di denuncia e di proposta. Forse occorre più fantasia, più spregiudicatezza, ma non si può stare fermi e muti neppure un minuto di più.

Da il Manifesto, 29 maggio 2012

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Garanti, appello a Napolitano

Mauro Palma scrive dell’incontro dei Garanti dei detenuti con il Presidente della Repubblica per la rubrica di Fuoriluogo sul Manifesto del 4 maggio 2012.

Non è frequente che un Capo di Stato riceva coloro che con continuità visitano i luoghi di detenzione per ricevere informazioni dirette sulle condizioni a cui sono soggetti coloro che vi sono ristretti, sulle loro connotazioni sociali, sulle possibili azioni da compiere per rendere la pena coerente con quell’idea di reinserimento sociale, molto spesso affermata e altrettanto spesso disattesa.
Non stupisce tuttavia che il Presidente Napolitano abbia incontrato i garanti delle persone private della libertà – quelli eletti su base regionale e il coordinatore di quelli cittadini, Franco Corleone – giacché più volte egli è intervenuto  su questo tema, dimostrando attenzione istituzionale e soprattutto considerando le condizioni carcerarie un parametro fondamentale della qualità della nostra democrazia.
Il 27 aprile scorso il Presidente, in un incontro cordiale e chiaro organizzato dalla garante della Campania Adriana Tocco, ha ricevuto una fotografia diretta di una situazione che permane molto grave e preoccupante.  Il primo punto evidenziato dai garanti è stato, infatti, il perpetrarsi di una situazione ben distante sia dalle previsioni costituzionali per quanto attiene la finalità della pena,sia  dagli obblighi internazionali a prevenire trattamenti e pene che contrastino con la dignità delle persone recluse e sia, infine, dalle stesse previsioni normative del nostro Paese: è emblematico il fatto che già la piena attuazione del Regolamento per il carcere – adottato dodici anni fa e restato sostanzialmente inapplicato – avrebbe effetti di radicale trasformazione della situazione esistente. E questa  è stata, quindi,  la prima necessità evidenziata: l’ immediata attuazione del regolamento quale soluzione a molti problemi di vivibilità.
I garanti erano accompagnati da chi scrive, quale membro italiano del Consiglio europeo per la cooperazione nell’esecuzione penale, e per molti anni presidente del comitato europeo per la prevenzione della tortura. Mio, quindi, è stato il compito di rappresentare al Presidente l’urgenza dell’istituzione di un’autorità indipendente che monitori la privazione della libertà; istituzione possibile attraverso la ratifica di un Protocollo Opzionale delle Nazioni Unite che l’Italia ha firmato e – contrariamente alla grande maggioranza degli altri Paesi europei – non ha mai ratificato.
A tutti è tuttavia noto – ed è stato importante ribadirlo nell’incontro – che, senza un incisivo intervento sul vasto fenomeno della carcerizzazione dei consumatori di droghe e dei tossicodipendenti, le discussioni sulla riduzione del ricorso al carcere rischiano diventare puramente accademiche. Il governo  in quest’ambito è stato inesistente e tale assenza rischia di vanificare le stesse azioni fin qui intraprese sul sovraffollamento. Occorre iniziare a corrodere il moloch delle attuali norme, cominciando almeno con l’aggredire quegli aspetti dell’attuale approccio punitivo alle droghe che determinano carcere – e molto – anche per situazioni e reati di lieve entità. Su questo i numeri delle presenze segnalano un’urgenza che non giustifica indecisioni e rinvii. Questa è la prima tra le altre molte necessità ribadite nell’incontro, di cui ormai tutte le autorità dello Stato, a cominciare dalla più alta, sono state rese edotte. Si resta fiduciosi, ma anche impazienti.

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I miei articoli Le carceri

Carcere, le cose da fare subito

Franco Corleone scrive per la rubrica settimanale di Fuoriluogo sul Manifesto del 18 aprile 2012:

I buoni propositi di Paola Severino, ministro della Giustizia, per affrontare la crisi del carcere rischiano di tradursi in un desolante nulla. Alla radice, manca un’idea della funzione del carcere e dei luoghi della pena. C’è bisogno di un profondo cambio di paradigma, anche con nuove leggi per eliminare i fattori che producono sovraffollamento e perpetuano un carcere “infantilizzante” (in contrasto con l’ambizione del principio costituzionale del reinserimento del reo nella società). Sostenere che per il governo tecnico non c’è spazio per interventi radicali, è un alibi senza senso che conduce alla paralisi. Così facendo nessuno è costretto ad assumersi precise responsabilità.
Come ho già avuto modo di dire, purtroppo molte volte, il sovraffollamento non è un accidente, un fatto dovuto al caso, ma è il prodotto di scelte politiche e di leggi criminogene, in primo luogo della legge sulle droghe. Il ministro per primo dovrebbe denunciare questo fatto e proporre una modifica almeno parziale dell’attuale legge antidroga, sulla linea del testo presentato già alla Camera dall’on. Cavallaro e al Senato dai senatori Ferrante e Della Seta.
Così si abbatterebbe drasticamente l’ingresso in carcere di consumatori, piccoli spacciatori e tossicodipendenti che ancora nel 2011 sfiorano il 50% degli ingressi e delle presenze in carcere. Si pensi che su 68.000 ingressi ben 23.000, cioè il 33% è per violazione dell’art. 73 (detenzione di sostanze stupefacenti) del Dpr 309 del 1990, riveduto e peggiorato dalla legge 49 del 2006. Il ministro Severino dovrebbe avere il coraggio di portare in Parlamento un decreto legge (esistono tutti i presupposti di necessità e urgenza, che al contrario non c’erano quando fu approvata la legge del 2006, con un colpo di mano incostituzionale di Giovanardi, lasciato passare colpevolmente dal Quirinale).
La cancellazione della legge Cirielli sulla recidiva e il ripristino della legge Simeone-Saraceni sarebbero il necessario corollario di una bonifica legislativa non rinviabile.
Ovviamente non basta. Occorre un piano per l’applicazione larga della legge sulla detenzione domiciliare coinvolgendo le Regioni e i Comuni; e un progetto per l’uscita dal carcere dei tossicodipendenti, almeno diecimila, con inserimenti sul territorio e in comunità di accoglienza.
Se infine si adottassero le misure necessarie per ridurre la carcerazione preventiva, allora il carcere tornerebbe ad una dimensione “fisiologica” e si potrebbe sperimentare un modello simile a quello spagnolo o danese (tanto per dare due riferimenti europei).
In ogni modo, si dovrebbe partire subito con l’applicazione integrale delle misure, sia strutturali che gestionali, previste dal Regolamento del 2000 (con un ritardo vergognoso di dodici anni).
Nel volume Il corpo e lo spazio della pena (Ediesse, 2011), si affronta il nodo dell’edilizia carceraria: gli stessi muri e le stesse sbarre contengono il mafioso e la persona in attesa di giudizio, il camorrista e il semilibero, lo stragista e la detenuta madre. E’ un evidente paradosso, che svela un intento di mero ammassamento di corpi, senza rispetto per la dignità delle persone private della libertà.
Altro che privatizzazione delle carceri, occorre un piano di socializzazione e di ridisegno urbanistico della città!