Agosto sta finendo e la vita nelle carceri prosegue nell’ordinarietà della illegalità permanente. Qualche cinico potrà vantarsi dell’assenza di rivolte e dire che non è successo nulla; che si può continuare tra morti sospette, suicidi (siamo a quota 42), malattie e autolesionismo.
Mauro Palma sul Manifesto del 13 agosto, analizzando l’iniziativa del “Ferragosto in carcere” ha giustamente sottolineato che non mancano analisi e fotografie di una realtà che è andata degenerando. Ancora più puntualmente ha voluto richiamare il senso dell’iniziativa, forte solo se indirizzata in maniera inequivoca a voltare pagina.
Purtroppo non è né facile né semplice definire un progetto per il cambiamento radicale del carcere. Travolti dall’emergenza del sovraffollamento, anche le associazioni e i movimenti impegnati sul terreno riformatore sono stati risucchiati nell’arida contabilità della capienza reale degli istituti penitenziari, trovandosi a contestare le cifre offensive (verso la dignità delle persone) della capienza “tollerabile”. Fiumi di parole e un enorme volume di tempo ed energie nel tentativo di vuotare il mare con un secchiello.
Certo l’attività di pronto soccorso va proseguita, ma vanno anche denunciati gli autori dei crimini; in questo caso i responsabili della distruzione dei valori costituzionali sul carattere della pena e sulle modalità della sua esecuzione. Per questo non si può dare alcun credito alle promesse del ministro Alfano di facilitare le misure alternative. Meglio concentrarsi dunque sui nodi cruciali della questione.
L’attenzione al carcere è fondamentale per molte ragioni e sul significato della detenzione le parole di Aldo Moro rimangono le più umane, in particolare quelle contro l’ergastolo. ll carcere ci parla anche della giustizia, del suo funzionamento concreto e dei destinatari odierni della politica criminale dietro le leggi suggerite dall’ossessione securitaria. Se il carcere contiene la metà dei detenuti per reati (perlopiù minori) di violazione della legge sulle droghe o per reati compiuti in quanto tossicodipendenti, vuol dire che la macchina della giustizia è soffocata e ingolfata da indagini e processi per la repressione di un tabù ideologico.
Qui sta l’origine della lentezza e della crisi della giustizia, altro che processo breve. Che aspetta il Partito Democratico a porre questa discriminante al partito della Proibizione e dello Stato etico?
Se aggiungiamo gli effetti della legge contro gli immigrati e la persecuzione contro i soggetti più deboli a causa della legge Cirielli, ci scontriamo con il volto feroce della giustizia di classe.
Allora dobbiamo urlare senza mezzi termini che il sovraffollamento non è una calamità naturale ma un effetto voluto dagli imprenditori della paura; e che l’unica misura accettabile di capienza è quella costituzionale. Se si rispettasse lo stato di diritto, mite e laico, in Italia i detenuti non dovrebbero superare le trentamila unità.
Che fare dunque? Bisogna convincersi che la crisi non può essere un alibi; il governo e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sono privi di un progetto sul carcere e sono capaci solo di parlare a vanvera di edilizia carceraria, senza neppure confrontarsi sulla qualità architettonica e la sua funzione rispetto alla riforma penitenziaria.
Forse bisogna decidere di ripartire dal quel testo del 1975 e dal regolamento di attuazione del 2000 rimasto nel cassetto: non è più il caso di accontentarsi delle giaculatorie pseudo riformiste.
Quest’anno ricorre il ventesimo anniversario dell’istituzione della Polizia Penitenziaria. Non è il caso di fare un bilancio della smilitarizzazione degli agenti di custodia (battaglia che vide allora impegnata Adelaide Aglietta con un lungo sciopero della fame)?
Io non me la sento di unirmi al coro cerchiobottista di chi sostiene che vi sono troppo pochi agenti. Dico invece che bisogna ipotizzare una nuova riforma: ad esempio concentrando i compiti della Polizia Penitenziaria sull’Alta Sicurezza, sul 41 bis, sulle traduzioni e sulla vigilanza esterna e investendo un nuovo Corpo civile dei compiti trattamentali e del reinserimento sociale dei detenuti, come avviene ad esempio in Catalogna. E da subito iniziare una campagna d’autunno per la liberazione a Natale di 10.000 tossicodipendenti illegalmente sequestrati in galera.
Articolo per la rubrica di Fuoriluogo sul manifesto del 25 agosto 2010.