Franco Corleone su Fuoriluogo, luglio 1998
L’assemblea straordinaria delle Nazioni Unite del 9 giugno rimarrà nella storia come un incontro mediatico ben riuscito ma dallo scarso, se non nullo, risultato concreto.
Pino Arlacchi ha avuto l’abilità di richiamare decine di capi di stato e di governo per celebrare un rito di buoni sentimenti, di goffa retorica, di grassa demagogia. Una volta di più la politica, nel consesso più alto, è stata ridotta a fatto meramente virtuale, contraddicendo così il suo significato nobile e profondo per ridurla a gioco di specchi.
Un’occasione sprecata, dunque. Responsabilità che ricade su chi ha rifiutato ogni ipotesi di confronto tra esperienze e opinioni diverse costruendo un teatrino di marionette.
Era davvero imbarazzante assistere alla sfilata di tanti capi di stato, a cominciare da Clinton, che leggevano freddamente una sfilza di luoghi comuni assemblati da mani gelide di funzionari. Una guerra senza passione è destinata alla sconfitta e, d’altronde, Chirac è stato solo a evocare la necessità di una crociata.
Per fortuna, non pochi rappresentanti di nazioni importanti si sono sottratti al clima dominante e precostituito artificialmente e artificiosamente, rivendicando le azioni reali, le scelte quotidianamente compiute nei propri Paesi.
In questo senso, il presidente Romano Prodi ha svolto un ruolo significativo. La rivendicazione dell’autonomia degli stati e del suo rafforzamento, la contestazione della conversione militare e autoritaria delle colture, la dichiarazione di fallimento totale della scelta del carcere per i tossicodipendenti, l’affermazione senza incertezze della politica di riduzione del danno, hanno assunto il sapore, per gli osservatori più attenti, di una linea alternativa, seppure moderata.
Prodi non è stata l’unica voce “stonata” e non è stata una presenza isolata. Infatti i rappresentanti dell’Olanda, della Svizzera, della Nuova Zelanda, del Messico e di molti altri Paesi sono usciti dal coro rigorosamente proibizionista.
Eppure il documento finale adottato, non votato, ricalca pedissequamente, anche se con correzioni attribuibili alla mediazione portoghese, i testi iniziali elaborati a Vienna.
Le modalità di decisione dell’ONU obbligano a una riflessione sul carattere democratico di un’organizzazione che spende il 70% dei suoi fondi per mantenere un apparato burocratico che è sostanzialmente svincolato e avulso dalla volontà, dal controllo e dal dibattito dei parlamenti e dei governi nazionali.
Una tecnostruttura diplomatica astratta e saccente, capace di elaborare brevi frasi dal tono apodittico sull’universo, ma non di concepire un pensiero profondo e originale, non può arrogarsi la responsabilità di individuare soluzioni a questioni così serie, che riguardano la salute e la vita degli individui, e l’economia dei popoli.
Viene anche da chiedersi se la politica di un Paese democratico o dell’Unione Europea possa essere decisa da un’assemblea in cui il peso e la presenza di Paesi con regimi autoritari, militari o totalitari è assai cospicua (per fortuna queste decisioni non hanno carattere vincolante).
Non vi è stato dibattito sui discorsi dei rappresentanti degli stati, né confronto sulle prese di posizione delle delegazioni governative; a maggior ragione, è rimasto sullo sfondo il contenuto del “manifesto dei 500” pubblicato l’8 giugno su due intere pagine del “New York Times”, sottoscritto da personalità di tutto il mondo.
Eppure, l’appello ha agito come “l’ombra di Banco” per tutto il periodo della conferenza. D’altronde, firme come quelle di George Shultz e di Javier Perez de Cuellar non potevano passare inosservate e non fare riflettere lo stesso Kofi Annan, a cui il documento era indirizzato.
L’azione della delegazione del governo, composta dalle ministre Bindi e Turco e da chi scrive in rappresentanza del ministero della Giustizia, proprio per il ruolo giocato e per avere rivendicato l’esistenza di una via italiana, ha suscitate polemiche e proteste da parte di Alleanza Nazionale e in particolare dell’on. Mantovano, ormai in servizio permanente effettivo nella difesa dei valori della famiglia e della “tradizione”.
Un altro fantasma si aggirava all’interno del Palazzo di Vetro a turbare la falsa coscienza di alcuni assatanati giornalisti americani: lei, la marijuana. Sembra quasi che l’oppio e la coca, con la rituale demonizzazione evocatrice del “flagello” per i giovani, in realtà servano da alibi per attaccare il vero nemico, che sarebbe costituito dalla cannabis.
Sarà un tratto del puritanesimo o una conferma della stupidità?
Pino Arlacchi si è affannato a presentare come una novità nella politica dell’ONU la scelta a favore della riduzione della domanda.
Per fortuna ci ha pensato lo zar antidroga degli USA, il generale Barry McCaffrey, a chiarire i reali intendimenti, sparando a zero contro le strategie di riduzione del danno che, a suo dire, “sono diventate un eufemismo per la legalizzazione della droga, una copertura per chi vuole abbassare la soglia di tolleranza verso l’uso di stupefacenti”.
D’altronde lo slogan scelto per la conferenza “Un mondo senza droga” (simile a quello utilizzato per il referendum battuto in Svizzera) ha inequivocabilmente un sapore moralistico che si pone agli antipodi di una concezione laica che rifiuti gli stilemi dello stato etico.
Che cosa insegna questa vicenda all’Italia e all’Europa? Certamente nulla sul piano operativo e dei contenuti, perché il dibattito nei singoli Paesi è assai più articolato e approfondito delle formulette usate nei facili decaloghi dell’UNDCP.
Sul piano simbolico, l’idea che esista e sia confermato un pensiero ufficiale unico, seppure debole, diffuso e dominante è pericolosa. Va contrastata, senza limitarsi alla difesa di spazi ridotti di sopravvivenza.
Occorre trovare un terreno di confronto spregiudicato e un luogo di discussione non ipotecati dalla paura e dal ricatto di essere etichettati come liberalizzatori, amici dei narcotrafficanti o altre infamie.
Non è tempo di agitare, come fece Nikita Krusciov tanti anni fa, una eloquente scarpa, e neppure di irridere alle illusioni in buona fede, ma di darsi un obiettivo puntuale che coinvolga alcuni Paesi europei per cambiare o denunciare le convenzioni, almeno nella parte relativa all’apparato sanzionatorio.
Il ruolo dell’Europa si misura anche dalla capacità di riscrivere le regole dello stato sociale e di ricontrattare alla luce del sole una politica sulle droghe intelligente, rispettosa delle differenze culturali e sociali dei Paesi.
Vi è un aspetto realmente originale nel piano di Arlacchi che non va trascurato. È la dimensione del tempo. Il 2003 e il 2008 sono state indicate come le date per il raggiungimento degli obiettivi. Esse devono costituire la verifica del successo o del fallimento, senza ambiguità.
Se l’operazione di “liberazione dalla droga” fallirà, pur in presenza di un sostegno politico generalizzato e con l’impiego di risorse straordinarie, il fallimento dovrà essere senza appello e si dovrà imboccare finalmente una strada ragionevole.
Giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno occorrerà esercitare un monitoraggio continuo dei risultati e un’analisi dei costi-benefici, per non consentire manipolazioni di sorta.
Arlacchi ha anche detto che la battaglia sarà vinta, quando la droga non sarà più appetibile; si tratta di un’affermazione così vera che forse il limite decennale non basterà. Vi è invece il rischio che perseguendo l’eliminazione delle droghe vegetali, si favorisca il dominio incontrollato dei prodotti chimici, che sempre più si stanno diffondendo nei Paesi sviluppati.
Un’azione che non abbia la presunzione di risolvere un problema una volta per sempre, ma abbia l’umiltà di comprendere e superare le ragioni dei fenomeni sociali avendo fiducia nell’autonomia e nella responsabilità degli individui, è molto più coraggiosa e onesta intellettualmente di chi insegue miraggi prometeici. La carica dei 500 è appena iniziata.