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I miei articoli In Primo Piano

La Consulta monca. Appello a Mattarella

La Corte Costituzionale da quasi un anno assume decisioni in assenza di un giudice, infatti l’avv. Giuseppe Frigo si dimise dalla Corte per motivi di salute il 7 novembre 2016. Il plenum rappresenta un elemento di garanzia particolarmente in casi delicati e quando emergono orientamenti non unanimi e  la stessa legittimità delle decisioni è messa dunque in discussione.

Il Parlamento in seduta comune ha il compito di eleggere il giudice costituzionale mancante entro un mese, ma il termine non è perentorio e in molte occasioni non è stato rispettato. Nella prima repubblica la spartizione era codificata e i cinque giudici di nomina parlamentare era attribuiti tre alla Democrazia Cristiana, due al PCI e uno ai socialisti e ai partiti laici.

Questa spartizione sulla base della logica del cosiddetto arco costituzionale impedì sempre l’elezione di un esponente della cultura garantista.

Già nel 1995 si era verificata una grave impasse che spinse Franco Ippolito, esponente storico di Magistratura democratica a chiedere un metodo nuovo e trasparente con il coinvolgimento dei cittadini per valorizzare il ruolo della Corte Costituzionale; io scrissi un articolo intitolato “Camere a Consulta” sul Manifesto del 24 maggio 1995 proponendo alcune soluzioni per sbloccare una anomalia istituzionale assai grave.

Nel 1996, parliamo della XIII legislatura, presentai alla Camera dei deputati una proposta di legge (n. 167) elaborata con l’ausilio del costituzionalista dell’Università di Pavia, Ernesto Bettinelli, per superare le possibili situazioni di inadempienze nella elezione dei giudici costituzionali. La norma di chiusura prevedeva che se entro due mesi dalla vacanza verificatasi, gli organi previsti non avessero provveduto alla nomina dei nuovi giudici, si sarebbe proceduto per cooptazione da parte della Corte Costituzionale.

Purtroppo nulla è stato fatto e ora di nuovo si manifesta una pericolosa incapacità delle Istituzioni repubblicane ad assolvere doveri fondamentali. Il Parlamento è giunto al settimo scrutinio senza esito, certificando addirittura la indecente mancanza del numero legale.

Il 26 aprile il presidente della Repubblica Sergio Mattarella incontrò il Presidente del Senato Piero Grasso e la Presidente della Camera Laura Boldrini e con un comunicato stampa fece sapere di avere “sottolineato l’esigenza di approvare la legge elettorale e di nominare il giudice della Consulta”. Anche il Presidente della Corte Costituzionale Paolo Grossi ha lamentato una condizione insostenibile. Stupisce che non si manifesti una grave preoccupazione per la caduta di credibilità del Parlamento e della crisi inarrestabile della democrazia.

In primo luogo tocca al garante della Repubblica, al Presidente Mattarella esercitare la propria responsabilità, inviando un Messaggio alle Camere come previsto dall’art. 87 della Costituzione.

Un atto, solenne e severo, metterebbe i parlamentari di fronte al dovere di adempiere a una funzione essenziale. I Presidenti Grasso e Boldrini, sarebbero costretti alla convocazione quotidiana del Parlamento, in una sorta di conclave laico, in modo da chiudere una vicenda incresciosa che non può essere protratta in un momento delicato come la fine della legislatura.

Il paradosso inaccettabile è che neppure sono sul tappeto nomi alternativi; è ora che si esca dall’oscurità e che il confronto parta magari da una rosa di nomi autorevoli per favorire la convergenza più vasta anche dei 571 voti necessari.

Questo appello sarà raccolto? Di fronte a questo insulto allo stato di diritto, sono certo che Marco Pannella avrebbe iniziato un digiuno di dialogo per far rispettare l’imperativo kantiano.

La pena dell'ergastolo nella Costituzione e nel pensiero di Aldo Moro

Ecco il programma dell’iniziativa “La pena dell’ergastolo nella Costituzione e nel pensiero di Aldo Moro”, che si terrà a Roma giovedì 22 gennaio (ore 15-19) presso l’ex Hotel Bologna in via Santa Chiara 4. Organizzano La società della ragione e Antigone.

Chi è interessato a partecipare è pregato di comunicarlo entro il 20 gennaio a: info@societadellaragione.it
Giacca obbligatoria per gli uomini.

Vi segnaliamo che all’iniziativa sono riconosciuti 5 crediti formativi dall’Ordine degli avvocati di Roma.

Scarica l’invito.

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I miei articoli Le carceri

Caro presidente Napolitano, dia la grazia a Adriano Sofri

sofriCaro Presidente Napolitano,

è passato un tempo assai lungo dalla risposta che il Consigliere Loris D’Ambrosio mi inviò il 3 novembre 2006 in relazione alla lettera che Le avevo inviato il 26 settembre dello stesso anno, nella quale Le chiedevo di assumere in prima persona l’iniziativa autonoma per una scelta ormai matura della grazia a Adriano Sofri.
Il Consigliere D’Ambrosio riaffermava giustamente che la sentenza n. 200 del 2006 della Corte Costituzionale aveva fatto definitiva chiarezza sul potere esclusivo del Presidente della Repubblica sulla titolarità e esercizio del potere di clemenza individuale; e aggiungeva che in ordine alla pratica di grazia di Adriano Sofri «l’esistenza di situazioni nuove – connesse allo stato di salute e all’applicazione della legge sull’indulto – imponeva aggiornamenti istruttori indispensabili al Capo dello stato per l’ulteriore corso della relativa procedura».
Immediatamente risposi ringraziando per gli apprezzamenti ai contributi di studio da me offerti in questi anni per la più corretta interpretazione costituzionale dell’istituto della grazia. Offrii anche il quadro della posizione giuridica di Sofri: calcolando la concessione dell’indulto e i giorni di liberazione anticipata, il periodo di detenzione avrebbe avuto ancora una durata di ben sette anni. Al tempo Adriano Sofri era in regime di sospensione della pena per la gravissima malattia che l’aveva colpito durante la reclusione nel carcere di Pisa: poco dopo la sospensione è stata trasformata in detenzione domiciliare sulla base di una decisione autonoma del Tribunale di Sorveglianza di Firenze che scadrà il prossimo giugno. A oggi il residuo pena da espiare di Adriano Sofri supera i cinque anni.
Concludevo la mia lettera del settembre 2006, esprimendo fiducia nella rapida conclusione degli aggiornamenti istruttori e nell’emanazione del decreto in tempi ravvicinati. Così non è stato, nel frattempo altre tragedie sono accadute nella vita di Adriano Sofri a rendere la situazione più insostenibile.
Per ragioni di rispetto istituzionale e aderendo alle sollecitazioni di chi mi invitava a rispettare un silenzio certamente riflessivo e operoso, ho atteso fiducioso una sua iniziativa, insieme alle migliaia di uomini e donne che per oltre 1.500 giorni parteciparono a un digiuno a staffetta per affermare le ragioni di un diritto mite.
A distanza di un anno e sei mesi, mi sono convinto che le ragioni dell’attesa non sussistono più e non desidero attendere inerte il protrarsi di una vicenda iniziata con la mia prima lettera indirizzata al Presidente Ciampi il 27 novembre 2001: con il rischio di un’ipocrita assuefazione allo scandalo di uno stato di detenzione inutile che continua.
Nella risposta, il Consigliere giuridico Salvatore Sechi scrisse allora che «il Presidente Ciampi è consapevole della mutazione teleologica che la pena subisce quando venga irrogata a lunga distanza di tempo dai fatti»; ribadendo, sempre a nome del Presidente, l’esigenza di chiudere definitivamente capitoli dolorosi della storia della Repubblica attraverso il formarsi di un largo consenso politico e sociale. Il caso non poté concludersi positivamente per l’ostruzionismo dell’allora ministro della giustizia Roberto Castelli che costrinse il Presidente – già «con la penna in mano» per firmare la grazia, com’ebbe a dichiarare – a sollevare il conflitto di potere, risolto in seguito felicemente dalla Corte Costituzionale.
Viviamo un tempo di imbarbarimento giuridico e di «incattivimento» della società, come dimostra la criminalizzazione di una misura giusta e doverosa come l’indulto. Ciò deve spingere a atti di generosità che possano alimentare uno spirito di riconciliazione di cui l’Italia ha un estremo bisogno.
Caro Presidente, per evitare qualsiasi strumentalizzazione e magari il rinnovellarsi di polemiche insulse, voglio sottolineare che non intendo affatto esercitare una pressione indebita a favore della concessione della grazia a Sofri: il senso del mio messaggio sta in un pressante invito a esercitare le Sue prerogative costituzionali, in qualsiasi direzione intenda pronunciarsi. Per quanto mi riguarda, come cittadino impegnato da anni su una delicata questione politica e costituzionale, non posso far finta di nulla e rassegnarmi nell’ignavia al clima del paese.
La decisione, assolutamente personale, di riprendere un digiuno, di dialogo e di testimonianza, viene offerta a Lei, con fiducia e con la presunzione di aiutarLa a decidere, qui e ora.
L’Italia è stata protagonista della battaglia di civiltà per l’affermazione della moratoria della pena di morte in sede Onu e Lei, signor Presidente, ha sostenuto e condiviso questa iniziativa. So che Lei, custode e garante della Costituzione, apprezza l’articolo 27 sul carattere delle pene, che non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità in vista del reinserimento sociale del condannato e in nome di una convivenza che ripudi l’odio e la vendetta. I principi vanno inverati e riaffermati proprio quando rischiano di indebolirsi nella coscienza collettiva: il digiuno ha, in questa occasione, con assoluta semplicità solo il significato di dare corpo a un impegno civile. Spero con questo di aiutarLa nella riflessione, nel pieno rispetto di quella che il costituzionalista Ernesto Bettinelli chiama la «necessaria e virtuosa solitudine» del Capo dello Stato. Sono sicuro che anche in questa occasione, la Repubblica con i cittadini tutti, uomini e donne, Le sarà riconoscente.
In attesa di un Suo pronunciamento, Le invio il mio saluto più cordiale.

Franco Corleone

Da il Manifesto del 7 marzo 2008.