Articolo pubblicato da Terra del 19 novembre 2009.
Yassin avrebbe compiuto tra pochi giorni diciotto anni. Mi sono ricordato la canzone interpretata dai Tetes De Bois, “Non si può essere seri a diciassette anni” e provo uno strazio indicibile pensando alla sofferenza di un giovane venuto dal Marocco, alla sua solitudine e a una voglia di vivere disordinata.
E’ il sessantacinquesimo suicidio in carcere in questo anno di dis/grazia 2009, per fortuna non ci siamo assuefatti alla tragedia continua; ma questa morte in qualche modo annunciata fa aumentare la rabbia per il segno di una profonda ingiustizia.
Tutti gli operatori del carcere erano consapevoli della sua condizione difficile, psicologica e personale, e avevano sottolineato in più occasioni uno stato di incompatibilità con la detenzione. Ma la decisione del ricovero in ospedale è stata decisa fuori tempo massimo, il ritardo pare dovuto al palleggiamento sulla competenza tra il reparto di psichiatria infantile e quello degli adulti e ci sarebbe da sorridere della capacità della burocrazia medica di giocare sulla pelle dei pazienti se non fossimo davanti a una morte crudele.
Questa storia offre molte conferme del carattere di giustizia di classe e addirittura etnica che si pratica in Italia nel silenzio e nella distrazione di tanti. Solo uno straniero sostanzialmente solo poteva rimanere in carcere in attesa del processo per tentato furto di un orologio. D’altronde la retorica della certezza della pena per qualcuno deve pur valere! Così si spiega la preoccupazione del magistrato che, se rimesso in libertà, Yassin non si sarebbe presentato al processo. C’è evasione e evasione: quella dalla vita è inspiegabile ma quella dalla legalità è intollerabile, pare.
Ma possiamo anche pensare a un’altra spiegazione più sollecita della sorte di un giovane in difficoltà: meglio in carcere che in strada. Così non è stato. Anche perchè la costrizione non aiuta un soggetto fragile. L’attenzione del carcere, che c’è stata, in casi del genere si traduce nella formula di assicurare un’alta sorveglianza. Forse c’era bisogno di amore ed è una richiesta impossibile.
Tanti giovani sono in carcere per reati minimi, furti o piccolo spaccio, e soffrono per la mancanza di libertà in modo lancinante; dobbiamo avere il coraggio di proporre una riforma degli Istituti Penali Minorili perchè non siano dei mini carceri con sbarre e porte d’acciaio, ma “case” con pratiche di convivialità e solidarietà.
La devianza dei giovani è legata ai miti degli adulti, all’esercizio del potere della violenza, della sopraffazione e della ricchezza. Occorre disegnare un luogo fondato sulla responsabilità e sulla ricerca della felicità. Il carcere è inutile e dannoso e spesso dà la morte.
Franco Corleone