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I miei articoli In Primo Piano Le carceri

Una veglia civile per la riforma del carcere

Il 20 dicembre scorso, proprio in questa rubrica, eravamo stati facili profeti nell’immaginare che il torbido periodo della campagna elettorale avrebbe alimentato un fuoco di fila contro la riforma dell’ordinamento penitenziario. Si erano già levate le proteste di alcuni sindacati di polizia contro la possibilità di garantire anche in Italia il diritto alla sessualità dei detenuti. Si sono aggiunte le trite litanie dei soliti imprenditori della paura sul rischio di una nuova legge salvadelinquenti.

Grazie a improvvide audizioni, le Commissioni Giustizia hanno offerto alle forze della conservazione una tribuna per gettare veleno sulle minime ipotesi di revisione delle preclusioni in tema di benefici penitenziari e alternative al carcere. La proposta del Governo ridà ai magistrati qualche margine di maggiore responsabilità nella valutazione sui singoli casi, ma questa considerazione del ruolo della magistratura di sorveglianza fa paura ai Torquemada contemporanei, secondo i quali permessi e alternative andrebbero concessi solo a chi in carcere non dovrebbe proprio starci, mentre gli altri possono pure morirci. Ma, nonostante tutto, i pareri delle Regioni, delle Camere e, infine, del CSM sono stati complessivamente favorevoli.

Il Coordinamento dei Garanti regionali e comunali dei detenuti ha espresso al ministro Orlando il proprio apprezzamento per la conclusione dell’iter parlamentare e alcune indicazioni per chiudere positivamente questo lungo lavoro che – a partire dagli Stati generali dell’esecuzione penale – ha coinvolto tante energie della società civile. Come Garanti siamo convinti che le osservazioni migliorative possano essere accolte, mentre ogni ipotesi di restrizione della portata della riforma debba essere respinta, a partire dalla reviviscenza di inutili e vessatori impedimenti legislativi ai benefici e alle alternative al carcere. Abbiamo in particolare richiesto che venga raccolta l’indicazione pervenuta dalle Commissioni parlamentari e dalle Regioni sul rispetto del principio della territorialità e sulla qualificazione sanitaria delle sezioni penitenziarie destinate ad accogliere i detenuti con problemi di salute mentale. Per quanto riguarda la delega in materia di affettività in carcere, sollecitata nel parere del Senato, suggeriamo come un significativo passo in avanti possa essere anche il semplice riconoscimento della possibilità di svolgere colloqui non sottoposti a controllo visivo (altro che guardoni!), lasciando a una successiva revisione del Regolamento la concreta disciplina delle modalità di svolgimento di incontri riservati con familiari e terze persone.

Se il Consiglio dei Ministri – convocato per domani – butterà il cuore oltre l’ostacolo, il decreto legislativo tornerà per conoscenza alle Commissioni e dopo dieci giorni potrà essere definitivamente adottato, ancor prima dell’insediamento delle nuove Camere. Ci sono, dunque, i tempi e le condizioni per portare a termine questo primo importante passaggio di riforma. Non sappiamo se nella prossima legislatura il Governo porterà a compimento anche le deleghe ancora in sospeso, a partire da quelle sul lavoro penitenziario e sull’esecuzione penale minorile, già trasmesse dal Ministero della giustizia a Palazzo Chigi, ma siamo di fronte a una occasione che non va perduta per rispondere alle condanne europee per trattamenti inumani e degradanti. Nelle carceri si vive con speranza e trepidazione questo momento e proprio per essere solidali con i detenuti, domani, in attesa della decisione del Consiglio dei ministri, i Garanti territoriali delle persone private della libertà si uniranno a loro in una veglia civile di digiuno per la giustizia e il diritto.

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Legge Fucilati nella Grande Guerra

Caro direttore,

si celebrano i cento anni dalla disfatta di Caporetto e in alcuni articoli e in alcune interviste si fa cenno alla offesa alla umanità rappresentata dal cadornismo che incolpò della sconfitta la vigliaccheria dei soldati.

Cadorna fu anche l’autore di una nefasta circolare che autorizzava fucilazioni e processi per diserzione e insubordinazione.

Purtroppo neppure questa occasione sembra essere colta per risolvere la ferita aperta dalle inique condanne a morte. La Commissione Difesa del Senato pare assolutamente non intenzionata ad esaminare la proposta di legge approvata dalla Camera dei deputati. Dal lontano 2000 mi occupo del destino tragico dei quattro alpini Silvio Ortis, Basilio Matiz, Giobatta Corradazzi e Angelo Massaro sottoposti a un processo farsa e fucilati il 1° luglio 1916 a Cercivento.

La legislatura volge alla fine e vi è una mobilitazione per approvare la legge sullo ius soli (ho aderito anch’io al digiuno a staffetta), quella sul testamento biologico e sulla canapa terapeutica, io intendo porre tra le urgenze anche l’approvazione di una legge che restituisca l’onore alle centinaia di vittime di un militarismo ottuso e incapace.

Per questo ho scritto al Presidente della Commissione Difesa Latorre ricordandogli che la proposta di legge n. 1935  approvata all’unanimità la proposta di legge n. 1935 dell’on. Giorgio Zanin e che sarebbe incomprensibile l’incapacità del Parlamento di trovare una soluzione condivisa a un problema risolto dalla Francia e dalla Gran Bretagna.

Il Presidente Sarkozy nel novembre del 2008 riabilitò politicamente i 675 militari giustiziati tra il 1914 e 1918 rendendo omaggio a tutte le vittime del massacro, compresi “i fucilati per l’esempio”, che erano stati condannati per ammutinamento, diserzione, disobbedienza o automutilazioni.

Un omaggio e una riparazione già suggerita dieci anni prima da Lionel Jospin secondo il quale quei soldati dovevano essere reintegrati pienamente nella memoria collettiva nazionale.

La Gran Bretagna con una legge ha riabilitato la memoria di 306 soldati giustiziati durante la Grande Guerra. L’Italia continua a dimenticare 750 soldati condannati a morte e fucilati, a cui vanno aggiunte le vittime delle esecuzioni sommarie.

Il Presidente Latorre presentò una ipotesi di testo base alternativo alla proposta della Camera, assai insoddisfacente e che è stata contestata dai Comitati che si battono per una sostanziale riabilitazione.

Occorre partire dal fatto che nel Codice Penale italiano l’istituto della riabilitazione è previsto per i vivi, in quanto ha caratteristiche di utilità e non ha carattere morale.

La soluzione deve avere quindi il carattere della riconciliazione.

Per costruire un dialogo  ho predisposto un testo che tiene conto della proposta di legge approvata dalla Camera e del testo alternativo, rimasto comunque nel cassetto e non discusso.

Una proposta condivisa corrisponderebbe anche al sentimento del Presidente della Repubblica Mattarella e alle valutazioni del Presidente Marini. Come si vede dalle modalità di approvazione della legge elettorale non vale la scusa della mancanza di tempo. Oltretutto è un provvedimento che potrebbe essere approvato in Commissione in sede legislativa e poi rimandato alla Camera che non avrebbe difficoltà a sancire il via definitivo.

Il Presidente Latorre finora non ha dato riscontro alla mia lettera. Per opportuna conoscenza ho inviato il testo della proposta di sintesi per sbloccare la situazione all’Ufficio legislativo del Quirinale, che ha invece risposto con apprezzamento.

In Friuli e in Carnia si sono fatte importanti mobilitazioni in questi anni, forse bisogna immaginare un ultimo tentativo perché non prevalga il silenzio e ognuno di assuma la propria responsabilità.

Franco Corleone

 

ARTICOLATO

Art. 1

La Repubblica, che all’art. 27 della Costituzione proclama che non è ammessa la pena di morte, decide la restituzione dell’onore agli appartenenti alle Forze armate italiane che, nel corso della Prima Guerra mondiale, vennero fucilati senza le garanzie del giusto processo, con sentenze emesse dai tribunali militari di guerra, ancorché straordinari.

Promuove ogni iniziativa volta al recupero della memoria di tali caduti, in particolare ogni più ampia iniziativa di ricerca storica volta alla ricostruzione delle drammatiche vicende del primo conflitto mondiale con specifico riferimento ai tragici episodi dei militari condannati alla pena capitale.

Art. 2

I nomi dei militari delle Forze armate italiane che risultino essere stati fucilati nel corso della prima Guerra mondiale in forza del disposto dell’articolo 40 del codice penale per l’esercito, approvato con regio decreto 28 novembre 1869, e della circolare del Comando supremo n. 2910 del 1° novembre 1916 sono inseriti, su istanza di parte presentata al ministro della Difesa, nell’Albo d’oro del Commissariato generale per le onoranze ai caduti.

Dell’inserimento di cui al primo comma è data comunicazione al Comune di nascita del militare per la pubblicazione nell’Albo comunale.

Nel Complesso del Vittoriano in Roma è affissa la seguente iscrizione: ”Nella ricorrenza del centenario della Grande guerra e nel ricordo perenne del sacrificio di un intero popolo, l’Italia onora la memoria dei propri figli in armi, vittime della crudele giustizia sommaria. Offre la testimonianza di solidarietà ai soldati caduti, ai loro familiari e alle popolazioni interessate, come atto di riparazione civile e umana”.

Lo stesso testo è esposto, con adeguata collocazione, i tutti i sacrari militari.

Art. 3

Sugli eventi oggetto della presente legge relativi alle fucilazioni e alle decimazioni, il Ministero della difesa dispone la piena fruibilità degli archivi delle Forze armate e dell’Arma dei carabinieri per tutti gli atti, le relazioni e i rapporti legati alle operazioni belliche, alla gestione della disciplina militare nonché alla repressione degli atti di indisciplina o di diserzione, ove non già versati agli archivi di Stato.

Art. 4

Al fine di promuovere una memoria condivisa del popolo italiano sulla Prima Guerra mondiale, il Comitato tecnico-scientifico per la promozione d’iniziative di studio e ricerca sul tema del “fattore umano” nella Prima Guerra mondiale, di cui al decreto del Ministro della difesa 16 ottobre 2014, promuove la pubblicazione dei propri lavori, in forme che assicurino la massima divulgazione.

Art. 5

All’attuazione delle disposizioni della presente legge le amministrazioni interessate provvedono nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

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La Consulta monca. Appello a Mattarella

La Corte Costituzionale da quasi un anno assume decisioni in assenza di un giudice, infatti l’avv. Giuseppe Frigo si dimise dalla Corte per motivi di salute il 7 novembre 2016. Il plenum rappresenta un elemento di garanzia particolarmente in casi delicati e quando emergono orientamenti non unanimi e  la stessa legittimità delle decisioni è messa dunque in discussione.

Il Parlamento in seduta comune ha il compito di eleggere il giudice costituzionale mancante entro un mese, ma il termine non è perentorio e in molte occasioni non è stato rispettato. Nella prima repubblica la spartizione era codificata e i cinque giudici di nomina parlamentare era attribuiti tre alla Democrazia Cristiana, due al PCI e uno ai socialisti e ai partiti laici.

Questa spartizione sulla base della logica del cosiddetto arco costituzionale impedì sempre l’elezione di un esponente della cultura garantista.

Già nel 1995 si era verificata una grave impasse che spinse Franco Ippolito, esponente storico di Magistratura democratica a chiedere un metodo nuovo e trasparente con il coinvolgimento dei cittadini per valorizzare il ruolo della Corte Costituzionale; io scrissi un articolo intitolato “Camere a Consulta” sul Manifesto del 24 maggio 1995 proponendo alcune soluzioni per sbloccare una anomalia istituzionale assai grave.

Nel 1996, parliamo della XIII legislatura, presentai alla Camera dei deputati una proposta di legge (n. 167) elaborata con l’ausilio del costituzionalista dell’Università di Pavia, Ernesto Bettinelli, per superare le possibili situazioni di inadempienze nella elezione dei giudici costituzionali. La norma di chiusura prevedeva che se entro due mesi dalla vacanza verificatasi, gli organi previsti non avessero provveduto alla nomina dei nuovi giudici, si sarebbe proceduto per cooptazione da parte della Corte Costituzionale.

Purtroppo nulla è stato fatto e ora di nuovo si manifesta una pericolosa incapacità delle Istituzioni repubblicane ad assolvere doveri fondamentali. Il Parlamento è giunto al settimo scrutinio senza esito, certificando addirittura la indecente mancanza del numero legale.

Il 26 aprile il presidente della Repubblica Sergio Mattarella incontrò il Presidente del Senato Piero Grasso e la Presidente della Camera Laura Boldrini e con un comunicato stampa fece sapere di avere “sottolineato l’esigenza di approvare la legge elettorale e di nominare il giudice della Consulta”. Anche il Presidente della Corte Costituzionale Paolo Grossi ha lamentato una condizione insostenibile. Stupisce che non si manifesti una grave preoccupazione per la caduta di credibilità del Parlamento e della crisi inarrestabile della democrazia.

In primo luogo tocca al garante della Repubblica, al Presidente Mattarella esercitare la propria responsabilità, inviando un Messaggio alle Camere come previsto dall’art. 87 della Costituzione.

Un atto, solenne e severo, metterebbe i parlamentari di fronte al dovere di adempiere a una funzione essenziale. I Presidenti Grasso e Boldrini, sarebbero costretti alla convocazione quotidiana del Parlamento, in una sorta di conclave laico, in modo da chiudere una vicenda incresciosa che non può essere protratta in un momento delicato come la fine della legislatura.

Il paradosso inaccettabile è che neppure sono sul tappeto nomi alternativi; è ora che si esca dall’oscurità e che il confronto parta magari da una rosa di nomi autorevoli per favorire la convergenza più vasta anche dei 571 voti necessari.

Questo appello sarà raccolto? Di fronte a questo insulto allo stato di diritto, sono certo che Marco Pannella avrebbe iniziato un digiuno di dialogo per far rispettare l’imperativo kantiano.

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Chiusi gli Opg, ora mai più manicomi

L’11 maggio 2017, l’ultimo internato del manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto ha lasciato la struttura infernale per antonomasia e ha trovato accoglienza in una comunità terapeutica di Modica.

Questa data ha un significato storico. Finalmente si è chiusa l’era dell’internamento nelle istituzioni totali per eccellenza e i tristi nomi di Aversa, Montelupo, Reggio Emilia, Secondigliano sono destinati alla memoria di un passato che non deve tornare. Anche Castiglione delle Stiviere dovrà percorrere la strada della riforma che ha deciso la chiusura degli Opg e l’abbandono della logica manicomiale.

L’Italia può essere orgogliosa di essere all’avanguardia in Europa e nel mondo; dopo la chiusura grazie alla legge 180 del manicomio civile, ora inizia la prova ancora più difficile della cancellazione dell’orrore del manicomio criminale.

La legge 81 del 2014 ha indicato un percorso che ora segna un punto di non ritorno. La rivoluzione gentile si è affermata in questi due anni e nonostante le resistenze e le incomprensioni di parti della magistratura, della psichiatria e dell’informazione e si è consolidata sulla base della passione, dell’impegno e dell’entusiasmo di tutto il personale che si è sentito protagonista di una bella avventura.

Purtroppo il Governo e il Parlamento invece di affrontare le criticità segnalate nelle relazioni della attività di commissario e quindi di mettere in campo una modifica radicale delle misure di sicurezza secondo le line emerse nei tavoli degli Stati Generali del carcere e di cancellare le norme del Codice Penale ormai obsolete e in contrasto con la riforma, hanno lasciato passare nella discussione in Senato della legge delega sul processo penale e sull’Ordinamento penitenziario, un emendamento risibile che però ripropone a livello concettuale un ritorno indietro, configurando le Rems come nuovi Opg.

Immediatamente è scattata la mobilitazione perché questa vergogna fosse cancellata. Dal 12 aprile StopOpg ha organizzato un digiuno a staffetta che oggi è giunto al trentaseiesimo giorno con la partecipazione di oltre centocinquanta persone, tra cui deputati e senatori, psichiatri, operatori dei servizi, avvocati, giornalisti, militanti delle associazioni dei diritti civili e sociali. La catena durerà fino alla approvazione del provvedimento con la speranza della modifica di una norma figlia della improvvisazione.

La Conferenza delle regioni ha espresso una netta opposizione; il CSM ha approvato una delibera che dà indicazioni ai magistrati perché la riforma sia implementata e non osteggiata e nel frattempo si è costituito un Coordinamento delle Rems per monitorare lo sviluppo delle buone pratiche attraverso la raccolta dei dati e lo scambio di esperienze.

Questa iniziativa dal basso sarà presentata domani, giovedì 18 a Bologna all’interno della Riunione Scientifica SIEP presso l’Aula Magna dell’Ospedale Maggiore.

La chiusura degli Opg ha rimesso in moto la discussione sulla salute mentale nel paese e sugli obiettivi da perseguire nei Dipartimenti, nelle Asl e nelle Regioni. Al centro della riflessione deve essere messo il tema della cura e delle alternative alla detenzione per i detenuti con patologie psichiatriche o con disturbi psichici o comportamentali.

E’ una partita che va affrontata e vinta per tutti i soggetti coinvolti e in tutti i luoghi della sofferenza. Una rivalutazione del sistema di welfare deve partire proprio dall’anello più debole, abbandonando le catene simboliche e materiali e riproponendo il principio che la libertà è terapeutica.

Diritti e dignità sono il fondamento della Costituzione ma si devono inverare nelle prassi quotidiane.

Pubblicato per la rubrica di Fuoriluogo su il Manifesto del 17 maggio 2017

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Mai più OPG

Finalmente anche il manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto è chiuso. Due anni di ritardo rispetto alla previsione della legge 81, ma grazie alla generosità della Rems di Barete, che con intelligenza ha aderito all’invito di accogliere alcuni internati siciliani per far cessare l’illegalità di una detenzione ingiustificata e consentire così la chiusura dell’istituzione totale per eccellenza, si è raggiunto un obiettivo che pareva ormai un miraggio.
Gli Opg di Aversa, Montelupo, Reggio Emilia, Secondigliano hanno chiuso i battenti e quello di Castiglione delle Stiviere percorre la difficile strada di una significativa trasformazione.
Vi sono ora le condizioni per dedicarsi allo sviluppo dei contenuti della riforma, per impedire il risorgere delle logiche manicomiali e per arricchire le opportunità di vita nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza.
Dobbiamo tutti avere chiaro che la rivoluzione gentile, come io definisco la chiusura dell’Opg, manicomio e carcere insieme, è stata costruita su una contraddizione. Una felice contraddizione ma che con intelligenza, prudenza e sagacia va sciolta.
Si è rotto il muro della segregazione che poteva spingersi fino all’ergastolo bianco, senza incidere sul sistema delle misure di sicurezza, sul doppio binario del Codice Rocco, sul concetto vago e incerto di pericolosità sociale.
L’indignazione e l’orrore per quei luoghi di inciviltà e disumanità hanno dato la spinta per superare gli Opg e per cercare e individuare una soluzione terapeutica e sanitaria destinata agli autori di reato prosciolti per incapacità di intendere e volere, raggiunti dalla misura di sicurezza.
La legge 81 ha anche affermato che la misura di sicurezza non può avere una durata superiore al massimo della pena edittale prevista per il delitto commesso; è una norma di grande valore perché obbliga a realizzare programmi personali finalizzati al reinserimento sociale.
Sono tante le questioni aperte nel funzionamento delle trenta Rems aperte e funzionanti: le dimensioni, che vanno dalle due unità del Friuli Venezia Giulia ai 120 ospiti di Castiglione delle Stiviere; le problematiche dei soggetti senza fissa dimora, italiani e stranieri; le condizioni di vita delle donne non sempre rispettose del genere; la lista d’attesa a macchia di leopardo tra le diverse regioni; l’architettura delle strutture provvisorie e soprattutto di quelle definitive.
La priorità assoluta sta però nel chiarire la natura delle Rems che a mio parere devono essere strutture riservate ai prosciolti definitivi (in ultima istanza) e non per misure provvisorie, decise magari senza perizia. A questo proposito andrebbe stabilito il criterio di due perizie affidate a psichiatri sorteggiati da un albo sulla cui base il giudice potrebbe decidere con maggiore cognizione e con elementi più sicuri.
Andrebbe anche sciolto il nodo della vigenza o no del Regolamento penitenziario. Occorre definire un testo base che valorizzi un sistema di garanzie dei diritti, superando i limiti attuali per colloqui, visite e telefonate e comunque non facendo prevalere un atteggiamento tipico del paternalismo solidaristico e/o autoritario che può emergere nelle strutture comunitarie.
E’ indifferibile la riforma del Codice penale, in molti articoli, prima di tutto abrogando il 148 (infermità psichica sopravvenuta in carcere) e il 206 (misure di sicurezza provvisorie). Altrettanto indispensabile un lavoro di pulizia semantica per eliminare dal codice e dall’Ordinamento penitenziario termini superati come Opg, internati e sostituirli con definizioni corrispondenti alla nuova realtà.
Invece di porsi su questa lunghezza d’onda, per altro suggerita dal Tavolo 11 degli Stati generali dell’esecuzione della pena e nelle mie relazioni sull’attività di Commissario unico per il superamento degli Opg, il Governo e il Parlamento si sono finora affidati alla fortuna e allo stellone d’Italia. Peggio ancora. Il Senato ha inserito nella legge delega sul processo penale e sull’ordinamento penitenziario una norma che cancella la riforma e fa rivivere gli Opg.

Franco Corleone

Vai alla pagina di StoOPG per la mobilitazione contro il ritorno agli OPG

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Carcere, un anno di combattimento

Anche i provvedimenti sul carcere hanno subito lo stop nell’attesa magica del 4 dicembre e si è perso tempo prezioso. Il risultato del referendum ha determinato la crisi del governo e la nascita del nuovo esecutivo guidato da Paolo Gentiloni. Alla Giustizia è stato confermato il ministro Andrea Orlando con soddisfazione di molti, fra cui i garanti dei diritti dei detenuti, per la fiducia per le cose fatte ma soprattutto per la speranza di vedere realizzate le importanti promesse uscite dagli Stati Generali.

La situazione nelle carceri non è migliorata dal punto di vista della qualità della vita ed è assai preoccupante per il lento ma costante aumento delle presenze, infatti a fine novembre è stata abbondantemente superata la cifra di 55.000 detenuti presenti.

Il rischio del sovraffollamento incombe nuovamente in assenza dei tanto declamati provvedimenti strutturali che in realtà richiederebbero una nuova legge sulle droghe. Infatti come testimoniato dal 7° Libro Bianco sulle droghe, nonostante l’abbattimento della legge Fini-Giovanardi ad opera della Corte Costituzionale, ancora il 32% delle presenze in carcere è dovuto alla violazione dell’art. 73 della legge antidroga sulla detenzione di sostanze stupefacenti. Si tratta dunque di piccoli spacciatori o di consumatori vittime del proibizionismo, ma non mi pare che questo tema sia all’ordine del giorno, basta vedere la sorte delle proposte di legalizzazione della canapa.

Anche la via straordinaria della clemenza, richiesta alla fine del giubileo da Papa Bergoglio, non è stata presa in alcuna considerazione né dal Governo né dal Presidente della Repubblica.

Che fare dunque? Rassegnarsi all’ordinaria amministrazione accompagnata dalla silenziosa tragedia quotidiana dei suicidi, dei tanti tentati suicidi, dei troppi atti di autolesionismo e dei molti digiuni di protesta?

I garanti regionali e comunali intendono chiedere al ministro Orlando un confronto sul destino della legge delega all’esame del Senato. I tempi a disposizione perché un patrimonio di idee e proposte non venga dilapidato impongono delle scelte immediate. O lo stralcio della parte penitenziaria o, forse meglio, un disegno di legge per affrontare alcuni nodi non procrastinabili: il diritto all’affettività, il nuovo ordinamento minorile e la modifica delle misure di sicurezza urgenti dopo la chiusura degli Opg.

Nel frattempo l’idea di una iniziativa per cambiare le condizioni di vita all’interno delle patrie galere a legislazione vigente è emersa nell’ambito di un Seminario di preparazione del Convegno in onore di Sandro Margara realizzati nell’ottobre scorso, “Lo stato del carcere dopo gli Stati Generali”. Il 15 dicembre ho sottoscritto con il Provveditore dell’Amministrazione della Toscana Giuseppe Martone un documento assai impegnativo, chiamato Patto per la Riforma.

Il proposito assai ambizioso è di attuare una sperimentazione e un’anticipazione dei contenuti della riforma delineata nell’atto di indirizzo 2017, in 14 punti, dal ministro Orlando e tra cui spiccano il lavoro, l’affettività, le misure alternative, la salute.

Cose concrete dunque. A cominciare dalla sostituzione degli sgabelli nelle celle con sedie decenti. La ricerca dell’afflizione è stata costruita con cura certosina e meticolosa e occorre rompere abitudini e assuefazioni. L’elenco è lungo: garantire l’acqua calda e le docce nelle celle; rendere le biblioteche fruibili per la lettura e lo studio; attivare mense e locali per fare la spesa; progettare gli spazi e i luoghi per l’affettività.

La dignità, l’autonomia e la responsabilità passano da una diversa quotidianità. Ci aspetta un anno di combattimento.

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L’«utopia concreta» dell’esercito del lavoro

migrantiL’«utopia concreta» dell’esercito del lavoro

Diritti. Un servizio civile esteso e mirato ai profughi e ai rifugiati porterebbe solo risvolti positivi: tutela del territorio e dell’ambiente, più integrazione sociale e comprensione umana

In un mondo che non pensa più al domani, insensibile alla stessa idea di posterità, che quotidianamente erode i diritti delle future generazioni e le condizioni del pianeta, i visionari e sognatori si trovano inevitabilmente fuori posto.
Ecco che allora la carica utopica e le concrete suggestioni tocca cercarle più nel passato che non nel presente. In questo caso, guardare all’indietro non è propensione nostalgica, semmai la convinzione che la Storia sia un giacimento di idee preziose, perlopiù dimenticare ma spesso del tutto credibili e attuali.

Basti pensare al «Manifesto di Ventotene» e ad Altiero Spinelli, che andrebbero degnamente ricordati anzitutto studiandoli per davvero e omaggiati nei luoghi consoni, che certo non sono le navi da guerra, come quella al largo appunto di Ventotene, anche se intitolata al nome di Garibaldi. A Ventotene sono stati a lungo reclusi e confinati dal fascismo numerosi dirigenti democratici, intellettuali, avversari politici, futuri padri della Repubblica e della Costituzione italiana. Il testo che lanciava l’idea degli Stati Uniti d’Europa fu concepito oltre che da Spinelli, da Eugenio Colorni e da Ernesto Rossi, politico ed economista radicale. Il quale, al termine della guerra e all’indomani della Liberazione, nel 1946 (Casa Editrice La Fiaccola di Milano), pubblicò un testo dal titolo evocativo: «Abolire la miseria». In un vero e proprio programma articolato, veniva ipotizzata la costruzione di un «Esercito del lavoro».

Una proposta fondata su un’etica del lavoro e una convinzione non assistenzialista, che, per certi versi, si può anche considerare anticipatoria del Servizio civile e della possibilità di alternativa al servizio militare, che fu varata nel 1972 (Legge Marcora), con molte resistenze politiche e dopo che molti obiettori di coscienza pagarono con il carcere la loro coerenza. Oggi la leva non è più obbligatoria e le caratteristiche del Servizio civile sono mutate. Ma alla base vi era e vi è una cultura della solidarietà sociale, della cittadinanza attiva e dell’apporto che i singoli, in determinate circostanze, possono e talvolta debbono portare al benessere collettivo, anche in termini di lavoro per la comunità.

In questi giorni di nuovi lutti e di tragedie dovute al terremoto che ha colpito Lazio e Marche, e in particolare la piccola cittadina di Amatrice, emerge dolorosamente quanta poca prevenzione si faccia in Italia e quanto sia scarsa la manutenzione e la messa in sicurezza del territorio.

Proprio a questo riguardo, la proposta e la carica ideale e utopica di Ernesto Rossi possono tornare a essere una suggestione concreta. Certo da attualizzare, certo assicurando criteri e diritti, in modo che non possano sfociare in una sorta di «lavoro obbligatorio» o di lavoro surrettiziamente gratuito e senza rischiare di turbare o alterare le normali regole del mercato del lavoro. Richiamando semmai quella spinta degli «Angeli del fango» che accorsero a Firenze nel 1966 per contribuire a salvare il patrimonio artistico e a soccorrere la popolazione colpita.

Perché non applicare la ricetta di Rossi per un Servizio civile del lavoro esteso e mirato ai profughi e ai rifugiati?

È facile intuirne i risvolti positivi: sarebbe più facile l’integrazione sociale e la comprensione umana se a queste persone venisse proposto di partecipare a un «esercito del lavoro» per compiere interventi di manutenzione ambientale sui boschi, le rive dei fiumi, le coste del mare. Lavori di pulizia e di ripristino delle zone degradate o abbandonate. Nelle zone montane sarebbe urgente un lavoro massiccio per arginare l’avanzata del bosco, ripulire i sentieri e recuperare terreni per agricoltura e pascoli.

Anche riguardo al patrimonio artistico e culturale si potrebbero ipotizzare interventi di manutenzione e salvaguardia di situazioni degradate o a rischio.

Loro stessi potrebbero trarne beneficio, attraverso specifici momenti formativi e di apprendimento linguistico, oltre che di adeguata collocazione abitativa.

In generale, ne guadagnerebbe l’economia, l’ambiente, la qualità della vita sociale e la sicurezza dei cittadini, troppo spesso messa a rischio dall’incuria del territorio. Ma un ulteriore beneficio, forse anche maggiore, sarebbe di ordine morale e culturale.

Perché, come scriveva Ernesto Rossi, «il servizio nell’esercito del lavoro farebbe sentire ad ogni individuo in modo più immediato i rapporti di solidarietà che lo avvincono agli altri membri del consorzio civile».

Un vincolo che non riguarda gli uni o gli altri, stranieri o autoctoni, ma l’umanità intera. Immaginare un’umanità solidale, in questi tempi di guerre estese e infinite, di conflitti etnici, di pulsioni razziste, di crisi economiche globali, di populismi ed egoismi diffusi, può sembrare follia. Ma non lo è: si tratta di un’utopia possibile e necessaria. Che può essere edificata anche da piccole cose e da esperimenti sociali come questo.

Da il Manifesto dell’8 ottobre 2016

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Carcere, la riforma nel nome di Margara

MargaraLunedì abbiamo salutato per l’ultima volta Alessandro Margara, che ha chiuso la sua lunga vita a Firenze, nella stessa chiesa dove due anni fa gli fummo vicini in occasione del funerale della sua adorata compagna di vita, Nora Beretta.

Nel dicembre scorso aprimmo un convegno sulla riforma penitenziaria del 1975 con la presentazione della raccolta di scritti di Margara intitolata “La giustizia e il senso di umanità”; una antologia di quattrocentocinquanta pagine sulle questioni del carcere, degli Opg, delle droghe e sul ruolo della Magistratura di Sorveglianza.

Nella mia prefazione, significativamente intitolata Il cavaliere dell’utopia concreta, ripercorro la sua straordinaria vicenda umana e politica, dedicata alla costruzione di un modello di pena e di carcere rispettoso della Costituzione, in specie dell’articolo 27 che prescrive il principio del reinserimento sociale del carcerato. La ricchezza del suo pensiero, espresso in tanti saggi, articoli, documenti, proposte di legge, è davvero impressionante.

E’ un volume che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dovrebbe diffondere in tutte le carceri e farne la base della formazione di tutto il personale.

Sandro Margara ha ricoperto molti incarichi e in tutti ha lasciato un’impronta indelebile. Come giudice di sorveglianza è stato un maestro per i suoi colleghi e un mito per i suoi “clienti”, i detenuti che sapevano che c’era un giudice per gli ultimi. Ricevette la nomina a capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dal ministro Giovanni Maria Flick, dopo la tragica e improvvisa scomparsa di Michele Coiro. Quella nomina rappresentò una svolta simbolicamente rivoluzionaria, e accese davvero la speranza dei detenuti e anche di molti operatori. Il suo licenziamento pochi anni dopo, preteso dal potere sindacale e concesso dalla subalternità della politica, dette il segno della restaurazione.

Fu poi scelto come presidente della Fondazione Michelucci e infine fu eletto come primo Garante dei detenuti della Regione Toscana. Lasciò quest’ultimo incarico dopo averne definito il carattere e volle che fossi io il suo successore.

Ho avuto la fortuna di stargli vicino, di confrontarmi con lui per tanti anni, di collaborare su questioni importanti:  voglio ricordare soprattutto la stesura del Regolamento penitenziario del 2000 e la costruzione del Giardino degli Incontri nel carcere di Sollicciano.

Molti hanno conosciuto e amato l’uomo intelligente, acuto, capace di ironia acuminata accompagnata da coraggio intellettuale e da assoluto rigore morale. La sua intransigenza sui principi non lo portava a posizioni astratte, ma si inverava sempre in proposte concrete e realizzabili.

Ricordiamo le sue ultime e disincantate considerazioni avanzate al Convegno su “Il carcere al tempo della crisi”, quando affermava: “Forse i progetti sono consentiti solo ai vecchi, che sono gli ultimi giovani (o illusi) rimasti. Non è possibile stare zitti, anche se parlare fosse solo consolatorio”. Sono parole che ci interrogano, tutti.

Gli Stati Generali dell’esecuzione penale, voluti dal ministro Andrea Orlando, hanno coinvolto tante energie in uno sforzo riformatore condiviso. Se si vuole davvero la riforma, anche parziale, si dovrà ripartire dalle proposte di Margara, a cominciare dal diritto all’affettività in carcere, dall’abolizione dell’ergastolo (almeno quello ostativo) e dalla modifica del regime del 41bis per eliminare gli aspetti macroscopicamente contrari ai diritti umani.

Alessandro Margara è stato un riformatore convinto. Le disillusioni che ha vissuto, lungi da piegarlo, hanno semmai rafforzato la limpidezza del suo pensiero e delle sue scelte politiche. Tocca a noi essere alla sua altezza e non mollare.

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Il muro che deve cadere

corleone-aperteIeri, 25 luglio, la Camera dei deputati ha iniziato la discussione delle proposte di legalizzazione della canapa. È facile prevedere che l’approvazione della legge non sia dietro l’angolo non solo per l’ostruzionismo di alcuni gruppi parlamentari, ma per la necessità di smontare pregiudizi e falsità costruiti nei decenni e che hanno consolidato un senso comune sul divieto per legge del consumo di tutte le sostanze stupefacenti senza distinzione. Il fatto che la discussione sia approdata in Parlamento dopo decenni di polemiche è un fatto storico. Cade infatti il tabù del proibizionismo che nacque negli anni trenta negli Stati Uniti proprio sulla demonizzazione della marijuana. Non era bastato il fallimento del divieto dell’alcol eliminato dal presidente Roosevelt per impedire che una nuova caccia alle streghe si imponesse con la repressione delle minoranze etniche. Un apparato propagandistico eccezionale fu messo in campo, mobilitando i mezzi di informazione e tanti pseudo scienziati per enfatizzare i danni dell’uso della canapa. La campagna non era fondata sui fatti, (nessuno è mai morto per uno spinello), ma sui miti e sulle falsificazioni moralistiche. Infatti si trattava di una lotta del Bene contro il Male. Il Italia l’acme fu raggiunto con l’approvazione della legge Iervolino-Vassalli nel 1990 fortemente voluta da Bettino Craxi e peggiorata nel 2006 con la legge Fini-Giovanardi che solo grazie a una decisione della Corte costituzionale nel 2014 è stata spazzata via. Le conseguenze in questi venticinque anni sono state drammatiche sulla giustizia e sul carcere. La macchina della punizione non ha ottenuto alcun effetto sui consumi e sulla loro riduzione, ma ha intasato i tribunali, ha riempito le carceri e ha arricchito il narcotraffico. I dati sono eloquenti. Nel 2015 gli ingressi in carcere per violazione dell’art. 73 che colpisce la detenzione di sostanze stupefacenti e in concreto consumatori e piccoli spacciatori sono stati pari al 27%, in diminuzione rispetto alle punte del 30% degli anni precedenti. Le presenze in carcere sono pari al 32% e in cifra assoluta sono pari a 16.712 persone su 52.164 detenuti. Se aggiungiamo i detenuti tossicodipendenti, colpevoli di reati di strada e non di spaccio, si conferma che la questione droga pesa per quasi il cinquanta per cento sull’affollamento carcerario. Le operazioni di polizia e le segnalazioni all’autorità giudiziaria si confermano per il cinquanta per cento relative ai cannabinoidi. Quindi nonostante la caduta della parte più repressiva e punitiva della legge Fini-Giovanardi che ha comportato una diminuzione del sovraffollamento carcerario per effetto della minore criminalizzazione della canapa, rimane un’incidenza enorme sul fenomeno. Questa è la ragione del documento inviato alla commissione Giustizia della Camera dal Procuratore nazionale Franco Roberti della Direzione Nazionale Antimafia a sostegno della proposta Giachetti e a favore della legalizzazione della coltivazione, della lavorazione e della vendita della cannabis. Questo parere mette in luce il peso del narcotraffico sull’economia e sulla democrazia visto il fallimento della strategia repressiva e soprattutto contesta l’accanimento contro il consumo di sostanze meno dannose e che ha comportato un enorme dispendio di energie delle forze dell’ordine e dei giudici per un risultato impossibile. Chi sostiene che la canapa fa male e quindi va proibita, non si preoccupa della nocività della sostanza del mercato nero e delle conseguenza della stigmatizzazione dei giovani sulla loro vita. Dal 1990 alla 2015 sono stati segnalati alle prefetture per mero consumo 1.107.051 persone e di questo ben 800.000 pari a oltre il 72% per cannabis e sottoposte a sanzioni amministrative odiose. L’altra novità che si è imposta rispetto alla menzogna dei danni della canapa è l’affermarsi dell’uso terapeutico della marijuana. La legalizzazione non farà aumentare i consumi, ma li renderà più sicuri e fornirà risorse attraverso la tassazione per azioni educative e di informazione. La war on drugs è finita. Occorre costruire una politica intelligente.

(Franco Corleone da La Nuova Ferrara del 26 luglio 2016)

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Droghe, il Libro Bianco spinge la riforma

copertina2016Abbiamo deciso di continuare la redazione dei Libri Bianchi sugli effetti collaterali della legislazione antidroga, anche dopo la bocciatura della Fini-Giovanardi da parte della Corte Costituzionale. Resta in piedi, infatti, la legge Iervolino-Vassalli che segnò la svolta proibizionista italiana. Il Libro Bianco promosso dalla Società della Ragione e condiviso da Forum Droghe, Antigone, Cnca e da numerose associazioni e movimenti raccolti nel Cartello di Genova, anticipa anche quest’anno la Relazione del Governo al Parlamento.

Patrizia De Rose, che ha raccolto la difficile eredità di Serpelloni alla guida del Dipartimento delle politiche antidroga, ha il merito di avere riaperto un confronto non ideologico tra il Governo e le Ong, culminato, per ora, in seminari di preparazione e di valutazione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite dedicata alle politiche sulle droghe tenutasi in aprile a New York. Proprio in questi giorni è tornata a circolare la voce di un azzeramento del DPA e dell’assorbimento nel Ministero della Salute. Non vogliamo ergerci a difensori di una struttura inventata dalla destra, ma vogliamo discutere pubblicamente delle scelte che riguardano la politica delle droghe che riguardano la politica internazionale, la giustizia, l’informazione, le città, la scuola, lo stato sociale, e dunque ci pare inadeguata una collocazione settoriale di una politica che, viceversa, deve coinvolgere diversi branche della compagine governativa. Piuttosto, quel Dipartimento dovrebbe dismettere quel nome battagliero ereditato dalla furia ideologica dei suoi inventori e meriterebbe un referente politico nella compagine di governo, tra i sottosegretari alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Il Governo è invece ancora inadempiente nella convocazione della Conferenza nazionale triennale: l’ultima (finta) occasione di confronto risale al 2009 mentre l’ultima vera addirittura al 2001 a Genova.

Recentemente la Consulta ha inferto un altro colpo alla Fini- Giovanardi, cassando l’art. 75bis che prevedeva l’aggravamento delle sanzioni amministrative che rimangono un buco nero dello stigma contro i giovani consumatori. Questa ulteriore decisione – cui si aggiungono alcune recenti sentenze sulla coltivazione della canapa dei tribunali di Ferrara e Firenze – aggrava il giudizio sulla latitanza della politica. Certo alcune novità sono state introdotte negli anni scorsi, soprattutto per rispondere alla situazione insostenibile del sovraffollamento delle carceri per cui l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani. E gli Stati generali sull’esecuzione penale voluti dal Ministro Orlando hanno dato utili indicazioni per incentivare le alternative al carcere per i tossicodipendenti e per migliorare il trattamento socio-sanitario dei detenuti con problemi di dipendenza. Sono indicazioni positive, ma non sufficienti. In parlamento, oltre alle proposte di legalizzazione della cannabis (ferme, purtroppo, allo stato delle audizioni, ma ora sostenute anche da una campagna di iniziativa popolare), sono state depositate in Parlamento (alla Camera da Fossati e altri, al Senato da Lo Giudice e altri) le nostre proposte per la riforma dell’intera parte sanzionatoria  del testo unico 309 del 1990 e la ripresa di adeguate politiche socio-sanitarie per il trattamento delle dipendenze problematiche. Non solo: il Consiglio regionale del Friuli, primo – speriamo – tra altri, ha approvato una “legge voto” per la riforma del testo unico sulla base della nostra proposta. Il solco, dunque, è tracciato e speriamo che il Parlamento e la Conferenza nazionale sulle droghe possano discuterne senza pregiudizi.

(leggi il Libro Bianco su www.fuoriluogo.it/librobianco)