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Ecco i veri effetti della legge Fini-Giovanardi

Le associazioni Antigone, Forum Droghe e La società della Ragione hanno presentato in occasione della Conferenza nazionale sulle tossicodipendenze a Trieste il “Libro bianco sulla Fini Giovanardi” (l. 49/2006). Nel rapporto sono illustrati e commentati i dati sulle conseguenze penali e sulle sanzioni amministrative della legge.

TRE ANNI DI APPLICAZIONE DELLA LEGGE 49/2006 SULLE DROGHE
LIBRO BIANCO SULLA FINI-GIOVANARDI
Presentazione (dal blog di fuoriluogo.it)
Scarica il libro in formato pdf (252kb dal sito di fuoriluogo.it)

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I miei articoli Le carceri

Vienna. L’incantesimo si è rotto.

Articolo per Notizie Verdi del 14 marzo 2009.

Antonio Maria Costa, capo dell’Agenzia antidroga delle Nazioni Unite, sognava forse di ripetere i fasti dell’Assemblea Generale di New York del 1998 nella quale fu accolto il Piano Arlacchi per un mondo senza droga da conquistare in dieci anni. Era un obiettivo irrealistico ma dotato di fascino millenaristico; Pino Arlacchi finì malamente la sua avventura all’Onu e l’oscuro professore raccolse la difficile eredità.
Bisogna riconoscergli una certa abilità nel tessere rapporti di potere con gli stati più potenti e che influenzano le scelte di politica internazionale sulle droghe e soprattutto nell’avere costruito la 52° assise della CND come occasione per riproporre la strategia perdente della proibizione e della repressione.
Occorre una capacità diabolica nel trasformare un fallimento conclamato che dovrebbe portare a cambiare rotta e a licenziare i responsabili di una strategia meramente illusoria e consolatoria, in un riaffermazione pervicace della stessa strada spacciando dati e cifre diversi dalla realtà.
Non solo, l’impudenza arriva a chiedere maggiori fondi e soldi per un organismo, l’Unodc, già oggi costoso, inutile e dannoso.
Per fortuna l’Economist, l’autorevole settimanale britannico proprio nei giorni della riunione di Vienna invitava a cessare la guerra alla droga, corredando questa richiesta con il quadro dei costi e degli insuccessi.
Un lavoro intenso della diplomazia doveva portare a una nuova Dichiarazione Politica che rappresentasse un diverso livello di consapevolezza dei problemi e di attenzione alle pratiche sociali che in questi dieci anni si sono sviluppate sotto la denominazione di riduzione del danno. In questo compito l’Unione Europea aveva assunto un ruolo che ridimensionava il tradizionale strapotere degli Stati Uniti e dei paesi satelliti, autoritari e non democratici.
Il colpo di scena è avvenuto quando l’Italia, fino a quel momento silente e d’accordo con i 27 paesi dell’Unione si è pesantemente smarcata e con l’alleanza della Svezia, tradizionale punto di riferimento del paternalismo solidarista e del moralismo contro il “vizio” in nome della virtù ha pesantemente contestato l’inserimento nel testo del riferimento alle politiche di salute pubblica.
Così è stato. La pressione di Carlo Giovanardi da Roma, con il sostegno del Vaticano, in nome della Vita, ovviamente, ha avuto successo e dal testo ridotto a un collage di frasi banali e retoriche messo insieme da burocrati annoiati è scomparso il riferimento alla riduzione del danno.
Un documento senza anima e che raggiunge il ridicolo quando rinvia al 2019, l’obiettivo dell’eliminazione della produzione e del consumo di sostanze stupefacenti.
Lord Keynes ammoniva che a lungo termine saremo tutti morti. Ma ai guerrieri della droga fa comodo illudere sul futuro per continuare a ingannare sul presente.
Ma il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. La prepotenza italiana non è piaciuta a molti  e per la prima volta in sede di approvazione di un documento che non viene votato ma accolto e adottato per consenso, un nutrito gruppo di  paesi, soprattutto europei, hanno espresso una riserva puntuale sul Documento censurando l’assenza di un riferimento che è diventato l’elemento discriminante. Quando il rappresentante della Germania, a nome della Gran Bretagna, della Spagna, del Portogallo, dell’Olanda e di altre venti nazioni, ha fatto la dichiarazione, si è capito che il castello di carta fondato sull’unanimismo pigro era irrimediabilmente crollato. L’ira del delegato della Russia rendeva plasticamente il significato della svolta.
Un altro colpo all’ipocrisia del Palazzo di Vetro è venuto dall’intervento del Presidente Evo Morales che ha chiesto con pacatezza ma altrettanta fermezza la cancellazione dalla tabella delle sostanze vietate la foglia di coca in nome del rispetto della cultura delle popolazioni indigene e della produzione dei contadini boliviani. Morales ha sottolineato il carattere politico della sua richiesta e ha difeso l’utilizzo millenario di una pianta che non può essere sradicato autoritariamente con una decisione del 1961. I sepolcri imbiancati sono ancor più impalliditi quando Morales ha iniziato a masticare una foglia di coca!
Solo Giovanardi può essere soddisfatto del ruolo dell’Italia, come fanalino di coda dell’Europa. A Trieste si celebra infatti il trionfo della carcerazione di massa e della criminalizzazione di migliaia di giovani grazie a una legge che punisce il consumo di tutte le sostanze con pene spropositate.  I tossicodipendenti marciscono in galera, ma questa decisione è per il loro bene, comunque per salvare la loro anima e redimerli dal peccato. La provincia sa essere davvero crudele!

Franco Corleone

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Vicenda Petrella. Un appello a Sarkozy (e all’Italia)

VICENDA PETRELLA. UN APPELLO A SARKOSY, MA ANCHE ALL’ITALIA: BASTA CON L’ACCANIMENTO E IL CARCERE SENZA FINE

La posizione assunta dal presidente francese Nicolas Sarkozy attorno alla vicenda di Marina Petrella, candidata all’estradizione nel nostro paese, ha un sapore pilatesco di fondo: si è detto favorevole a estradare in Italia l’ex brigatista, ma anche alla concessione di una grazia da parte italiana che le risparmi il carcere a quasi 30 anni dai fatti. Un carcere che dovrebbe in effetti apparire a tutti inumano e inutile, dato il lasso di tempo trascorso e dato che la odierna detenuta Petrella è persona del tutto diversa dall’allora brigatista; anche le parole pacate e responsabili espresse in questi giorni dalla figlia Elisa sono una testimonianza di questo e anche della considerazione riguardo le sofferenze dei famigliari delle vittime. Un’attenzione doverosa, che condividiamo sino in fondo. Ma rimane la domanda su chi e cosa possa mai risarcire una sua lunga detenzione oggi.
Non molti anni fa, quando il caso di Adriano Sofri era all’ordine del giorno, la insensata cattiveria di una condanna che colpisce dopo un quarto di secolo apparteneva al senso comune della sinistra, e non solo di essa, tanto che furono partoriti appositi disegni di legge.
Oggi sembrano passati secoli. Ma all’indietro, nel senso che pare andata smarrita ogni considerazione critica e moderna sul senso della pena e sulle sue attribuzioni e finalità costituzionali. Questi anni trascorsi all’insegna delle manette come valore e di girotondi davanti ai tribunali hanno dunque lasciato guasti profondi e corroso sino all’osso la cultura giuridica e anche il senso umanitario di molta parte del paese. Peraltro, questi accanimenti postumi, queste logiche di vendetta infinita, non riguardano solo gli ex militanti di sinistra. È di pochi giorni fa la notizia dell’arresto in Brasile ai fini di estradizione in Italia di un appartenente ai NAR, Pier Luigi Bragaglia.
La rivendicazione delle proprie attribuzioni esclusive in materia di grazia fatta del Quirinale dopo l’annuncio di Sarkozy non pare una puntualizzazione solo formale, ma un preannuncio negativo nel merito. In generale, nel clima politico italiano vi è una evidente e irriducibile animosità che porta a ritenere certo il rifiuto di grazie nei confronti di persone accusate di atti di terrorismo, altoatesini a parte.
Dunque il calcolo di Sarkozy appare zoppo e infondato: l’estradizione di Marina Petrella comporterà per lei lunghi anni di carcere e danni irreparabili alla sua già precaria condizione psichica e sanitaria. Ora, di fronte alle polemiche, Sarkozy si è spinto a formalizzare i propri auspici in due lettere spedite a Napolitano e Berlusconi. Ma risulta davvero difficile per noi comprendere, e per lui spiegare, come si possa estradare una inoffensiva ex brigatista che ha cambiato vita da decenni e contemporaneamente offrire ospitalità a narcoterroristi in piena attività, come i guerriglieri delle FARC.
Se d’Oltralpe spirano dunque venti pilateschi, da noi a livello politico e istituzionale il richiamo pare essere a don Abbondio. Tutto tace, e chi prende parola è per perorare le virtù del carcere e della durezza della legge (purché colpisca gli altri: i vinti dalla storia, come gli ex lottarmatisti e i vinti sociali, come gli immigrati, i tossicodipendenti e i poveri che affollano le prigioni).
Tra Ponzio Pilato ed Erode, tra farisei e forcaioli, tra meschini calcoli politici e sciatti meccanismi burocratici, si consuma la speranza e la vita di Marina Petrella. E dopo di lei, fatta tabula rasa non solo della dottrina Mitterand ma di ogni pur minimo sentimento umanitario e caritatevole, toccherà agli altri. Negli anni Settanta correva un orrido e truculento slogan brigatista, mutuato dalla rivoluzione cinese, che diceva: colpiscine uno per educarne cento. Ora, a parti invertite, ne colpiscono una (e poi ne colpiranno altri cento, gli ultimi stanchi e invecchiati scampati degli anni Settanta), neppure per dare l’esempio. Solo per un pigro e tardivo spirito di vendetta.
Il nostro appello e la nostra speranza è che, infine, un qualche piccolo girotondo si possa immaginare anche per protestare contro quest’uso violento della giustizia, per questo incattivimento generalizzato che non può lasciare tranquilli e che si rivolge di preferenza contro i più deboli. Perché l’intolleranza non si lascia sino in fondo usare e indirizzare, diventa tossina sociale che avvelena e colpisce tutti. Per fomentarla bastano pochi mesi, un paio di libri, qualche decreto legge e un po’ di campagne stampa. Per sradicarla occorrono invece molti decenni e intere generazioni.
Infine, un appello vogliamo lanciare al presidente Nicolas Sarkozy: per rendere coerente la posizione espressa nelle lettere inviate alle massime autorità italiane deve subordinare la effettiva estradizione alla effettiva e avvenuta concessione da parte italiana di una misura clemenziale, che assicuri a Marina Petrella di non finire, e probabilmente morire, in carcere. Diversamente, e sino ad allora, si consenta a Petrella di vivere libera in Francia, come ha potuto fare negli ultimi 15 anni e come deve essere consentito di fare a chiunque altro si trovi nelle medesime condizioni.

Sergio Segio, Patrizio Gonnella, Franco Corleone, Luigi Nieri

Per adesioni: appelli@fuoriluogo.it, info@micciacorta.it

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Caro Presidente, non sono d’accordo con lei.

Firenze, 31 marzo 2008

Caro Presidente Napolitano,
rispondo alla Sua lettera del 13 marzo e in particolare alla risposta del Consigliere Loris D’Ambrosio da Lei definita obiettiva e puntuale.
La ringrazio della sollecitudine e della cordialità manifestata insieme alla preoccupazione per la mia iniziativa del digiuno, che aveva il senso di aiutarLa a decidere se esercitare le Sue esclusive prerogative o no.
Non sarei sincero però se non Le manifestassi con chiarezza il mio dissenso nel merito.
Innanzitutto ho trovato una netta e incomprensibile cesura con la risposta sempre del Consigliere D’Ambrosio del 3 novembre 2006 alla mia missiva del 20 settembre. Allora si faceva riferimento alla necessità di aggiornamenti istruttori relativi alla pratica di grazia di Adriano Sofri indispensabili al Capo dello Stato per l’ulteriore corso della relativa procedura. Gli aggiornamenti citati, circa lo stato di salute di Sofri e l’applicazione della legge sull’indulto, erano così semplici da far ritenere, credo legittimamente, di essere alla vigilia di una positiva decisione. Cosicché non arbitrariamente potevo auspicare un atto di umanità e di riconciliazione.
Oggi invece, per motivare il sostanziale rifiuto della grazia, si cita la sentenza n. 200 del 2006 della Corte Costituzionale, secondo la quale la grazia sarebbe un istituto di natura extra ordinem destinato a far fronte a “eccezionali esigenze di natura umanitaria”, non tutelabili attraverso gli ordinari strumenti penitenziari. Mi permetto di osservare che questa e’ una visione riduttiva del potere di grazia e ritengo che le ragioni umanitarie di un atto di clemenza non possano essere ristrette alle condizioni di salute del detenuto interessato. D’altronde un potere assoluto per compiere un “atto gratuito e straordinario di generosità” non può essere limitato a una condizione di salute; altre sono le considerazioni  che giustificano un atto affidato proprio ai valori della Costituzione e che proprio nell’aderenza agli obiettivi della Carta non assume il carattere di arbitrarietà. Del resto così Ella si è determinato nella concessione di alcune grazie, quali quella a Ivan Liggi e a cinque condannati per gli attentati in Alto Adige/Sudtirol negli anni sessanta.
Questa concezione mi pare confermata dalla stessa sentenza n. 200 del 2006, che ha fatto definitiva chiarezza sul potere esclusivo del Presidente della Repubblica in tema di concessione di grazia.  La Corte Costituzionale nella sentenza citata ha ricordato come « l’esercizio del potere di grazia risponda a finalità essenzialmente umanitarie, da apprezzare in rapporto ad una serie di circostanze (non sempre astrattamente tipizzabili), inerenti alla persona del condannato o comunque involgenti apprezzamenti di carattere equitativo, idonee a giustificare l’adozione di un atto di clemenza individuale, il quale incide pur sempre sull’esecuzione di una pena validamente e definitivamente inflitta da un organo imparziale, il giudice, con le garanzie formali e sostanziali offerte dall’ordinamento del processo penale. La funzione della grazia è, dunque, in definitiva, quella di attuare i valori costituzionali, consacrati nel terzo comma dell’art. 27 Cost., garantendo soprattutto il “senso di umanità”, cui devono ispirarsi tutte le pene, e ciò anche nella prospettiva di assicurare il pieno rispetto del principio desumibile dall’art. 2 Cost., non senza trascurare il profilo di “rieducazione” proprio della pena».
Per altro lo stesso Consigliere D’Ambrosio chiarisce che nel caso di malattia gravissima in corso è prevista nell’ordinamento l’incompatibilità con la detenzione in carcere e il differimento dell’esecuzione e nel caso di una condizione di salute seria ma non patologicamente irreversibile, il magistrato di sorveglianza può decidere la prosecuzione della pena in regime di detenzione domiciliare (che non va annoverata tra le misure alternative). Si dimostra cioè che esistono strumenti assai sofisticati per risolvere ordinariamente tutti i casi in cui sia compromessa la salute del condannato. Dunque il collegamento della grazia alle problematiche di salute appare improprio.
Il caso di Adriano Sofri e’ peraltro del tutto eccezionale, come bene aveva colto il Consigliere Salvatore  Sechi quando  su incarico del Presidente della Repubblica il  9 gennaio  2002 affermava: «Il Presidente Ciampi conosce bene la complessa e tormentata vicenda processuale che ha portato alla condanna definitiva di Adriano Sofri e dei suoi coimputati ed è consapevole della mutazione teleologica che la pena subisce quando venga irrogata a lunga distanza di tempo dei fatti, soprattutto se restrittiva della libertà personale».
A mio parere, Signor Presidente, qui sta il nocciolo della questione. Adriano Sofri è stato condannato a 22 anni di carcere con l’accusa di essere il mandante (rectius: per avere confermato il mandato) dell’omicidio del commissario Calabresi avvenuto nel 1972. L’arresto avvenne a fine luglio del 1988 e la vicenda giudiziaria con diversi gradi di giudizio (compresa una sentenza di assoluzione inficiata da una motivazione “suicida”), e rinvii della Cassazione si concluse nel 2000 dopo il processo di revisione a Venezia che confermò la condanna, auspicando nella sentenza una soluzione di non carcerazione ulteriore attraverso la concessione della grazia.
Il nodo che si pone in maniera eclatante è il senso di una detenzione che si rivela inutile giacché l’obiettivo previsto dall’articolo 27 della Costituzione sullo scopo della pena, la rieducazione e il reinserimento sociale, è ictu oculi realizzato ed evidente, trattandosi di uno degli intellettuali italiani più lucidi e impegnati, che in questi anni dal carcere ha fortemente contribuito a sollecitare l’opinione pubblica sulle grandi questioni della pace e della guerra, dei diritti umani, del destino del pianeta, della pena di morte.
Presidente Napolitano, una detenzione, seppure domiciliare, per questi motivi si configura come pura afflizione in violazione della Costituzione. Non mi pare di esagerare nel dire che assistiamo a una sorta di sequestro di persona in funzione del principio retorico della certezza della pena.
Tutti coloro che erano impegnati su questo fronte salutarono la concessione della grazia a Ovidio Bompressi come il primo passo per chiudere un capitolo doloroso della storia del nostro Paese. Invece nulla è accaduto nonostante la malattia improvvisa che colpì Sofri nel carcere di Pisa a rischio della vita e nonostante la tragedia familiare avvenuta lo scorso anno. Anche l’anno trascorso in libertà per sospensione pena si è trasformato in una ulteriore sofferenza dal momento che sono stati dodici mesi trascorsi in agonia, non come prologo alla liberazione, ma come un tempo che ha allungato la pena da scontare.
Caro Presidente Napolitano, mi auguro che la decisione di non concedere la grazia a Sofri non sia definitiva. Mi sono permesso di esprimerLe con rispetto alcune valutazioni per me fondamentali, di principio e di diritto, augurandomi che Lei voglia considerarle e tornare a riflettere su una decisione che non può essere condizionata dallo spirito dei tempi o dal timore di reazioni strumentali.
Chi salva un uomo, salva l’umanità: soprattutto sarebbe bello ed educativo dare un segnale contrario allo spirito di vendetta e di rancore che sembra animare il nostro presente. Non si tratta di un atto che riguarda solo Adriano Sofri. Mi auguro che questo scambio di opinioni inneschi un confronto più largo, che coinvolga giuristi, studiosi ed esponenti della società civile sul carattere della grazia dopo la pronuncia della Corte Costituzionale.
A Lei solo, caro Presidente, la parola! Consideri questa condizione un privilegio e non un peso.

Cordialmente
Franco Corleone

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Caro presidente Napolitano, dia la grazia a Adriano Sofri

sofriCaro Presidente Napolitano,

è passato un tempo assai lungo dalla risposta che il Consigliere Loris D’Ambrosio mi inviò il 3 novembre 2006 in relazione alla lettera che Le avevo inviato il 26 settembre dello stesso anno, nella quale Le chiedevo di assumere in prima persona l’iniziativa autonoma per una scelta ormai matura della grazia a Adriano Sofri.
Il Consigliere D’Ambrosio riaffermava giustamente che la sentenza n. 200 del 2006 della Corte Costituzionale aveva fatto definitiva chiarezza sul potere esclusivo del Presidente della Repubblica sulla titolarità e esercizio del potere di clemenza individuale; e aggiungeva che in ordine alla pratica di grazia di Adriano Sofri «l’esistenza di situazioni nuove – connesse allo stato di salute e all’applicazione della legge sull’indulto – imponeva aggiornamenti istruttori indispensabili al Capo dello stato per l’ulteriore corso della relativa procedura».
Immediatamente risposi ringraziando per gli apprezzamenti ai contributi di studio da me offerti in questi anni per la più corretta interpretazione costituzionale dell’istituto della grazia. Offrii anche il quadro della posizione giuridica di Sofri: calcolando la concessione dell’indulto e i giorni di liberazione anticipata, il periodo di detenzione avrebbe avuto ancora una durata di ben sette anni. Al tempo Adriano Sofri era in regime di sospensione della pena per la gravissima malattia che l’aveva colpito durante la reclusione nel carcere di Pisa: poco dopo la sospensione è stata trasformata in detenzione domiciliare sulla base di una decisione autonoma del Tribunale di Sorveglianza di Firenze che scadrà il prossimo giugno. A oggi il residuo pena da espiare di Adriano Sofri supera i cinque anni.
Concludevo la mia lettera del settembre 2006, esprimendo fiducia nella rapida conclusione degli aggiornamenti istruttori e nell’emanazione del decreto in tempi ravvicinati. Così non è stato, nel frattempo altre tragedie sono accadute nella vita di Adriano Sofri a rendere la situazione più insostenibile.
Per ragioni di rispetto istituzionale e aderendo alle sollecitazioni di chi mi invitava a rispettare un silenzio certamente riflessivo e operoso, ho atteso fiducioso una sua iniziativa, insieme alle migliaia di uomini e donne che per oltre 1.500 giorni parteciparono a un digiuno a staffetta per affermare le ragioni di un diritto mite.
A distanza di un anno e sei mesi, mi sono convinto che le ragioni dell’attesa non sussistono più e non desidero attendere inerte il protrarsi di una vicenda iniziata con la mia prima lettera indirizzata al Presidente Ciampi il 27 novembre 2001: con il rischio di un’ipocrita assuefazione allo scandalo di uno stato di detenzione inutile che continua.
Nella risposta, il Consigliere giuridico Salvatore Sechi scrisse allora che «il Presidente Ciampi è consapevole della mutazione teleologica che la pena subisce quando venga irrogata a lunga distanza di tempo dai fatti»; ribadendo, sempre a nome del Presidente, l’esigenza di chiudere definitivamente capitoli dolorosi della storia della Repubblica attraverso il formarsi di un largo consenso politico e sociale. Il caso non poté concludersi positivamente per l’ostruzionismo dell’allora ministro della giustizia Roberto Castelli che costrinse il Presidente – già «con la penna in mano» per firmare la grazia, com’ebbe a dichiarare – a sollevare il conflitto di potere, risolto in seguito felicemente dalla Corte Costituzionale.
Viviamo un tempo di imbarbarimento giuridico e di «incattivimento» della società, come dimostra la criminalizzazione di una misura giusta e doverosa come l’indulto. Ciò deve spingere a atti di generosità che possano alimentare uno spirito di riconciliazione di cui l’Italia ha un estremo bisogno.
Caro Presidente, per evitare qualsiasi strumentalizzazione e magari il rinnovellarsi di polemiche insulse, voglio sottolineare che non intendo affatto esercitare una pressione indebita a favore della concessione della grazia a Sofri: il senso del mio messaggio sta in un pressante invito a esercitare le Sue prerogative costituzionali, in qualsiasi direzione intenda pronunciarsi. Per quanto mi riguarda, come cittadino impegnato da anni su una delicata questione politica e costituzionale, non posso far finta di nulla e rassegnarmi nell’ignavia al clima del paese.
La decisione, assolutamente personale, di riprendere un digiuno, di dialogo e di testimonianza, viene offerta a Lei, con fiducia e con la presunzione di aiutarLa a decidere, qui e ora.
L’Italia è stata protagonista della battaglia di civiltà per l’affermazione della moratoria della pena di morte in sede Onu e Lei, signor Presidente, ha sostenuto e condiviso questa iniziativa. So che Lei, custode e garante della Costituzione, apprezza l’articolo 27 sul carattere delle pene, che non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità in vista del reinserimento sociale del condannato e in nome di una convivenza che ripudi l’odio e la vendetta. I principi vanno inverati e riaffermati proprio quando rischiano di indebolirsi nella coscienza collettiva: il digiuno ha, in questa occasione, con assoluta semplicità solo il significato di dare corpo a un impegno civile. Spero con questo di aiutarLa nella riflessione, nel pieno rispetto di quella che il costituzionalista Ernesto Bettinelli chiama la «necessaria e virtuosa solitudine» del Capo dello Stato. Sono sicuro che anche in questa occasione, la Repubblica con i cittadini tutti, uomini e donne, Le sarà riconoscente.
In attesa di un Suo pronunciamento, Le invio il mio saluto più cordiale.

Franco Corleone

Da il Manifesto del 7 marzo 2008.

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Giustizia, l’Ulivo allo specchio

POLITICA O QUASI
Giustizia, l’Ulivo allo specchio

IDA DOMINIJANNI, da il Manifesto del 24 aprile 2001

Fra le cartine di tornasole che si possono scegliere per fare l’analisi chimica della stagione di governo del centrosinistra, quella della giustizia resta una delle più efficaci se non la più efficace. E non solo per il merito delle cose che sono state fatte e di quelle che non si sono fatte o non si sono potute o volute o sapute fare. Ma anche perché più di altri capitoli dell’agenda politica lascia vedere in trasparenza le condizioni peculiari in cui la XIII legislatura e i tre governi dell’Ulivo hanno lavorato. Tre in primo luogo: uno scontro ideologico aspro con il Polo, sull’alternativa fra garantismo a uso dei potenti o a tutela di tutti, e uno scontro più sotterraneo, dentro la maggioranza, fra cultura garantista e cultura panpenalista; uno scarto devastante fra il clamore mediatico sugli aspetti più eclatanti del primo scontro e la povertà di informazione sulle riforme realizzate e sul loro andamento; la crescente subalternità di tutta la politica agli umori dell’opinione pubblica, unita alla difficoltà di rapportarsi a una società troppo segnata, in materia di giustizia e sicurezze, dalle vecchie tare moraliste verso i deboli e lassiste verso i forti e dalle nuove fobie indotte dalla modernizzazione e dalla globalizzazione. Tutte condizioni che, viste a distanza di tempo, renderanno più equo di quanto non sia ora, nel bene e nel male, il giudizio sulle luci e le ombre del quinquennio dell’Ulivo, e che intanto sarebbe bene tenere presenti prima di votare, o non votare, sulla base di spinte puramente identitarie o, peggio, punitive.
Queste coordinate del contesto in cui il centrosinistra ha operato emergono lucidamente nel breve ma prezioso volumetto La giustizia come metafora (edizioni Menabò) che Franco Corleone, sottosegretario uscente alla giustizia, ha pubblicato negli stessi giorni in cui lui stesso, e con lui tutta la pattuglia dei parlamentari garantisti del centrosinistra, restavano fuori dalle candidature per il prossimo parlamento. Il volumetto assumerebbe dunque un valore alquanto noir di testamento, se la pratica che lo attraversa non facesse subito sperare in una prosecuzione extraparlamentare, per così dire, dei fatti e delle intenzioni che lo abitano. Si tratta infatti di una pratica relazionale, esplicitata non solo nella forma del dialogo-intervista di Corleone con Luca Paci, nei tre interventi di Stefano Anastasia, Sandro Margara e Eligio Resta che la commentano e nella prefazione di Piero Ignazi, ma anche nei molti riferimenti di Corleone ad altri protagonisti di una buona politica e di una buona cultura della giustizia di questi anni (Saraceni, Salvato, Senese, Cascini, Ferrajoli, Palombarini, Coiro, Rodotà, Boato, Arnao, il cardinal Martini sul versante carceri, il ministro Veronesi sul versante droghe), ad alcune associazioni che per una buona politica della giustizia non si stancano di lavorare (Antigone, il comitato per i diritti civili delle prostitute, il Forum droghe, il gruppo Abele, la redazione di Fuoriluogo), ad alcuni momenti alti del dibattito (gli Stati generali dei Ds del ’98), e infine ad alcune vittime-simbolo di una cattiva politica della giustizia (Adriano Sofri). Una tessitura di relazioni e di lavoro che la fine dell’esperienza di Corleone a Via Arenula e a Montecitorio non basteranno, oso pensare, a vanificare.
Ma il libro è trasparente anche nell’onestà del bilancio che delinea, fra fatti e omissioni, decisioni prese e insufficienze culturali non colmate, efficienza guadagnata e scelte di fondo rinviate. Corleone rivendica in primo luogo l’investimento, di risorse e di iniziativa legislativa, che sulla giustizia è stato dispiegato dal centrosinistra, dopo decenni di inerzia. All’inizio della legislatura c’era l’annunciata bancarotta della macchina giudiziaria; oggi ci sono il giudice unico di primo grado, le sezioni stralcio per l’arretrato civile, gli organici della magistratura rinsaldati, i tribunali metropolitani, la competenza penale dei giudici di pace, il giusto processo riformato, e ci sarebbe l’unità della giurisdizione se il lavoro della bicamerale non fosse stato mandato a carte quarantotto da Berlusconi. Ci sarebbero anche le riforme della responsabilità disciplinare e del giudizio di professionalità dei magistrati, se le difese corporative della magistratura, alimentate e rafforzate anch’esse da Berlusconi, fossero state meno forti. Così per quanto riguarda l’ordinamento e il funzionamento della macchina. Che non andrà mai a regime tuttavia, sottolinea Corleone e con lui Anastasia, senza quella riforma del codice penale in direzione del penale minimo che sola può lavorare a favore della certezza dei reati e della pena, nonché di quella obbligatorietà dell’azione penale di cui Berlusconi vorrebbe rapidamente disfarsi.
Poi ci sono capitoli ancora più controversi. Il carcere, prima di tutto, sul quale bisogna sempre rifare tutto il discorso da capo: tornare a dire che cosa il carcere è e che cosa non è (“un luogo orribile per sua natura e funzione, un male che pretende di curare quand’invece produce malattia, un rimedio da amministrare contrasparenza e somministrare con prudenza, il problema del cuore della città” e non il luogo della rimozione e dell’emarginazione fuori dalle mura della città), registrare che cosa si è riusciti a migliorare (il nuovo regolamento voluto da Corleone, ma decurtato di quel diritto all’affettività che non ne costituiva un particolare secondario) e che cosa resiste a ogni tentativo illuminato di riforma (leggere per credere la testimonianza di Margara, che non esita a definire genuinamente reazionarie, anche quando abitano la sinistra, queste resistenze). E poi ancora tutte le “questioni di confine” – dalla sicurezza alla legislazione sulle droghe alle questioni di bioetica all’indulto – che sono state e restano paragrafi cruciali del capitolo giustizia: le più sintomatiche di un deficit culturale della sinistra sul banco di prova decisivo della libertà, e sulle quali più necessario sarebbe stato, e non c’è stato, il coraggio di imporre alcune scelte contro il senso comune massmediatico. Si può sperare in una provad’appello: se e solo se, come scrive Eligio Resta, tra politica e cultura il confine tornerà ad essere una linea di comunicazione e non una insormontabile barriera.

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