Il dramma del carcere è destinato ad aggravarsi non solo perché il numero dei detenuti ha ripreso a crescere dopo una flessione degli ultimi mesi, ma perché è la vivida rappresentazione di una crisi della democrazia. Quando il Presidente della Repubblica dal Quirinale dirama una Dichiarazione in cui esprime “una dura analisi critica e l’espressione di una forte tensione istituzionale e morale per una realtà che non fa onore al nostro paese, ma anzi ne ferisce la credibilità internazionale e il rapporto con le istituzioni europee” e non succede nulla, siamo in piena crisi istituzionale. Quando il Presidente Napolitano auspica che “proposte volte a incidere anche e soprattutto sulle cause strutturali della degenerazione dello stato delle carceri in Italia trovino sollecita approvazione in Parlamento” e la risposta è il silenzio, siamo alla certificazione dell’ignavia e dell’impotenza.
Questo è accaduto il 27 settembre. Che fare? Temo che il disinteresse per le parole della più alta autorità dello Stato accentui la disperazione delle donne e degli uomini ammassati nelle prigioni. Corpi a cui viene tolta la dignità, vengono annullati i diritti fondamentali e per i quali il principio della Costituzione secondo cui la pena deve tendere al reinserimento sociale si rivela una beffarda irrisione. La tracotanza di chi ha la responsabilità di questo stato di cose sembra affidarsi alla sicurezza che in carcere si continuerà a subire in silenzio, a morire, a suicidarsi, e che non ci saranno rivolte violente e che il sangue che scorrerà sarà solo quello delle vittime senza voce.
Hanno rinchiuso nelle gabbie migliaia e migliaia di soggetti deboli, poveri, stranieri, tossicodipendenti, emarginati, border line, trasformando il carcere in una discarica sociale e malignamente si accaniscono secondo la massima vigliacca: forti con i deboli, deboli con i forti.
I garanti dei diritti dei detenuti pochi giorni fa in tante città hanno presentato una piattaforma delle “cose da fare subito” riprendendo una felice espressione di Ernesto Rossi del 1949; io non mi rassegno al fatto che tante buone volontà vengano bistrattate. Immagino perciò un digiuno ad oltranza, fino all’ultimo giorno della legislatura. Una catena nonviolenta e di massa, una mobilitazione collettiva per un obiettivo puntuale: un decreto legge contro gli effetti delle leggi emergenziali e classiste.
Io facevo parte della delegazione dei firmatari della lettera aperta scritta dal prof. Pugiotto in cui si chiedeva al Presidente della Repubblica di inviare un messaggio alle Camere per una assunzione di responsabilità sulla questione del carcere e in quella occasione feci presente che il sovraffollamento non era un accidente ma aveva una causa nelle leggi criminogene e in particolare nella legge sulle droghe. Per rispondere alla “prepotente urgenza” il governo aveva una sola strada, quella del decreto legge per cancellare le norme più nefaste della legge Giovanardi che causano l’ingresso in carcere di oltre ventimila consumatori (e piccoli spacciatori) di sostanze stupefacenti e di ventiquattromila tossicodipendenti, vittime della legge Cirielli sulla recidiva.
Nel 2006 con un colpo di mano istituzionale e contro la prescrizione costituzionale del carattere di necessità e urgenza, la riforma proibizionista e punitiva della legge sulla droga fu inserita nel decreto legge delle Olimpiadi invernali. Oggi di fronte allo spaventoso sovraffollamento delle carceri (metà dei detenuti per fatti relativi a quella legge) vi sono tutte le ragioni politiche e costituzionali per un decreto che incida sui fatti di lieve entità relativi alla detenzione di sostanze stupefacenti e modifichi gli articoli che impediscono la concessione di misure alternative ai tossicodipendenti.
Il governo tecnico non può sottrarsi al dovere di intervento e soprattutto non può buttare sabbia negli occhi promettendo misure ininfluenti come la messa alla prova. Siamo noi che mettiamo alla prova il coraggio del governo. Il digiuno a staffetta darà parola al vasto mondo del carcere, dai detenuti ai parenti, dagli avvocati ai volontari e agli operatori penitenziari, e potrà assumere anche la funzione di mettere la questione della giustizia, vista anche dal punto di vista delle conseguenze finali, tra le priorità dell’agenda della politica. Checché ne pensi la ministra Severino, l’approvazione di un nuovo Codice penale che superi il Codice Rocco, costituisce la base di uno stato di diritto repubblicano e di un diritto penale laico.
Franco Corleone
Da il Manifesto, 23 ottobre 2012