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Un deserto chiamato carcere

La trasmissione di Iacona “Presa diretta” sul carcere ha mostrato a un pubblico assai vasto lo stato indecente delle carceri italiane, il non rispetto delle norme previste dall’Ordinamento Penitenziario e dal Regolamento di attuazione da dieci anni dimenticato, la violazione dei principi della Costituzione sul senso della pena.
Purtroppo non solo non scatta l’indignazione, ma addirittura un silenzio atroce copre la tragedia che si perpetua in una Istituzione totale e separata.
La rimozione da parte del ceto politico e della cosiddetta società civile non è catalogabile sotto il segno della distrazione ma si rivela come responsabilità colpevole del fiume di sangue che scorre in galera a causa delle migliaia di atti di autolesionismo, delle troppe morti “naturali” e del numero abnorme di suicidi, del sequestro di oltre ventimila tossicodipendenti e stranieri che non dovrebbero stare in carcere.
In questi giorni si sta consumando l’ennesima beffa, cioè il fallimento annunciato della legge Alfano sulla detenzione domiciliare per chi deve scontare una pena inferiore ai dodici mesi. A Sollicciano, il carcere di Firenze con quasi mille detenuti (il doppio di quanti dovrebbero stare), ne hanno usufruito in dieci. E pensare che qualche giornalista in veste di imprenditore della paura l’aveva definita una legge “svuota carceri”!
Il Coordinamento nazionale dei Garanti dei diritti dei detenuti ha deciso di lanciare una piattaforma per la riforma del carcere e di rispondere alla omertà diffusa. Sono stato eletto Coordinatore e il mio impegno sarà assoluto e senza limiti per porre nell’agenda della politica i temi che possono fare la differenza.
“Se non ora quando” potrebbe essere anche la parola d’ordine di questa campagna controcorrente: un nuovo Codice Penale che sostituisca il codice Rocco degli anni trenta, il superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari, il diritto alla salute dei detenuti, la liberazione dei bambini dalla costrizione delle sbarre, lo sviluppo delle misure alternative per favorire il reinserimento sociale. Sono alcuni degli obiettivi che indichiamo per la grande riforma della giustizia a partire dal carcere. Non le finte riforme per alimentare i privilegi di classe ma partendo dalla situazione degli ultimi realizzare la giustizia giusta. Sappiamo che occorrerà cancellare le leggi criminogene come quella sulle droghe che è responsabile del maledetto sovraffollamento.
Si tratta di una piattaforma su cui vogliamo costituire una grande unità di avvocati e magistrati e una azione comune con il mondo del Terzo settore per un rilancio del sistema dei diritti e del welfare nel nostro Paese.
La presenza dei Garanti in molte città italiane negli ultimi anni ha costituito l’unico elemento di novità e di speranza in quello che troppo spesso è stato definito come una discarica sociale.
Non ci aspettiamo nulla dal Governo, dal ministro pro-tempore della Giustizia, dall’Amministrazione Penitenziaria priva di un progetto per immaginare un modello di carcere responsabilizzante e non infantilizzante. Oggi come oggi neppure dall’opposizione vediamo segni di differenza. Le macerie securitarie e giustizialiste hanno colpito a 360 gradi (l’elogio dell’ergastolo lo dimostra) e la ricostruzione della cultura garantista e civile sarà necessariamente di lunga durata.
Le Regioni che hanno oggi la responsabilità di gestire la sanità pubblica in carcere potrebbero avere l’ambizione di governare anche il tema delle pene alternative legandole al territorio. Le Regioni, in particolare quattro regioni come la Toscana, l’Emilia-Romagna, l’Umbria e la Puglia dovrebbero nominare i Garanti regionali dei diritti delle persone private della libertà personale con un segno politico preciso, superando un ritardo intollerabile. Costruire una rete alternativa al potere centrale e alla politica inesistente di chi pensa solo a costruire nuove carceri è possibile.
Vendola, Marini, Errani e Rossi potrebbero battere un colpo con una sintonia eloquente. E’ l’ora della politica e dell’iniziativa dal basso.

Franco Corleone
Garante dei detenuti di Firenze
Coordinatore nazionale dei garanti

(da Terra del 26 febbraio 2011)

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In Primo Piano Le carceri Rassegna Stampa

Corleone eletto Coordinatore dei Garanti dei Detenuti

Franco Corleone è il nuovo Coordinatore dei Garanti territoriali per i diritti dei detenuti. E’ stato eletto dall’assemblea che si è tenuta il 16 febbraio a Bologna e sostituisce nell’incarico Desi Bruno, già Garante del Comune di Bologna e che ha svolto l’incarico con efficacia e ricchezza di iniziative.
Sono stati nominati Vice Coordinatori, Maria Pia Brunato, Garante del Comune di Torino e Giuseppe Tuccio, Garante del Comune di Reggio Calabria.
L’assemblea ha messo in luce le difficoltà che derivano dalla drammatica situazione delle carceri e dalla scarsa attenzione che a questo tema viene riservata dalla politica e dal Governo. E’ stata individuata una agenda di temi sui quali impegnarsi, per definire un cambiamento nelle pratiche dell’Amministrazione Penitenziaria.

Franco Corleone ha dichiarato: “La presenza dei Garanti in molte città italiane negli ultimi anni ha costituito l’unico elemento di novità in quello che si può definire un deserto culturale.
Il carcere è sempre più un luogo rimosso, nonostante il sovraffollamento che determina condizioni di vita bestiali e il numero di suicidi e di atti di autolesionismo, che rendono evidente lo stato di sofferenza di questa istituzione totale.
La crisi economica e i tagli agli Enti Locali rendono sempre più difficili anche quegli interventi di supplenza, rispetto all’inadempienza dell’Amministrazione Penitenziaria, che davano sollievo quotidiano e speranza in una vita diversa per i detenuti. La trasmissione di Iacona di Rai 3, ha sicuramente fatto vedere a molte persone le contraddizioni inaccettabili della discarica sociale.
C’è molto da fare e per quanto mi riguarda la priorità assoluta riguarda l’individuazione di una alternativa alla presenza dei tossicodipendenti in carcere, la verifica del funzionamento della Sanità in carcere, una riforma che rischia di essere ridimensionata e il superamento degli O.p.g.
Il Coordinamento dei Garanti intende lavorare con il Terzo Settore, per rafforzare il sistema dei diritti e il Welfare nel nostro Paese e rafforzare i rapporti con le Camere Penali e con l’Associazione dei Magistrati.”

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I tagli dell’Ataf colpiscono Sollicciano!

Ho avuto conferma che il piano di ristrutturazione delle linee degli autobus riguarda anche la linea 27, che raggiungeva il carcere di Sollicciano. La soppressione della fermata per il carcere è assolutamente inaccettabile in quanto colpisce le famiglie dei detenuti che si recano in Istituto per i colloqui e che in molti casi vengono da altre città o addirittura da regioni lontane e che non possono permettersi mezzi più costosi. Il taglio colpisce anche gli operatori che lavorano in carcere, soprattutto la Polizia Penitenziaria.
Il mondo di Sollicciano comprende mille detenuti e un numero equivalente tra personale e volontari.
Mi auguro che la Provincia di Firenze e il Comune di Scandicci intervengano per ripensare una scelta che danneggia persone già svantaggiate e soprattutto che dà un segnale di abbandono e trascuratezza verso il carcere.

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Le carceri Rassegna Stampa

Franco Corleone: «Per essere credibile sul caso Battisti l’Italia deve abolire l’ergastolo»

L’intervista di Paolo Persichetti per Liberazione del 20 gennaio 2011

Franco Corleone, ex sottosegretario alla Giustizia e oggi Garante per i diritti dei detenuti del comune di Firenze: «revisone del processo, abolizione dell’ergastolo e ratifica del protocollo contro la tortura avrebbero fornito all’Italia una immagine diversa»

Con le mozioni bipartizan votate lunedì in parlamento per riavere Battisti dal Brasile, l’Italia tenta di camuffare lo stato di confusione istituzionale in cui è precipitata dopo le rivelazioni sul sexigate che hanno investito il suo presidente del consiglio. Tuttavia non basterà a ridare lustro alla propria iniziativa diplomatica. La crisi di credibilità è verticale. In nome di quale giustizia il governo italiano continua a pretendere l’estradizione, con una ostinazione che rasenta l’aggressione verso la sovranità interna di un’altro Paese, se a casa propria non è in grado di garantire l’uguaglianza di fronte alla legge? L’affare Battisti è diventato un argomento di propaganda su cui hanno investito i giustizialisti di destra e di sinistra. La stessa cosa accade in Brasile, dove la destra post-dittatura ne ha fatto un oggetto di revanche. Sullo sfondo sempre più dimenticati restano gli aspetti giuridici dell’intera vicenda. Non a caso. Ogni qualvolta i processi dell’emergenza sono stati esaminati sotto il loro profilo giuridico l’Italia ha sempre perso la partita delle estradizioni contro i militanti condannati per i fatti degli anni 70. Non ci sarà nessun ricorso all’Aja perché il Brasile è contrario. L’Ue ha spiegato alla Farnesina che le estradizioni sono un contenzioso bilaterale. Il trattato commerciale con Brasilia verrà comunque rispettato. In mano al governo di Roma non rimane altro che sperare in un golpe giudiziario che Peluzo e Mendes stanno congeniando. Singolare aspettativa per un centrodestra che non passa giorno senza denunciare in casa propria i complotti della magistratura. Ma indiscrezioni apparse nei giorni scorsi su alcuni media brasiliani fanno sapere che la maggioranza dei giudici del Stf (6 contro 3, mentre due si asterrebbero) non sembra condividere affatto la scelta, tutta personale, presa dal presidente della corte, Peluzo, di voler esaminare a febbraio la conformità della decisione presa da Lula. Peluzo, per altro, è in contraddizione con se stesso perché quando era relatore, come gli altri 5 giudici che votarono per l’estradizione, aveva condizionato la consegna di Battisti alla commutazione dell’ergastolo. Richiesta che l’Italia si è sempre ben guardata dall’adempiere. E proprio da qui parte il ragionamento di Franco Corleone, già sottosegretario alla Giustizia nel primo governo Prodi e oggi garante dei detenuti per il comune di Firenze. «Si poteva fare qualcosa di più invece che lasciarsi andare a una reazione vittimistica e isterica».
Cosa?
Spostare l’asse del dibattito dagli insulti a una riflessione sulla civiltà giuridica. Uno degli ostacoli che hanno impedito l’estradizione è la permanenza dell’ergastolo nel nostro sistema penale. Il fatto che il Brasile non abbia questa pena dimostra l’abisso che c’è tra il Paese definito la culla del diritto e quello considerato terra di selvaggi. In realtà la bilancia è a tutto vantaggio del Brasile. Sono rimasto molto colpito dalle prime reazioni attribuite al presidente della Repubblica che parlavano di sorpresa, delusione, stupore.
Perché l’Italia non sarebbe riuscita a farsi capire, come ha detto Napolitano?
Forse perché ha cercato di confondere le carte sostenendo che l’obiezione sull’ergastolo era infondata perché non esiste quando invece è vivo e vegeto. Nel giro di un decennio gli ergastoli sono addirittura raddoppiati in percentuale e numero assoluto. C’è anche la novità dell’ergastolo ostativo che impedisce a gran parte degli ergastolani di accedere alla liberazione condizionale, a meno che non collaborino. La mancata revisione del processo, la mancata commutazione dell’ergastolo, la mancata ratifica del protocollo aggiuntivo contro la tortura. Tutti appuntamenti mancati che avrebbero fornito un’altra immagine della nostra giustizia. In realtà non si vuole trovare una soluzione, siamo di fronte ad un atteggiamento a somma zero: o tutto o niente. Vogliono Battisti con l’ergastolo e basta, per di più in condizioni tali che renderebbero ostativa qualsiasi misura trattamentale. Non ci sarebbe tribunale di sorveglianza capace di applicargli la Gozzini. In realtà l’Italia non si è fatta capire solo dal Brasile ma da molti altri Paesi. La lista di quelli che hanno negato le estradizioni è lunga.
In Italia ci sono detenuti politici in carcere da oltre 30 anni.
Affrontare il nodo dell’ergastolo è ormai l’unico modo per chiudere il residuo penale degli anni 70. Napolitano ha una possibilità, quella del messaggio alla camere che è anche la prima prerogativa dell’articolo 87 della costituzione, l’ultima è quella della grazia e della commutazione della pena. Approfittando di un caso ritenuto così straordinario potrebbe spiegare cosa l’Italia può fare per rendersi credibile. Sul tappeto c’è la questione della permanenza dell’ergastolo. L’altro è invitare il parlamento a ratificare il protocollo aggiuntivo della convenzione contro la tortura e nominare una autorità di controllo sulle carceri in un momento in cui c’è una situazione d’emergenza. In attesa di una riforma del sistema delle pene, il presidente potrebbe commutare l’ergastolo di Battisti dimostrando che non saremmo di fronte ad una pena ostativa ma a una sanzione che consente di accedere a un normale percorso trattamentale.

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Battisti, l’ergastolo e i poteri del Quirinale

L’articolo di Franco Corleone per la rubrica di Fuoriluogo sul Manifesto del 12 gennaio 2010. La lezione di Aldo Moro “La funzione della pena”, pubblicata nel volume Contro l’ergastolo, Ediesse, 2009, su www.fuoriluogo.it

C’era una volta Cesare Battisti, l’esponente dell’irredentismo trentino impiccato dagli austriaci il 12 luglio 1916. Oggi, a causa di una irriverente omonimia, la memoria del martire è cancellata a vantaggio di un protagonista minore della lotta armata. Anche questo esito è conseguenza certamente non voluta dell’orgia di parole sopra tono, delle speculazioni interessate, delle minacce altisonanti.

In un paese serio, la sua classe politica avrebbe reagito diversamente alla decisione del Presidente Lula di negare l’estradizione per un cittadino italiano condannato all’ergastolo per la responsabilità diretta o morale di quattro omicidi compiuti nel 1978. L’utilizzo di termini come “schiaffo all’Italia” o di “insulto alla giustizia” o addirittura di “attacco alla democrazia” sono il segno caratteristico di un paese dalla tenuta nervosa fragile e dalla tendenza vittimistica e isterica.

L’Italia avrebbe dovuto cogliere l’occasione offerta dal Brasile per fare i conti più che con la storia del terrorismo, delle leggi speciali, insomma con il passato, quanto meno con il suo presente.

La gran parte della stampa ha dato una pessima prova di disinformazione abbandonandosi alla più vieta propaganda: il complotto giudaico massonico questa volta è stato sostituito dalla protervia di un paese “inferiore”: senza che nessun giornale “indipendente” abbia ritenuto di fornire in maniera completa le ragioni del rifiuto di accedere alla richiesta di estradizione da parte del governo brasiliano e poi di Lula. Cosicché la decisione brasiliana appare un segno di stravaganza, quasi un dispetto. E invece vale la pena di capire perché un grande paese è disposto a mettere a rischio i rapporti economici e strategici con un partner importante: se non è un capriccio vi devono essere motivi che ci devono interrogare.

Mauro Palma e Alessandro Margara ( Manifesto, 31/12 e 7/1) hanno messo in luce i due punti che suscitano la contrarietà del Brasile: il fatto che l’Italia conservi la pena dell’ergastolo e la mancata ratifica del protocollo addizionale alla convenzione contro la tortura (che prevede un meccanismo ispettivo sovranazionale e l’istituzione di una autorità garante dei diritti dei detenuti).

Sono davvero questioni così irrilevanti da non meritare un confronto? Antonio Cassese, acuto giurista e paladino dei diritti umani, è incorso in un errore grave sostenendo che per la pena dell’ergastolo esistono forme di detenzione alternativa, delle quali Battisti potrebbe usufruire. Non è così, in quanto i suoi reati rientrano fra quelli previsti dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, che non consentono la liberazione condizionale. Ciò dimostra, se mai ce ne fosse stato bisogno, che in Italia l’ergastolo non è una finzione giuridica, come si vorrebbe far credere, anzi è una realtà pregnante (perfino in aumento negli ultimi anni). Con la stessa logica con cui l’Italia si rifiuta di consegnare un prigioniero ad un paese che prevede la pena di morte poiché estranea al suo ordinamento, così il Brasile si comporta per l’ergastolo.

Questo caso non si può risolvere in una bulimia di proclami, di ritorsioni e di boicottaggi più esilaranti che gravi. Deve invece essere una occasione per affrontare i nodi che sono emersi e che si vogliono nascondere sotto la coperta della lotta al terrorismo. Oltre ad esprimere delusione e rammarico, il presidente Napolitano potrebbe compiere degli atti concreti di sua esclusiva competenza per rimuovere gli equivoci: ad esempio, annunciare la commutazione dell’ergastolo di Battisti in una reclusione congrua e invitare il Parlamento ad adempiere a quegli obblighi internazionale che le associazioni che si occupano di carcere, giustizia e diritti chiedono da anni. Allora la richiesta di estradizione avrebbe maggiore forza e legittimità sostanziale. Questa è la vera questione su cui l’opposizione dovrebbe incalzare il governo, senza farsi sedurre dall’urlo del topo di Frattini e La Russa e infilarsi in polemiche giuste, ma minori, sulla scarsa credibilità internazionale dell’Italia.

L’ammonimento ai giovani di Aldo Moro a proposito dell’ergastolo, “Ricordatevi che la pena non è la passionale e smodata vendetta dei privati”, è un monumento del pensiero giuridico umanistico da cui non si dovrebbe prescindere mai.

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Piccola posta

Dunque le agenzie hanno battuto ieri la notizia su un altro detenuto, un trentacinquenne di origine maghrebina, che si è ammazzato, col gas della bomboletta, a Sollicciano – sono 63, nelle nostre carceri, dall’inizio dell’anno – dopo che tre giorni prima si era suicidato un agente della polizia penitenziaria dello stesso carcere fiorentino. Pochi giorni prima un altro giovane detenuto si era impiccato ed era stato salvato dai compagni rientrati dall’aria, e ricoverato in extremis. Per la condizione di Sollicciano era in corso da settimane, e continuerà fino a Natale, uno sciopero della fame a staffetta di volontari, amministratori locali, e del garante dei diritti dei detenuti. L’ultima puntata del programma di Radio radicale, Radio carcere, ha ospitato il lungo dettagliato e impressionante racconto di un detenuto appena uscito da Sollicciano, dove le celle di 12 metri quadri tengono tre persone, e quelle di 18 metri quadri ne tengono sei su tre brande a castello doppie: non c’è spazio per stare in piedi. In questi cubicoli stanno reclusi ventidue ore su ventiquattro. Si trema di freddo, si fa una doccia calda se si è i primi della fila, poi finisce. Chi vuole suicidarsi si misura col problema di trovare un angolo e un momento in cui gli occhi degli altri, detenuti o agenti, non gli stiano addosso: come decidere di impiccarsi in un autobus nell’ora di punta. Parliamo di Sollicciano, ma è la condizione delle galere italiane, che schiacciano in questo modo 70 mila persone, ecoballe umane da smaltire. In questa situazione, come ha denunciato ieri Franco Corleone, e come sanno tutti coloro che frequentano, da qualunque lato, il carcere, e che non hanno venduto l’anima, l’annuncio della “liberazione” di migliaia di persone per effetto della leggina che manda, non liberi, ma alla detenzione domiciliare, i detenuti che hanno meno di un anno da scontare, è destinato a suscitare allarmi insensati e pretestuosi e, in quelle celle, speranze illusorie e micidiali. Ieri, per esempio, i giornali annunciavano unanimi che a Sollicciano starebbero per uscire 360 detenuti: la cifra prevista dal ministero va invece dai 50 ai 70 detenuti. Ma di questa indecente campagna di ignoranza o di manipolazione forcaiola, che riproduce i nefasti della campagna sull’indulto, riparleremo. Intanto aggiorniamo il conto dei suicidi e delle altre tabelline. Presenti a Sollicciano ieri, 1005. Capienza regolamentare: 476. Bambini presenti ieri a Sollicciano: 5 (cinque). P.S. Il detenuto suicida di ieri era condannato in primo grado per spaccio, avrebbe dovuto uscire nel 2011. Rileggete: nel 2011. Lui ha provveduto da sé a svuotare il carcere.

Dalla Piccola Posta di Adriano Sofri sul Foglio del 17 dicembre 2010

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Un nuovo suicidio a Sollicciano: la strage continua

La notte scorsa a Sollicciano, un cittadino magrebino di 35 anni condannato in primo grado per spaccio e che aveva il fine pena nel 2011, si è suicidato aspirando il gas di una bomboletta nel gabinetto della cella.

Il sovraffollamento ha provocato un’altra vittima innocente. Era mezzanotte, nella cella erano in sei persone e secondo quanto dichiarato dalla Direzione, il soccorso dei compagni, della Polizia Penitenziaria e dei medici è stato immediato ma non c’è stato niente da fare.

Questa morte è una risposta eloquente a chi ha dipinto il carcere come un luogo da cui si esce facilmente per legge. Magari per la cosiddetta “svuota carceri.”

Verificheremo le cause della morte attraverso i risultati dell’autopsia, ma certo questo ulteriore dramma obbliga a ripensare le condizioni di vita in un carcere illegale.

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Può accadere anche da noi una strage in carcere?

Articolo pubblicato dal Settimanale OGGI.

L’8 dicembre oltre ottanta detenuti in un grande carcere alla periferia di Santiago del Cile sono morti a causa di un terribile incendio. Potrebbe accadere anche in Italia? Purtroppo sì. D’altronde, anche se pochi lo ricordano, il 3 giugno 1989 nel carcere delle Vallette di Torino undici donne (nove detenute e due agenti) morirono intossicate per l’incendio di una catasta di materassi ammassati sotto le finestre della sezione femminile. Nessuno aprì le celle e i pompieri arrivarono 45 minuti dopo l’allarme lanciato dai detenuti del braccio di fronte. Il processo non individuò responsabilità, come se le vittime fossero cittadine di serie B non meritevoli di giustizia.
Ora i materassi in carcere sono ignifughi, ma un incendio può svilupparsi in molti modi e per molte ragioni. Magari una protesta sfuggita di mano o un banale incidente.
Di certo il sovraffollamento rende la situazione esplosiva in ogni momento. Il presidente cileno ha attribuito proprio al sovraffollamento la causa del disastro e ha riconosciuto che “il sistema delle prigioni è assolutamente disumano” e ha promesso “la realizzazione di un sistema nuovo, più dignitoso, degno di un paese civile”.
In carcere, le regole di controllo non devono impedire gli interventi tempestivi di soccorso e la sicurezza non deve prevalere sul diritto alla vita. E’ quanto prevede la Costituzione.
Oggi, con quasi 70.000 detenuti, le prigioni italiane non sono tanto diverse da quelle sudamericane. Per avere una riforma che rispetti la dignità umana, bisogna aspettare un rogo anche in Italia?

Franco Corleone

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Gli spazi della pena nelle macerie del carcere

Articolo di Stefano Anastasia e Franco Corleone per Il Manifesto, 2 dicembre 2010

E’ questione di giorni, il tempo della pubblicazione nella Gazzetta ufficiale e il topolino comincerà a muovere i suoi primi passi tra le mura delle carceri italiane, rosicchiandone qualche tramezzo e facendone uscire – nella meno realistica delle ipotesi – settemila detenuti. Se così fosse, le presenze in carcere potrebbero scendere, nel giro di qualche mese, a 62mila: tante quante furono sufficienti a spingere una amplissima maggioranza del Parlamento a votare l’indulto del 2006. Questi gli effetti declamati dell’approvazione del disegno di legge governativo per l’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a un anno.
E’ questione di tempo, poi il topolino si suiciderà (come peraltro si usa, in galera): entro e non oltre il 31 dicembre 2013 l’esecuzione a domicilio delle pene fino a un anno si dissolverà come neve al sole, tanto– per allora – sarà stato completato il fantomatico “piano carceri” e, addirittura, saranno state riformate le misure alternative alla detenzione. Così prescrive l’ottimistico/propagandistico art. 1 del provvedimento. Prudentemente il dispositivo di autodistruzione è stato programmato per la fine del 2013, anche se i lavori del “piano carceri” è previsto che finiscano entro il 2012: non sia mai la legislatura dovesse andare avanti con questo Governo, ne risponderà chi verrà dopo, del topolino e della montagna che lo ha partorito.
Intanto, Franco Ionta, il Bertolaso del settore, Capo Dipartimento e Commissario straordinario alla “emergenza carceri”, metterà a ferro e fuoco l’Italia penitenziaria, cercando di rendere disponibili – in due anni – 9150 nuovi posti letto detentivi, 4400 dei quali ricavati all’interno della attuali strutture penitenziarie. Non occorre essere Jeremy Bentham per sapere che c’è qualche relazione tra l’organizzazione degli spazi penitenziari e la funzione della pena. E allora, se tanto ci dà tanto, l’obiettivo del piano carceri è la pura e semplice saturazione degli spazi penitenziari, secondo la pratica dello storage, la compressione (reale o informatica) degli archivi o dei magazzini. Poco male fin quando si tratti di ammassare materiale inerte; completamente diverso quando, negando il diritto alla affettività e accanendosi in particolare sui tossicodipendenti, destinatari di un simile trattamento siano esseri umani ai quali i nostri principi, prima ancora che il nostro ordinamento giuridico, riconosce diritti fondamentali incomprimibili, non ultimo quello di venire fuori da quegli ammassi di corpi e cemento.
A questa insopportabile contraddizione è dedicato il Convegno organizzato oggi e domani dalla Società della ragione, a Roma, presso il Senato della Repubblica. Architettura versus edilizia non vuole essere l’ennesima occasione di denuncia dell’ormai noto sovraffollamento, ma ha l’ambizione di sollecitare una riflessione su quali spazi per la pena secondo la Costituzione. Al contrario del parametro esclusivamente quantitativo della edilizia penitenziaria, ossessionata dalla urgenza di soddisfare una parossistica domanda di “più carcere”, l’architettura mette in campo risposte sulla qualità della vita, anche in un luogo di costrizione e di sofferenza come il carcere, a partire dai bisogni dei suoi abitanti. E’ la proposta di un cambio di paradigma e, magari, di una nuova prospettiva di riforma, tanto più rilevante quanto più vicina sembra essere la fine di un governo che ha fatto della speculazione sull’insicurezza il proprio tratto distintivo fino a naufragare nella ingovernabilità del sistema penitenziario.

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Carcere, il non-luogo dove gli architetti sono stati banditi

CONVEGNO. «Cominciare a costruire le case partendo da coloro che le abiteranno». Con la prospettiva di istituti più umani, i tecnici hanno discusso a Roma sul tema “Architettura VS Edilizia”.
Dina Galano su Terra

ll carcere di Sollicciano è in via del Pantano, Firenze. Da malum situ deriva il nome del Maliseti, la casa circondariale di Prato. Simbologie, forse, ma molto della realtà penitenziaria richiama la supina ammissione dell’inappetibilità del sistema carcerario. In un convegno di due giorni che si è concluso ieri al Senato, il tema del senso della pena ha preso forma legandosi a doppia mandata a quello dell’architettura penitenziaria. Con il titolo “Architettura versus edilizia” la Società della ragione, in collaborazione con l’associazione Antigone, la Fondazione Michelucci e il Forum droghe, ha tentato di guidare la riflessione all’interno degli spazi chiusi delle prigioni. Con l’auspicio di superarli.

I corpi
Le carceri sono sovraffollate, lo si ripete da tempo. Il già procuratore di Venezia Vittorio Borraccetti lo ha ricordato ieri: 48.693 persone alla fine del 2007, 64.971 al 31 dicembre 2009. Oggi siamo quasi a quota 70mila. Circa un terzo di essi, ha conteggiato il magistrato, sconta un massimo di 10 giorni. Arrestati in flagranza di reato o sottoposti a misura cautelare, il 30 per cento dei detenuti passa attraverso una porta girevole. «Il nostro ordinamento prevede già delle norme che possono impedire l’ingresso in carcere», ha ammonito Borraccetti. «Bisogna tuttavia convincere le forze di polizia e i pubblici ministeri ad applicarle». Quando a parlare è un detenuto d’eccezione, Adriano Sofri, subito si offre l’immagine della piccola cella che lo ha ospitato per nove anni a Pisa dove oggi vivono in tre. Dietro l’ammassamento in spazi ridottissimi, secondo il professore di filosofia del diritto Eligio Resta, riposa «l’idea dell’economia politica dei corpi». Non l’esercizio di un controllo sul delinquente, ma di un «biopotere sul corpo». Ed ecco che la privazione di esigenze primarie finiscono per aggiungere sofferenza alla pena, attentando alla dignità dell’uomo che, ha spiegato il filosofo, «non solo costituisce il punto di riferimento del Costituzionalismo moderno, ma significa il diritto a non essere sottoposti a sofferenze gratuite in cui non è possibile riconoscersi come essere umani». Il garante dei detenuti di Firenze, Franco Corleone ricorda i numeri della sua Toscana: nel 2009, 2.318 “eventi critici”, di cui 9 decessi, 8 suicidi, 155 fermi al tentativo e 974 casi di autolesionismo.

Gli spazi
«L’edilizia penitenziaria non si studia nelle scuole di architettura», ha denunciato Cesare Burdese, architetto torinese autore di molti progetti per i servizi ai detenuti. Ciò che è contenuto nei capitolati del ministero della Giustizia è «tanto preciso per quanto riguarda celle, finestre e altri spazi di sicurezza», ha continuato il collega Corrado Marcetti, direttore della Fondazione Michelucci, «quanto del tutto disinteressato agli ambienti per la socialità, i colloqui, il lavoro». Quest’ultimi diventati una rarità perché, a causa della crescita della popolazione detenuta, si è realizzata «un’iperintensificazione delle carceri già esistenti, con nuovi padiglioni aggiunti all’interno dei recinti già esistenti». L’atmosfera di soffocamento che si respira anche fuori, ha segnalato l’architetto Scarcella, tecnico del ministero, ha fatto assomigliare il carcere «alla gabbia per il leone o al forno per il coniglio».  Se lo spazio ha una funzione ideologica e simbolica, il presidente del Comitato europeo contro la tortura Mauro Palma lo definisce «infantilizzante», il non-luogo dove il detenuto «viene fatto regredire». Nessuno spazio per l’affettività, come ha denunciato la psicologa Grazia Zuffa di Fuoriluogo, nessun rispetto per l’autonoma deliberazione della persona. Il carcere sembra obbligato per legge ad essere un luogo brutto e disumano. Con la frustrazione dei tecnici che, lavorando per anni a un progetto, non sono interpellati quando la struttura viene modificata. Tutto molto lontano da quello che insegnava Michelucci: «Commissionatemi la progettazione di una città», rispondeva a chi chiedeva di costruire un penitenziario.

I modelli
Lo schema oggi imperante è quello del «carcere più lontano», non solo separato dalla città ma più isolato, nella periferia, presso gli snodi stradali (porti e autostrade). La «periferizzazione», ha spiegato Marcetti, è iniziata «a fine ‘800 e si è consolidata nel ‘900 per motivi di tipo igienico-sanitario e affinché l’istituto fosse separato dal tribunale». Questa delocalizzazione si sta spingendo perfino al subappalto della questione detentiva ad altri Paesi, come la Libia per esempio. Negli anni Settanta, alla vigilia della riforma del 1975 che ha innovando l’ordinamento penitenziario aprendo ad alternative alla reclusione, nascono le carceri nuove: la moderna architettura tenta il superamento del carcere a ballatoio, dei corridoi dritti, della rigidità degli schemi in genere. Sergio Lenci, il gruppo Mariotti, Giovanni Michelucci, Mario Ridolfi hanno segnato una stagione dell’architettura penitenziaria che Scarcella ha definito «irripetibile». Quel modello che aveva spinto a cambiare anche il materiale di realizzazione, tuttavia, si è scontrato con la storia d’Italia. Il “carcere della speranza” ha lasciato il posto alle esigenze degli anni della Tensione, degli inasprimenti sanzionatori, dell’emergenza terroristica e del carcere duro. Dal 1977 in poi sono venuti alla luce circa 80 strutture «tutte uguali, fatte con il timbro, in luoghi isolati che di notte sono allarmanti», ha polemizzato Marcetti. Il tentativo di costruire spazi di cerniera con la società libera è definitivamente tramontato. E quel timore diffuso nell’opinione pubblica, così come la mano forte dello Stato nel gestire l’emergenza, rischiano di tornare ad essere attuali.


Il Piano
E’ il 29 giugno 2010 quando il Piano per l’edilizia penitenziaria viene definitivamente vistato. Ma, ha pronosticato la senatrice Pd Anna Finocchiaro, «prima di tre anni non ne vedremo niente», soprattutto perché «nella legge di stabilità non c’è alcuna copertura per la sua realizzazione». Nella sua storia, il progetto edilizio proposto da Alfano ha attraversato molte tappe: commissariamento ad hoc, adozione di un programma di interventi, la dichiarazione dello stato di emergenza e il piano  edilizio completo. A quasi due anni dal primo annuncio, ha spiegato il difensore civico dei detenuti Stefano Anastasia nella sua relazione, il progetto finale ha subito «un sensibile ridimensionamento». Degli oltre 17mila posti promessi nella prima versione, amplificati a 22mila nella seconda, ecco che la terza formulazione è davvero più modesta: 9.150 posti detentivi da realizzare, finanziati con i 610 milioni di euro di cui sin dalle origini si era assicurata la disponibilità. «In tutto questo tempo il governo non ha trovato altri fondi», ha sottolineato il ricercatore, lasciando l’uditorio con questa domanda: «Quale idea insiste dietro un indirizzo politico irrealizzabile e fallimentare rispetto allo scopo prefisso?». Perché è certo, le nuove 11 carceri e i 20 padiglioni in ampliamento di istituti esistenti non riusciranno ad arginare il sovraffollamento delle strutture, che corre al tasso del 152 per cento.