<em>Si chiamano internati: sono i reclusi che, dopo aver scontato una pena, non vengono liberati perché considerati pericolosi. Un residuo di archeologia giuridica che viola la Costituzione.</em>
Vivono in carcere a tempo indeterminato, senza un fine pena perché una pena da scontare non ce l’hanno. Dovrebbero lavorare, ma per la maggior parte del tempo oziano in cella, a fianco dei detenuti, A oggi sono circa trecento gli internati nelle case di lavoro, persone giudicate socialmente pericolose o delinquenti abituali e sottoposte a una misura di sicurezza detentiva anche dopo aver pagato il loro debito con la giustizia. In teoria la loro condizione non dovrebbe equivalere a quella di chi sconta una pena. Di fatto, però, la distinzione tra detenuto e internato è solo sulla carta e quelle che si chiamano case di lavoro spesso sono dei penitenziari da cui si rischia di non uscire più. L’altro rischio è di finire nelle porte girevoli delle misure di sicurezza detentive per cui si rientra in cella appena dopo esserne usciti.
Gli internati chiamano la loro condizione “ergastolo bianco”, perché la misura di sicurezza può essere prorogata illimitatamente, come ha denunciato Laura Longo, presidente del tribunale di sorveglianza dell’Aquila, che lo scorso febbraio, dopo l’ennesimo suicidio tra gli internati nel carcere di Sulmona, ha scritto una dettagliata relazione al ministero della Giustizia. La relazione denuncia, tra le altre cose, il meccanismo dei rinnovi continui della misura di sicurezza: non lavorando di fatto, gli internati non offrono elementi per far valutare ai giudici la loro cessata o diminuita pericolosità.
Le Case di lavoro, poi, rispondono a una concezione ottocentesca ripresa, nel 1930, dal codice Rocco ancora in vigore. In più c’è il problema del lavoro da svolgere; al momento non risultano cooperative sociali o aziende esterne che diano impiego agli internati. Le sole attività svolte sono quelle per l’amministrazione penitenziaria, In questo caso
non c’è un contratto e al massimo si guadagnano cento o duecento euro al mese, perché il capitolo di spesa per i pagamenti dei detenuti lavoratori si assottiglia sempre di più. Risultato: sia detenuti che internati, quando va bene, lavorano poche ore a settimana e a periodi, perché per far lavorare un pò tutti si organizzano gruppi a rotazione.
Franco Corleone, garante dei detenuti di Firenze, parla di “reperto di archeologia giuridica” tornato in auge: “Negli ultimi tempi c’è stato un revival di questo tipo di misure. Ma sono norme scritte prima della Costituzione, e si vede”.
Articolo di Gina Pavone da Il Venerdì de La Repubblica, 17 luglio 2011