Tra poco più di otto mesi l’Italia dovrà rispondere alle autorità giurisdizionali europee intorno alla condizione di vita nelle carceri italiane. Dovrà in sintesi fornire risposte adeguate e convincenti su come si è avviata ad assicurare i diritti fondamentali alle persone ristrette nelle nostre carceri, oggi inverosimilmente e tragicamente stipate in luoghi perlopiù fatiscenti. Va ricordato che ci sono circa 30 mila persone in più rispetto ai posti letto regolamentari. Inoltre una parte significativa della popolazione detenuta è costretta all’ozio in cella per 20-22 ore al giorno in condizioni degradanti.
In questo scenario è stato riproposto il tema dell’amnistia. Dopo la riforma costituzionale che ha reso quasi impossibile la sua approvazione con l’introduzione di un quorum assurdamente spropositato, si pone come un tema a tutto tondo politico. Un tema che è venuto periodicamente a galla per fronteggiare il surplus di detenuti.
L’amnistia e l’indulto, nella tradizione della Repubblica ad egemonia democristiana, sono state le vie per governare giustizia e carcere. Sono stati usati alla stregua di due rubinetti di scarico per liberare le scrivanie dei tribunali e sfoltire le presenze in galera. Le decine di provvedimenti di clemenza non suscitavano polemiche perché costituivano la valvola di sfogo per reggere un sistema che aveva scelto di non abrogare il Codice Rocco e di mantenersi fedele al processo inquisitorio.
Strumenti penali tipici di uno stato paternalistico-autoritario che in alternativa alle riforme mancate elargiva manciate di benefici a prezzo di saldo. Così è accaduto fino all’approvazione del nuovo codice di procedura penale e all’ultima amnistia del ministro Vassalli.
Purtroppo non solo quella riforma tanto attesa venne rapidamente ridimensionata dalla legislazione d’emergenza dei primi anni novanta ma non fu accompagnata da un nuovo Codice Penale (si continuarono però a elaborare progetti da parte di Commissioni ad hoc come le ultime elaborate da Federico Grosso, Carlo Nordio e Giuliano Pisapia). Peggio, nuove questioni sociali come l’immigrazione o l’uso di stupefacenti furono utilizzate per alimentare campagne securitarie e alimentare paure. Così in quegli anni si elaborò il diritto autoctono penale del nemico, dove il nemico era il tossicodipendente o l’immigrato. Due tipologie di detenuti che oggi complessivamente riempiono per due terzi le nostre prigioni.
In questo scenario è assolutamente necessario abrogare quelle leggi, a partire dalla Fini-Giovanardi sulle droghe che come abbiamo dimostrato anche con l’ultimo Libro Bianco, è responsabile in modo massiccio del sovraffollamento carcerario. Eppure il dibattito parlamentare avvenuto a fine luglio in sede di conversione del decreto Cancellieri sull’esecuzione delle pene, che aveva misure di buon senso seppur non risolutive, è stato ancora una volta desolante tanto da temere la riviviscenza di una paccottiglia demagogica. In questo contesto ci preme sottolineare che si è rischiato un nuovo asse della sicurezza con pezzi del Pdl, Fratelli d’Italia, Lega e M5S.
Il tema della clemenza non può prescindere quindi da quello delle riforme sistemiche: amnistia e riforme devono essere contestualizzate, dando così al provvedimento di clemenza quella connotazione di ricostruzione sociale che tale istituto dovrebbe avere (proprio su queste pagine Livio Pepino ha ricordato una delle rarissime amnistie con tale profilo, quella della fine degli anni sessanta dopo la repressione dei movimenti sociali di quegli anni). Da mesi siamo impegnati insieme a molte organizzazioni di società civile, a sindacati come la Cgil, alle Camere Penali, in una campagna che abbiamo chiamato simbolicamente “tre leggi per la giustizia”. Siamo al traguardo delle 50 mila firme e in questo mese le presenteremo alla presidente della Camera Boldrini chiedendo una sessione parlamentare per affrontare in maniera organica un pacchetto di misure incisive. Le nostre tre leggi riguardano l’introduzione del delitto di tortura nel codice penale, il radicale cambiamento della legge sulle droghe, l’abrogazione del reato di immigrazione clandestina, l’istituzione del garante nazionale delle persone private della libertà, modifiche in senso meno repressivo delle norme in materia di custodia cautelare e recidiva, le liste di attesa. A questo complessivo processo crediamo debba essere legata con urgenza l’amnistia per ripristinare un trattamento penale ordinario verso quelle categorie sociali deboli contro cui è stata brandita l’arma della repressione penale e per accompagnare la stabile cancellazione dall’area del penale di quei reati privi di offensività e che tali non dovrebbero essere. Si tratta quindi di introdurre una diversa agenda sui temi della giustizia. Lo stesso recente attacco a Magistratura Democratica, la componente garantista dei giudici, ci suggerisce di organizzare con rapidità un confronto serrato sui contenuti per tale cambiamento del funzionamento della macchina che amministra la giustizia: un cambiamento radicale anche perché il riformismo senza riforme porta alla condanna definitiva dell’Italia e la radicalità assoluta e senza compromessi è in realtà la via del buon senso e della ragione. In questo contesto si pone quanto chiaramente evidenziato nella sentenza della Corte di Strasburgo che ha condannato l’Italia: la condizione di vita delle carceri, definita come quotidiano trattamento disumano e degradante, accostata alla tortura dallo stesso ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, rende indilazionabile un provvedimento a efficacia immediata che riporti il sistema nella legalità penitenziaria e contabile. Nelle carceri non vi deve essere un detenuto in più rispetto ai posti letto regolamentari. Il provvedimento di clemenza mirato può servire a questo, se insieme però si cambia la filosofia della pena. In questo senso sarebbe cosa buona e giusta che le indicazioni che stanno emergendo dalla Commissione presieduta da Mauro Palma vengano messe subito in atto, visto che esse vanno verso l’obiettivo di tenere insieme la riduzione dell’impatto carcerario e una migliore qualità della vita nelle carceri.
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Sono convinto che non possiamo più continuare ad accettare che, di fronte alla tragedia quotidiana che vive il carcere, si persegua una gestione rassegnata e contrassegnata dal tratto della normale amministrazione, quando la situazione è davvero insostenibile e richiede un cambio di passo visibile, una discontinuità profonda. In occasione della Festa della Polizia Penitenziaria il Presidente Napolitano è tornato sul tema del sovraffollamento e ha chiesto a Parlamento e governo di superare la paralisi attraverso «nuove e coraggiose soluzioni strutturali e gestionali». Il Presidente del Senato Schifani annuncia un’altra sessione straordinaria sulle carceri. Quello della Camera Fini suggerisce la strada della depenalizzazione e la scelta di privilegiare l’adozione di misure alternative. Di fronte a queste intenzioni tocca a noi non lasciarle cadere e chiedere decisioni coerenti. Purtroppo la ministra Severino propone misure modeste come il disegno di legge sulle pene detentive non carcerarie e la messa alla prova e insiste con la scelta di un Piano carcere che prevede programmi di edilizia inutile e dannosa.
Ho avuto modo di esprimere al Csm, al Presidente della Repubblica, al ministro Riccardi, ai vertici del Dap che la ragione della bulimia carceraria è determinata dalla legge sulla droga, quella del 1990 aggravata dalla modifica ideologica e ancor più punitiva realizzata con un vulnus costituzionale nel 2006. È questa la legge che provoca il maggiore afflusso in carcere. Il 33% degli ingressi in carcere è relativo alla violazione dell’art. 73 (detenzione e spaccio); nel 2011 ben 22.677 consumatori e piccoli spacciatori sono stati colpiti e una alta percentuale è ristretta per fatti di lieve entità, come previsto dal quinto comma, ma con pene da uno a sei anni di carcere.
Occorre interrompere il flusso di entrata oltre che liberare dalle catene i tossicodipendenti, che rappresentano un’altra alta quota di vittime sull’altare della disumanità dell’ossessione securitaria. La proposta di legge dell’on. Cavallaro è lo strumento per affrontare efficacemente la questione. Al Senato lo stesso testo è stato presentato dai senatori Ferrante e Della Seta. Si prevede l’istituzione di un reato autonomo della detenzione di sostanze stupefacenti nella modalità della lieve entità, oggi configurata come semplice attenuante con una pena da sei mesi a tre anni che eviterebbe l’ingresso in carcere e la possibilità di misure alternative. L’iter potrebbe essere rapido se queste e le altre norme previste venissero inserite nel disegno di legge governativo già in discussione. Mi sento di proporre un provvedimento mirato, cioè una amnistia limitata ai fatti relativi al quinto comma dell’art. 73 del Dpr 309/90, che inciderebbe sulle presenze in carcere e sarebbe contestuale alla modifica della legge.
Ho aderito all’appello per l’introduzione del reato di tortura nel Codice Penale, la cui approvazione richiederebbe poco tempo da parte del Parlamento ma avrebbe un grande valore simbolico. Questa campagna, lanciata da Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, si deve accompagnare alla ratifica del Protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura (Opcat). L’Italia ha firmato il Protollo nel 2003 ma non lo ha mai ratificato, contrariamente alla quasi totalità dei Paesi dell’Unione Europea. L’Italia non ha quindi alcun rappresentante nell’organismo di Ginevra che prevede un potere ispettivo a livello globale. La firma del Protocollo obbligherebbe anche l’Italia a istituire la figura del garante nazionale dei diritti dei detenuti ed è una ragione in più per adempiere a un dovere colpevolmente disatteso. Mauro Palma ha scritto al ministro Terzi per sollecitare una decisione nel gennaio scorso, ma nulla si è mosso. Abbiamo chiesto al nuovo Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Tamburino di scegliere come priorità l’applicazione del Regolamento del 2000 non solo per migliorare la vivibilità quotidiana nelle carceri ma per indicare la strada maestra della riforma. Attendiamo con fiducia l’istituzione di un Tavolo di confronto e di iniziativa che inizi dall’abbandono della via del cemento.
Che fare dunque? Che tipo di mobilitazione va inventata? Confesso di non avere una risposta certa. Per aiutarmi a pensare ho iniziato un digiuno, sperando che si formi una catena che veda impegnati garanti ed esponenti del volontariato. I prossimi giorni devono vederci impegnati a trovare forme originali di denuncia e di proposta. Forse occorre più fantasia, più spregiudicatezza, ma non si può stare fermi e muti neppure un minuto di più.
Da il Manifesto, 29 maggio 2012