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I miei articoli In Primo Piano Le carceri

Una veglia civile per la riforma del carcere

Il 20 dicembre scorso, proprio in questa rubrica, eravamo stati facili profeti nell’immaginare che il torbido periodo della campagna elettorale avrebbe alimentato un fuoco di fila contro la riforma dell’ordinamento penitenziario. Si erano già levate le proteste di alcuni sindacati di polizia contro la possibilità di garantire anche in Italia il diritto alla sessualità dei detenuti. Si sono aggiunte le trite litanie dei soliti imprenditori della paura sul rischio di una nuova legge salvadelinquenti.

Grazie a improvvide audizioni, le Commissioni Giustizia hanno offerto alle forze della conservazione una tribuna per gettare veleno sulle minime ipotesi di revisione delle preclusioni in tema di benefici penitenziari e alternative al carcere. La proposta del Governo ridà ai magistrati qualche margine di maggiore responsabilità nella valutazione sui singoli casi, ma questa considerazione del ruolo della magistratura di sorveglianza fa paura ai Torquemada contemporanei, secondo i quali permessi e alternative andrebbero concessi solo a chi in carcere non dovrebbe proprio starci, mentre gli altri possono pure morirci. Ma, nonostante tutto, i pareri delle Regioni, delle Camere e, infine, del CSM sono stati complessivamente favorevoli.

Il Coordinamento dei Garanti regionali e comunali dei detenuti ha espresso al ministro Orlando il proprio apprezzamento per la conclusione dell’iter parlamentare e alcune indicazioni per chiudere positivamente questo lungo lavoro che – a partire dagli Stati generali dell’esecuzione penale – ha coinvolto tante energie della società civile. Come Garanti siamo convinti che le osservazioni migliorative possano essere accolte, mentre ogni ipotesi di restrizione della portata della riforma debba essere respinta, a partire dalla reviviscenza di inutili e vessatori impedimenti legislativi ai benefici e alle alternative al carcere. Abbiamo in particolare richiesto che venga raccolta l’indicazione pervenuta dalle Commissioni parlamentari e dalle Regioni sul rispetto del principio della territorialità e sulla qualificazione sanitaria delle sezioni penitenziarie destinate ad accogliere i detenuti con problemi di salute mentale. Per quanto riguarda la delega in materia di affettività in carcere, sollecitata nel parere del Senato, suggeriamo come un significativo passo in avanti possa essere anche il semplice riconoscimento della possibilità di svolgere colloqui non sottoposti a controllo visivo (altro che guardoni!), lasciando a una successiva revisione del Regolamento la concreta disciplina delle modalità di svolgimento di incontri riservati con familiari e terze persone.

Se il Consiglio dei Ministri – convocato per domani – butterà il cuore oltre l’ostacolo, il decreto legislativo tornerà per conoscenza alle Commissioni e dopo dieci giorni potrà essere definitivamente adottato, ancor prima dell’insediamento delle nuove Camere. Ci sono, dunque, i tempi e le condizioni per portare a termine questo primo importante passaggio di riforma. Non sappiamo se nella prossima legislatura il Governo porterà a compimento anche le deleghe ancora in sospeso, a partire da quelle sul lavoro penitenziario e sull’esecuzione penale minorile, già trasmesse dal Ministero della giustizia a Palazzo Chigi, ma siamo di fronte a una occasione che non va perduta per rispondere alle condanne europee per trattamenti inumani e degradanti. Nelle carceri si vive con speranza e trepidazione questo momento e proprio per essere solidali con i detenuti, domani, in attesa della decisione del Consiglio dei ministri, i Garanti territoriali delle persone private della libertà si uniranno a loro in una veglia civile di digiuno per la giustizia e il diritto.

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La Consulta monca. Appello a Mattarella

La Corte Costituzionale da quasi un anno assume decisioni in assenza di un giudice, infatti l’avv. Giuseppe Frigo si dimise dalla Corte per motivi di salute il 7 novembre 2016. Il plenum rappresenta un elemento di garanzia particolarmente in casi delicati e quando emergono orientamenti non unanimi e  la stessa legittimità delle decisioni è messa dunque in discussione.

Il Parlamento in seduta comune ha il compito di eleggere il giudice costituzionale mancante entro un mese, ma il termine non è perentorio e in molte occasioni non è stato rispettato. Nella prima repubblica la spartizione era codificata e i cinque giudici di nomina parlamentare era attribuiti tre alla Democrazia Cristiana, due al PCI e uno ai socialisti e ai partiti laici.

Questa spartizione sulla base della logica del cosiddetto arco costituzionale impedì sempre l’elezione di un esponente della cultura garantista.

Già nel 1995 si era verificata una grave impasse che spinse Franco Ippolito, esponente storico di Magistratura democratica a chiedere un metodo nuovo e trasparente con il coinvolgimento dei cittadini per valorizzare il ruolo della Corte Costituzionale; io scrissi un articolo intitolato “Camere a Consulta” sul Manifesto del 24 maggio 1995 proponendo alcune soluzioni per sbloccare una anomalia istituzionale assai grave.

Nel 1996, parliamo della XIII legislatura, presentai alla Camera dei deputati una proposta di legge (n. 167) elaborata con l’ausilio del costituzionalista dell’Università di Pavia, Ernesto Bettinelli, per superare le possibili situazioni di inadempienze nella elezione dei giudici costituzionali. La norma di chiusura prevedeva che se entro due mesi dalla vacanza verificatasi, gli organi previsti non avessero provveduto alla nomina dei nuovi giudici, si sarebbe proceduto per cooptazione da parte della Corte Costituzionale.

Purtroppo nulla è stato fatto e ora di nuovo si manifesta una pericolosa incapacità delle Istituzioni repubblicane ad assolvere doveri fondamentali. Il Parlamento è giunto al settimo scrutinio senza esito, certificando addirittura la indecente mancanza del numero legale.

Il 26 aprile il presidente della Repubblica Sergio Mattarella incontrò il Presidente del Senato Piero Grasso e la Presidente della Camera Laura Boldrini e con un comunicato stampa fece sapere di avere “sottolineato l’esigenza di approvare la legge elettorale e di nominare il giudice della Consulta”. Anche il Presidente della Corte Costituzionale Paolo Grossi ha lamentato una condizione insostenibile. Stupisce che non si manifesti una grave preoccupazione per la caduta di credibilità del Parlamento e della crisi inarrestabile della democrazia.

In primo luogo tocca al garante della Repubblica, al Presidente Mattarella esercitare la propria responsabilità, inviando un Messaggio alle Camere come previsto dall’art. 87 della Costituzione.

Un atto, solenne e severo, metterebbe i parlamentari di fronte al dovere di adempiere a una funzione essenziale. I Presidenti Grasso e Boldrini, sarebbero costretti alla convocazione quotidiana del Parlamento, in una sorta di conclave laico, in modo da chiudere una vicenda incresciosa che non può essere protratta in un momento delicato come la fine della legislatura.

Il paradosso inaccettabile è che neppure sono sul tappeto nomi alternativi; è ora che si esca dall’oscurità e che il confronto parta magari da una rosa di nomi autorevoli per favorire la convergenza più vasta anche dei 571 voti necessari.

Questo appello sarà raccolto? Di fronte a questo insulto allo stato di diritto, sono certo che Marco Pannella avrebbe iniziato un digiuno di dialogo per far rispettare l’imperativo kantiano.

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Mai più OPG

Finalmente anche il manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto è chiuso. Due anni di ritardo rispetto alla previsione della legge 81, ma grazie alla generosità della Rems di Barete, che con intelligenza ha aderito all’invito di accogliere alcuni internati siciliani per far cessare l’illegalità di una detenzione ingiustificata e consentire così la chiusura dell’istituzione totale per eccellenza, si è raggiunto un obiettivo che pareva ormai un miraggio.
Gli Opg di Aversa, Montelupo, Reggio Emilia, Secondigliano hanno chiuso i battenti e quello di Castiglione delle Stiviere percorre la difficile strada di una significativa trasformazione.
Vi sono ora le condizioni per dedicarsi allo sviluppo dei contenuti della riforma, per impedire il risorgere delle logiche manicomiali e per arricchire le opportunità di vita nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza.
Dobbiamo tutti avere chiaro che la rivoluzione gentile, come io definisco la chiusura dell’Opg, manicomio e carcere insieme, è stata costruita su una contraddizione. Una felice contraddizione ma che con intelligenza, prudenza e sagacia va sciolta.
Si è rotto il muro della segregazione che poteva spingersi fino all’ergastolo bianco, senza incidere sul sistema delle misure di sicurezza, sul doppio binario del Codice Rocco, sul concetto vago e incerto di pericolosità sociale.
L’indignazione e l’orrore per quei luoghi di inciviltà e disumanità hanno dato la spinta per superare gli Opg e per cercare e individuare una soluzione terapeutica e sanitaria destinata agli autori di reato prosciolti per incapacità di intendere e volere, raggiunti dalla misura di sicurezza.
La legge 81 ha anche affermato che la misura di sicurezza non può avere una durata superiore al massimo della pena edittale prevista per il delitto commesso; è una norma di grande valore perché obbliga a realizzare programmi personali finalizzati al reinserimento sociale.
Sono tante le questioni aperte nel funzionamento delle trenta Rems aperte e funzionanti: le dimensioni, che vanno dalle due unità del Friuli Venezia Giulia ai 120 ospiti di Castiglione delle Stiviere; le problematiche dei soggetti senza fissa dimora, italiani e stranieri; le condizioni di vita delle donne non sempre rispettose del genere; la lista d’attesa a macchia di leopardo tra le diverse regioni; l’architettura delle strutture provvisorie e soprattutto di quelle definitive.
La priorità assoluta sta però nel chiarire la natura delle Rems che a mio parere devono essere strutture riservate ai prosciolti definitivi (in ultima istanza) e non per misure provvisorie, decise magari senza perizia. A questo proposito andrebbe stabilito il criterio di due perizie affidate a psichiatri sorteggiati da un albo sulla cui base il giudice potrebbe decidere con maggiore cognizione e con elementi più sicuri.
Andrebbe anche sciolto il nodo della vigenza o no del Regolamento penitenziario. Occorre definire un testo base che valorizzi un sistema di garanzie dei diritti, superando i limiti attuali per colloqui, visite e telefonate e comunque non facendo prevalere un atteggiamento tipico del paternalismo solidaristico e/o autoritario che può emergere nelle strutture comunitarie.
E’ indifferibile la riforma del Codice penale, in molti articoli, prima di tutto abrogando il 148 (infermità psichica sopravvenuta in carcere) e il 206 (misure di sicurezza provvisorie). Altrettanto indispensabile un lavoro di pulizia semantica per eliminare dal codice e dall’Ordinamento penitenziario termini superati come Opg, internati e sostituirli con definizioni corrispondenti alla nuova realtà.
Invece di porsi su questa lunghezza d’onda, per altro suggerita dal Tavolo 11 degli Stati generali dell’esecuzione della pena e nelle mie relazioni sull’attività di Commissario unico per il superamento degli Opg, il Governo e il Parlamento si sono finora affidati alla fortuna e allo stellone d’Italia. Peggio ancora. Il Senato ha inserito nella legge delega sul processo penale e sull’ordinamento penitenziario una norma che cancella la riforma e fa rivivere gli Opg.

Franco Corleone

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Agenda

La guerra alla droga non paga. Perchè pagare la guerra alla droga?

Forum Droghe
Società della Ragione

Mercoledì 29 marzo 2017 Ore 21.00
Sala Molinari – Centro Lombroso 16
Via Lombroso 16 Torino

LA GUERRA ALLA DROGA NON PAGA.
PERCHE’ PAGARE LA GUERRA ALLA DROGA?

Tre studi indipendenti fanno il punto sulle contraddizioni e gli effetti perversi delle politiche globali e nazionali sulle droghe. Investimenti sulla repressione tanto enormi quanto inefficaci ed anzi controproducenti, crescita esponenziale dei costi in termini umani, sociali ed economici, una cronica carenza degli investimenti per riduzione del danno, cura e prevenzione. La “guerra alla droga” è nuda, nei suoi fallimenti, ma si continua a pagarle un enorme e irrazionale tributo. Una occasione per parlare, a partire da dati ed evidenze, di ragionevoli alternative.

– Il 7° Libro Bianco sulla legge sulle droghe 2016. L’impatto delle politiche penali.
Franco Corleone (La Società della Ragione – Forum Droghe)

– I costi e le conseguenze sociali del proibizionismo sulle droghe.
Carla Rossi (Centro Studi Statistici e Sociali – delegata UNODC per il Partito Radicale)

– Pochi, incerti, insufficienti. Gli investimenti per la Riduzione del Danno in Italia.
Susanna Ronconi (Forum Droghe – ITARDD Rete Riduzione del Danno Italia)

Coordina Bruno Mellano (Garante dei Detenuti – Regione Piemonte)

Info: segreteria@forumdroghe.it, 3394155985

Vai all’evento Facebook.

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Carcere, un anno di combattimento

Anche i provvedimenti sul carcere hanno subito lo stop nell’attesa magica del 4 dicembre e si è perso tempo prezioso. Il risultato del referendum ha determinato la crisi del governo e la nascita del nuovo esecutivo guidato da Paolo Gentiloni. Alla Giustizia è stato confermato il ministro Andrea Orlando con soddisfazione di molti, fra cui i garanti dei diritti dei detenuti, per la fiducia per le cose fatte ma soprattutto per la speranza di vedere realizzate le importanti promesse uscite dagli Stati Generali.

La situazione nelle carceri non è migliorata dal punto di vista della qualità della vita ed è assai preoccupante per il lento ma costante aumento delle presenze, infatti a fine novembre è stata abbondantemente superata la cifra di 55.000 detenuti presenti.

Il rischio del sovraffollamento incombe nuovamente in assenza dei tanto declamati provvedimenti strutturali che in realtà richiederebbero una nuova legge sulle droghe. Infatti come testimoniato dal 7° Libro Bianco sulle droghe, nonostante l’abbattimento della legge Fini-Giovanardi ad opera della Corte Costituzionale, ancora il 32% delle presenze in carcere è dovuto alla violazione dell’art. 73 della legge antidroga sulla detenzione di sostanze stupefacenti. Si tratta dunque di piccoli spacciatori o di consumatori vittime del proibizionismo, ma non mi pare che questo tema sia all’ordine del giorno, basta vedere la sorte delle proposte di legalizzazione della canapa.

Anche la via straordinaria della clemenza, richiesta alla fine del giubileo da Papa Bergoglio, non è stata presa in alcuna considerazione né dal Governo né dal Presidente della Repubblica.

Che fare dunque? Rassegnarsi all’ordinaria amministrazione accompagnata dalla silenziosa tragedia quotidiana dei suicidi, dei tanti tentati suicidi, dei troppi atti di autolesionismo e dei molti digiuni di protesta?

I garanti regionali e comunali intendono chiedere al ministro Orlando un confronto sul destino della legge delega all’esame del Senato. I tempi a disposizione perché un patrimonio di idee e proposte non venga dilapidato impongono delle scelte immediate. O lo stralcio della parte penitenziaria o, forse meglio, un disegno di legge per affrontare alcuni nodi non procrastinabili: il diritto all’affettività, il nuovo ordinamento minorile e la modifica delle misure di sicurezza urgenti dopo la chiusura degli Opg.

Nel frattempo l’idea di una iniziativa per cambiare le condizioni di vita all’interno delle patrie galere a legislazione vigente è emersa nell’ambito di un Seminario di preparazione del Convegno in onore di Sandro Margara realizzati nell’ottobre scorso, “Lo stato del carcere dopo gli Stati Generali”. Il 15 dicembre ho sottoscritto con il Provveditore dell’Amministrazione della Toscana Giuseppe Martone un documento assai impegnativo, chiamato Patto per la Riforma.

Il proposito assai ambizioso è di attuare una sperimentazione e un’anticipazione dei contenuti della riforma delineata nell’atto di indirizzo 2017, in 14 punti, dal ministro Orlando e tra cui spiccano il lavoro, l’affettività, le misure alternative, la salute.

Cose concrete dunque. A cominciare dalla sostituzione degli sgabelli nelle celle con sedie decenti. La ricerca dell’afflizione è stata costruita con cura certosina e meticolosa e occorre rompere abitudini e assuefazioni. L’elenco è lungo: garantire l’acqua calda e le docce nelle celle; rendere le biblioteche fruibili per la lettura e lo studio; attivare mense e locali per fare la spesa; progettare gli spazi e i luoghi per l’affettività.

La dignità, l’autonomia e la responsabilità passano da una diversa quotidianità. Ci aspetta un anno di combattimento.

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Droghe, il Libro Bianco spinge la riforma

copertina2016Abbiamo deciso di continuare la redazione dei Libri Bianchi sugli effetti collaterali della legislazione antidroga, anche dopo la bocciatura della Fini-Giovanardi da parte della Corte Costituzionale. Resta in piedi, infatti, la legge Iervolino-Vassalli che segnò la svolta proibizionista italiana. Il Libro Bianco promosso dalla Società della Ragione e condiviso da Forum Droghe, Antigone, Cnca e da numerose associazioni e movimenti raccolti nel Cartello di Genova, anticipa anche quest’anno la Relazione del Governo al Parlamento.

Patrizia De Rose, che ha raccolto la difficile eredità di Serpelloni alla guida del Dipartimento delle politiche antidroga, ha il merito di avere riaperto un confronto non ideologico tra il Governo e le Ong, culminato, per ora, in seminari di preparazione e di valutazione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite dedicata alle politiche sulle droghe tenutasi in aprile a New York. Proprio in questi giorni è tornata a circolare la voce di un azzeramento del DPA e dell’assorbimento nel Ministero della Salute. Non vogliamo ergerci a difensori di una struttura inventata dalla destra, ma vogliamo discutere pubblicamente delle scelte che riguardano la politica delle droghe che riguardano la politica internazionale, la giustizia, l’informazione, le città, la scuola, lo stato sociale, e dunque ci pare inadeguata una collocazione settoriale di una politica che, viceversa, deve coinvolgere diversi branche della compagine governativa. Piuttosto, quel Dipartimento dovrebbe dismettere quel nome battagliero ereditato dalla furia ideologica dei suoi inventori e meriterebbe un referente politico nella compagine di governo, tra i sottosegretari alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Il Governo è invece ancora inadempiente nella convocazione della Conferenza nazionale triennale: l’ultima (finta) occasione di confronto risale al 2009 mentre l’ultima vera addirittura al 2001 a Genova.

Recentemente la Consulta ha inferto un altro colpo alla Fini- Giovanardi, cassando l’art. 75bis che prevedeva l’aggravamento delle sanzioni amministrative che rimangono un buco nero dello stigma contro i giovani consumatori. Questa ulteriore decisione – cui si aggiungono alcune recenti sentenze sulla coltivazione della canapa dei tribunali di Ferrara e Firenze – aggrava il giudizio sulla latitanza della politica. Certo alcune novità sono state introdotte negli anni scorsi, soprattutto per rispondere alla situazione insostenibile del sovraffollamento delle carceri per cui l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani. E gli Stati generali sull’esecuzione penale voluti dal Ministro Orlando hanno dato utili indicazioni per incentivare le alternative al carcere per i tossicodipendenti e per migliorare il trattamento socio-sanitario dei detenuti con problemi di dipendenza. Sono indicazioni positive, ma non sufficienti. In parlamento, oltre alle proposte di legalizzazione della cannabis (ferme, purtroppo, allo stato delle audizioni, ma ora sostenute anche da una campagna di iniziativa popolare), sono state depositate in Parlamento (alla Camera da Fossati e altri, al Senato da Lo Giudice e altri) le nostre proposte per la riforma dell’intera parte sanzionatoria  del testo unico 309 del 1990 e la ripresa di adeguate politiche socio-sanitarie per il trattamento delle dipendenze problematiche. Non solo: il Consiglio regionale del Friuli, primo – speriamo – tra altri, ha approvato una “legge voto” per la riforma del testo unico sulla base della nostra proposta. Il solco, dunque, è tracciato e speriamo che il Parlamento e la Conferenza nazionale sulle droghe possano discuterne senza pregiudizi.

(leggi il Libro Bianco su www.fuoriluogo.it/librobianco)

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Una pianta di canapa non è reato

canapaUna recente sentenza della Cassazione, la numero 33835 del 29 luglio 2014, ha affermato con nettezza che la coltivazione di poche piante di marijuana in un vaso, destinate ad uso esclusivamente personale non costituisce reato secondo quanto previsto dall’art. 73 della legge sulla droga 309/90.

La VI Sezione Penale (presidente Milo, relatore Di Stefano) ha accolto il ricorso del Procuratore generale della Corte d’Appello di Sassari avverso la condanna confermata dalla stessa Corte d’Appello il 7 febbraio 2013 contro P.A. per aver coltivato due piante di canapa indiana.

La decisione assume un particolare rilievo perché viene dopo la sentenza della Corte Costituzionale, la 32/2014 che ha annullato l’unificazione del trattamento sanzionatorio per le diverse droghe previsto dalla Fini-Giovanardi e in qualche modo sollecita il Parlamento ad affrontare finalmente un punto controverso che provoca assurde persecuzioni, soprattutto di giovani che amano prodursi la sostanza senza ricorrere al mercato illegale.

Tanti giudici di merito e diverse sezioni della Cassazione si sono confrontati con il senso del dettato della legge che distingue nettamente tra detenzione e coltivazione. Infatti mentre la detenzione per uso personale, risulta pacifico, è soggetta a sanzione amministrativa, la coltivazione sempre e comunque comporterebbe una sanzione penale.

Lo spartiacque è stato rafforzato dalla sentenza 28605 del 2008 delle Sezioni Unite della Cassazione che ribadiva che la condotta della coltivazione non poteva essere sottratta al rilievo penale perché non è menzionata nell’art. 75 della legge antidroga tra i comportamenti soggetti ad illecito amministrativo. Aggiungeva anche una valutazione risibile in quanto la coltivazione “merita un trattamento diverso e più grave” rispetto alla detenzione, per il solo fatto di aumentare la quantità complessiva di stupefacenti presenti sul mercato. Il carattere ideologico, fondato su un pregiudizio moralistico, era reso evidente da una retorica conclusione: l’azione poneva in pericolo “la salute pubblica, la sicurezza e l’ordine pubblico e la salvaguardia delle giovani generazioni”. La sentenza, che si limita ad una lettura pedissequa, meccanica e superficialmente riduttiva di un fenomeno storicamente e culturalmente complesso, non ha alcun pregio giuridico e interpretativo. Ed infatti è stata contraddetta dalle sentenze, che abbiamo commentato in questa rubrica, di giudici come Salvini, Pilato, Renoldi e da alcune sezioni della Cassazione.

La recente sentenza non si confronta con gli argomenti sostenuti in precedenza, in particolare la differenza tra coltivazione industriale e “casalinga”, e la presenza drogante nella pianta, ma valorizza la destinazione all’uso personale sotto il profilo del principio di offensività come delineato dalla Corte Costituzionale soprattutto nelle sentenze 360/1995 e 260/2005.

Se da una parte si pone il principio dell’offensività in astratto – rileva la sentenza – dall’altro si pone l’accertamento del fatto, l’offensività in concreto, affidato al giudice. Si tratta di una rottura del tabù.

La via maestra è però quella della politica. Come sosteneva Giancarlo Arnao, la Convenzione di Vienna sulle droghe del 1988, al par. 2 dell’art. 3, equipara la coltivazione per consumo personale al possesso e all’acquisto. E’ davvero ora che sia definita la liceità della coltivazione personale o all’interno dei social cannabis club, come prevede la legge dell’Uruguay, sottraendola alla discrezionalità del giudice. Bisogna evitare processi inutili, che portano ad assoluzioni perché il fatto non costituisce reato. La giustizia deve essere liberata dalla caccia alle streghe.

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Carcere, senza capo né coda

corleone-aperteNemmeno l’ultimo Consiglio dei ministri prima della pausa estiva ha provveduto alla nomina del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Sono passati più di due mesi dalla non riconferma di Giovanni Tamburino e in questo periodo sono circolate le voci più disparate, dalle più inverosimili e pericolose ad alcune estremamente suggestive.

Questo tempo non è stato però utilizzato per una discussione pubblica su che tipo di gestione delle carceri sarebbe necessaria dopo la conclusione non definitiva seguita alla condanna della Corte europea dei diritti umani. Il decreto con le misure compensative non sana totalmente la situazione e l’Italia continua ad essere un paese sorvegliato speciale ancora per un anno.

E’ un vero peccato che il ministro Orlando non abbia delineato un identikit del nuovo capo del Dap che segnasse una netta discontinuità e consentisse di avanzare candidature connotate da storie e programmi alternativi.

I Garanti hanno chiesto senza esito un incontro con il ministro proprio per un confronto sul vertice del Dap, sulla nomina del Garante nazionale dei detenuti, sulla riforma del carcere.

Pare invece che come in un gioco dell’oca si sia tornati alla casella iniziale, ma ciò che appare allucinante è che per la prima volta nella storia delle carceri italiane si assisterà a un ferragosto privo del vertice responsabile. Tra ferie dei provveditori e dei direttori, del personale civile e della polizia penitenziaria assisteremo alla novità degli istituti governati dai detenuti. Purtroppo non si tratterà di una felice autogestione ma la certificazione dello stato di abbandono delle galere. Per fortuna il numero dei detenuti è sceso a quota 54.100 e il rischio di rivolte (grazie anche al meccanismo premiale) è pari a zero; l’unico pericolo è che si verifichi qualche suicidio che comunque non farebbe notizia né susciterebbe scandalo.

Il rischio è che passi la convinzione che l’emergenza sia superata e che si possa tornare al tran tran dell’ordinaria amministrazione. Non può essere così, perché migliaia di detenuti, tremila a detta del ministro Orlando, molte di più secondo la valutazione delle associazione che hanno redatto il Quinto Libro Bianco sugli effetti della Fini-Giovanardi, stanno scontando una pena illegittima a dispetto della sentenza delle sezioni unite della Cassazione. Non può essere così perché molti istituti sono ben oltre la capienza regolamentare (finalmente siamo riusciti a far eliminare dai documenti dell’amministrazione la finzione della capienza tollerabile) e soprattutto perché in troppe carceri non sono ancora adottate le prescrizioni individuate dalla Commissione Palma per rispettare i principi costituzionali e le norme del Regolamento penitenziario del 2000.

Molte questioni essenziali per il rispetto dei diritti umani sono ancora aperte. Dalla chiusura non più procrastinabile degli Opg al riconoscimento del diritto alla affettività e alla previsione del reato di tortura. Per non dire dell’esecuzione penale esterna senza uomini e mezzi su cui si stanno scaricando non solo le alternative alla detenzione, ma anche la nuova messa alla prova per gli adulti. E’ davvero ora di mettere in cantiere una Conferenza nazionale sul carcere, sul suo fallimento come strumento riabilitativo e sul senso della pena. Idee, parole e pratiche si rivelano ormai consunte e davvero l’appuntamento con un nuovo Codice Penale che superi il Codice Rocco non può essere eluso. Il 21 novembre a Firenze l’Ufficio del Garante della Regione Toscana organizzerà su questi temi un seminario internazionale. Può essere l’inizio di una riflessione. Ma sono urgenti e indifferibile le scelte che finora sono mancate e che tardano incomprensibilmente.

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Il decreto droga nell’inverno del diritto

corleone-aperteIl 21 marzo di quest’anno sarà ricordato non come il primo giorno di primavera, ma come il culmine dell’inverno della repubblica. La notte è calata con la firma del Presidente Napolitano di un decreto totalmente privo dei presupposti costituzionali di necessità e urgenza in materia di disciplina degli stupefacenti.
La ministra della Sanità Lorenzin, forse subornata da qualcuno o per interesse di partito, aveva predisposto un decreto che ripristinava la legge Fini-Giovanardi cancellata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 32 del 12 febbraio 2014. Il colpo di mano fu stoppato grazie all’intervento del ministro della Giustizia Orlando. In un Paese normale la vergogna sarebbe dovuta cadere sugli autori di una azione così spudorata. Invece Napolitano non solo ha controfirmato il decreto ridimensionato, seppur amputato della parte penale e della tabella unica delle sostanze,  in realtà gravissimo dal punto di vista simbolico; ma tra le premesse giustificative del decreto  ha accettato una considerazione sulla decisione della Corte Costituzionale che rappresenta un vero e proprio insulto al diritto, allo stato di diritto e quindi alla democrazia.
Nella premessa al decreto si sostiene che “la pronuncia di incostituzionalità è fondata sul ravvisato vizio procedurale dovuto all’assenza dell’omogeneità e del necessario legame logico-giuridico tra le originarie disposizioni del decreto-legge e quelle introdotte dalla legge di conversione e non già sulla illegittimità sostanziale delle norme oggetto della pronuncia”: è davvero sconcertante una manifestazione di cultura politica che non comprende che la forma è sostanza soprattutto quando si discute dei principi della Carta costituzionale. E’ desolante il fatto che il Presidente del Consiglio accrediti una riduzione del valore di una sentenza fondamentale che ha condannato con assoluta nettezza l’abuso di potere perpetrato, l’esercizio arrogante della pratica della dittatura della maggioranza e la violazione della sovranità del Parlamento. Se il Governo avesse voluto rispettare doverosamente la sentenza della Corte Costituzionale avrebbe dovuto prevedere, anche per decreto, una misura per rendere giustizia alle migliaia di condannati in via definitiva in base a una legge incostituzionale. Sarebbe stato opportuno anche un intervento per modificare la norma sui fatti di lieve entità che non prevede una differenziazione tra droghe leggere e pesanti come nella legge tornata in vigore e che per la cannabis ha una pena (da uno a cinque anni) troppo alta rispetto alla pena base (da due a sei anni).
Invece il decreto si preoccupa di reinserire competenze per il Dipartimento antidroga  e di far fuori il ministero della giustizia dall’approvazione delle tabelle delle sostanze soggette a controllo. Nella tabella II che riguarda la cannabis ripristina il divieto della coltivazione anche a fini terapeutici. Viene previsto per gli operatori del servizio pubblico per le tossicodipendenze e delle strutture private autorizzate l’obbligo di segnalare all’autorità competente tutte le violazioni commesse dalla persona sottoposta al programma terapeutico alternativo a sanzioni amministrative o ad esecuzione di pene detentive e, dulcis in fundo, si ristabilisce che i dosaggi e la durata del trattamento con metadone abbiano l’esclusiva finalità clinico-terapeutica di avviare gli utenti a successivi programmi riabilitativi. La finalità revanscista è evidente dalla lettura delle decine e decine di commi di un decreto sgangherato che ripristina la Fini-Giovanardi senza nessun motivo di necessità e urgenza. Tocca ora al Parlamento cancellare questa vergogna.

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I miei articoli Le droghe

Otto anni di soprusi, ora si apre il confronto

il-manifesto-del-13.02.2014-384x512Si chiude un’era, domi­nata dall’ossessione proi­bi­zio­ni­sta e puni­tiva, dall’ideologia mora­li­stica esem­pli­fi­cata dallo slo­gan «la droga è droga» ini­ziata dieci anni fa con la pre­sen­ta­zione del dise­gno di legge Fini per una svolta di 180 gradi della poli­tica sulle dro­ghe. La Corte Costi­tu­zio­nale con una sen­tenza sto­rica ha rista­bi­lito i prin­cipi dello stato di diritto e ha respinto la logica pre­po­tente e arro­gante della dit­ta­tura della mag­gio­ranza. L’abuso di potere com­piuto da Carlo Gio­va­nardi con l’inserimento di una riforma glo­bale di una mate­ria com­plessa in un decreto asso­lu­ta­mente estra­neo, è stato sanato dopo otto anni di effetti cri­mi­no­geni e “car­ce­ro­geni” che hanno pro­dotto il sovraf­fol­la­mento delle nostre pri­gioni e la per­se­cu­zione di decine di migliaia di gio­vani con­su­ma­tori o pic­coli spacciatori.

Que­sta sen­tenza non piove dal cielo ma è dovuta alla tena­cia e all’ azione del car­tello di asso­cia­zioni che da anni hanno con­te­stato gli effetti della legge Fini-Giovanardi con la pub­bli­ca­zione di quat­tro Libri Bian­chi, che hanno sve­lato il peso della repres­sione: in par­ti­co­lare, lo stu­dio com­piuto dalla Società della Ragione per opera di Luigi Sara­ceni sulla pos­si­bi­lità di agire in giu­di­zio sulla inco­sti­tu­zio­na­lità della legge stessa per le moda­lità di appro­va­zione. La sapienza giu­ri­dica di Sara­ceni e il rigore costi­tu­zio­nale di Andrea Pugiotto, esten­sore dell’appello “Cer­ta­mente inco­sti­tu­zio­nale”, fir­mato oltre cento giu­ri­sti, hanno fatto il resto. La buona poli­tica fuori dai palazzi ha dun­que sup­plito alla assenza della poli­tica uffi­ciale, che si era arresa alla vit­to­ria della war on drugs.

Oggi si ria­pre il campo del con­fronto. L’Italia in que­sti anni nelle sedi inter­na­zio­nali ha svolto un ruolo di retro­guar­dia a difesa oltran­zi­sta delle posi­zioni che negano addi­rit­tura la poli­tica di ridu­zione del danno. La sen­tenza tec­ni­ca­mente fa rivi­vere la legge Iervolino-Vassalli con i miglio­ra­menti intro­dotti dal refe­ren­dum del 1993; ma obbliga a ripen­sare tutta la poli­tica sulle dro­ghe, impo­nendo il cambiamento.

Che cosa acca­drà ora. Se sarà colto, dalle forze di poli­zia e dai magi­strati, il senso pro­fondo della deci­sione, dimi­nuirà il peso degli arre­sti e degli ingressi in car­cere in misura note­vole. Quanti usci­ranno dal car­cere invece? Non è un cal­colo facile, per­ché l’unificazione in una unica tabella di tutte le dro­ghe fa sì che l’Amministrazione peni­ten­zia­ria non sap­pia quanti sono i dete­nuti per deten­zione di can­na­bis. Le nostre ana­lisi ci dicono che oltre 25.000 sono pre­senti in car­cere per vio­la­zione dell’art.73, pari al 38% di tutta la popo­la­zione dete­nuta: di que­sti, il 40% (circa die­ci­mila) sono ristretti per deten­zione di can­na­bis. Occorre però aspet­tare il depo­sito e le moti­va­zioni della sen­tenza per capire con cer­tezza le con­se­guenze. Certo, se la poli­tica volesse bat­tere un colpo imme­diato, potrebbe inse­rire alcune norme urgenti nel decreto Can­cel­lieri in discus­sione per la con­ver­sione al Senato.

C’è un altro impe­gno che chiama in causa il Governo, ed è l’obbligo di deci­dere un cam­bio di dire­zione del Dipar­ti­mento delle poli­ti­che anti­droga, che in que­sti lun­ghi anni si è carat­te­riz­zato pro­prio per l’adesione al pen­siero di Gio­va­nardi. Nell’immediato vi è una sca­denza che ha il sapore della felice coin­ci­denza: la con­vo­ca­zione a Genova, per il 28 feb­braio e il primo marzo, di un mee­ting del Car­tello di asso­cia­zioni impe­gnate per la riforma. Nel nome di don Andrea Gallo, ripren­de­remo il filo inter­rotto pro­prio a Genova nel 2000, nell’ultima con­fe­renza gover­na­tiva sulle droghe.

Stefano Anastasia e Franco Corleone sul Manifesto del 13 febbraio 2014.