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I miei articoli In Primo Piano

La libertà di stampa in Cassazione

Articolo pubblicato da il Manifesto il 23 novembre 2010

Oggi, 23 novembre in Cassazione è in gioco il diritto all’informazione e il diritto alla ricerca della verità da parte di giornalisti, storici, politici e, in ultima analisi, cittadini rispettosi della Costituzione e amanti di una democrazia trasparente su vicende drammatiche che hanno insanguinato la nostra Repubblica.
Si tratta del caso che riguarda il giornalista Renzo Magosso condannato in primo grado a Monza e in Appello a Milano nella causa per diffamazione intentata contro di lui (e contro il direttore del giornale Umberto Brindani) dal generale Ruffino e dalla sorella del defunto generale Bonaventura per avere pubblicato sul settimanale “Gente” del 17 giugno 2004 una intervista a un sottufficiale dei carabinieri dell’epoca, Dario Covolo, che dichiarava di avere presentato sei mesi prima dell’omicidio del giornalista Walter Tobagi una nota informativa sulla progettazione di questa azione criminosa: l’accusa, estremamente grave è che i suoi superiori per superficialità, insipienza o per inconfessabili motivi la trascurarono e non fecero nulla per impedire l’attentato.
Mi auguro che quuesta vicenda non venga seppellita definitivamente: al contrario che venga riaperta doverosamente per rispetto della legge e per non dare ragione a chi vuole intimidire e ridurre al silenzio, con un metodo vile e addirittura teorizzato, quello dell’esosità di multe e risarcimenti, le voci coraggiose che non si rassegnano alla verità di comodo e alla implicita richiesta di salvaguardia di interessi di corpi, servizi e corporazioni.
Per una pura coincidenza inoltre la sentenza della Cassazione giunge quasi in concomitanza con la sentenza della Corte d’Appello di Brescia che dopo trentasei anni ha dichiarato che la strage di Piazza della Loggia non ha colpevoli: sempre una richiesta a rassegnarsi alla forza di un destino cieco e sordo.
Mi occupo della vicenda di Magosso dal 2003 quando fu pubblicato il libro “Le carte di Moro. Perchè Tobagi” da lui scritto insieme a Roberto Arlati e che fu oggetto di interrogazioni parlamentari.
Nel 2007 con alcuni articoli apparsi sul “Riformista” (10 luglio, 12 e 21 settembre) ho ricostruito con estrema puntualità la vicenda che successivamente si è arricchita di altri inquietanti sospetti da me registrati con due ulteriori articoli, il 31 ottobre e il 22 novembre 2009 sul “Manifesto” per le rivelazioni sulla morte di Manfredi De Stefano, uno dei componenti della Brigata XXVIII marzo responsabile dell’assassinio Tobagi, rivelazioni denunciate dalla figlia Benedetta nel suo volume che riporta incredibili affermazioni del giudice Caimmi all’epoca titolare dell’inchiesta.
Ma torniamo all’oggi. E’ evidente che non siamo di fronte a una banale causa di diffamazione ma a una questione cruciale di libertà di informazione e di diritto di sapere condizionata in questa occasione dal riemergere inquietante di un pezzo di storia ancora controverso del nostro Paese che qualcuno vorrebbe sepolto per sempre.
I giudici di Monza e di Milano si sono trincerati dietro il comodo paravento che il processo per l’omicidio Tobagi ha accertato la verità e che nuove rivelazioni non possono mettere in discussione il giudicato, anzi hanno in pratica sostenuto che la verità processuale impedirebbe una ulteriore ricerca storica. Secondo questi giudici, il giornalista Magosso non avrebbe dovuto pubblicare l’intervista di Dario Covolo (che durante il processo ha riconfermato senza alcun dubbio la fedeltà testuale delle frasi incriminate) o almeno ridimensionarla ricordando al lettore la sentenza e le deposizioni dell’infiltrato Rocco Ricciardi e dell’assassino Marco Barbone. Così sentenziando hanno trascurato nette pronunce delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione sulla non responsabilità del giornalista per le affermazioni dell’intervistato, sostenendo anche che il giornalista avrebbe dovuto intervistare il generale Ruffino per dargli modo di smentire la nuova versione dei fatti. Insomma i giudici hanno preteso di insegnare come si fa informazione e giornalismo cerchiobottista.
La sentenza di condanna di Magosso è profondamente sbagliata per quanto riguarda il diritto di cronaca che deve essere tutelato e garantito, ma è farisaica per il merito della questione che viene risolto accettando acriticamente le versioni ufficiali e non prendendo in considerazione innegabili fatti nuovi. Così non cogliendo anche l’opportunità di rimuovere troppi veli che ancora sembrano coprire la completa chiarificazione del caso Tobagi.
La Cassazione ha l’opportunità di correggere tutto ciò, riaffermando anche i sacri principi di libertà.

Franco Corleone

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I miei articoli Rassegna Stampa

Quale verità sulla morte di De Stefano?

Articolo pubblicato su Il Manifesto, 22.11.09

Il sospetto, il semplice sospetto, che Manfredi De Stefano, uno dei componenti della Brigata XXVIII Marzo, il gruppo responsabile dell’omicidio di Walter Tobagi, non sia morto per aneurisma ma per un suicidio inspiegabilmente occultato è un fatto di per sé scandaloso, che dovrebbe suscitare reazioni.
Invece, a parte un’interrogazione parlamentare di Elisabetta Zamparutti e due articoli de Il Messaggero Veneto di Udine del Mattino di Padova, un silenzio impressionante ha circondato la vicenda che avevo denunciato in un articolo sul manifesto del 31 ottobre scorso.
È una distrazione particolarmente inquietante in giorni così caldi per il carcere, per i misteri di troppe morti inspiegabili e di tanti suicidi veri. È ancora più clamorosa vista la contemporanea uscita del libro di Benedetta Tobagi, nelle cui pagine è presente questa rivelazione, sfuggita ai tanti recensori. In questo strano paese, gli unici che si sono scandalizzati sono i famigliari di Manfredi De Stefano; in particolare il fratello, con cui ho parlato per telefono su questa vicenda che ha riaperto una dolorosa ferita.
Innanzitutto, devo correggere un errore nel mio precedente articolo: Manfredi De Stefano, seppure condannato a 28 anni di carcere in primo grado, ebbe un ruolo marginale nell’azione terroristica e non fu l’esecutore materiale del delitto; gli assassini furono Mario Marano e Marco Barbone.
Il fratello di De Stefano è rimasto sbigottito e turbato dalle affermazioni del giudice Caimmi riportate tra virgolette da Benedetta Tobagi su Ristretti Orizzonti e nel libro autobiografico appena stampato, secondo le quali Manfredi De Stefano non sarebbe deceduto per morte naturale. Nega recisamente che la causa della morte del fratello possa essere diversa da quella certificata ufficialmente e si domanda la ragione di una menzogna propalata dal giudice istruttore del procedimento del 1981 e raccolta dalla figlia della vittima, senza effettuare peraltro alcun riscontro.
La famiglia è determinata e risoluta nella volontà di cancellare, anche con mezzi legali, quello che ritiene un oltraggio alla memoria di Manfredi De Stefano e una diffamazione attraverso la diffusione di notizie false. Per quanto mi riguarda, ho cercato di approfondire i particolari di questa storia drammatica.
Dopo essere stato detenuto per alcuni mesi a Lecco, Manfredi De Stefano fu assegnato al carcere di Udine dal 26 ottobre 2001. Da qui fu tradotto per motivi di giustizia a Milano in due occasioni. L’ultima volta fu trasferito a San Vittore il 15 settembre 1983 e rientrò a Udine il 29 novembre 1983, il giorno dopo la sentenza del processo assai contestato per il trattamento di riguardo riservato a Barbone e Morandini, in quanto «pentiti».
Il 3 aprile 1984, alle 17.30, De Stefano è in cella con altri cinque detenuti e sta giocando a carte quando di colpo si irrigidisce e viene sostenuto da uno dei suoi compagni, Loris Mason, per impedire che cada a terra. Vengono chiamati gli agenti che lo trasportano in infermeria e poi all’ospedale civile di Udine. Lì muore il 6 aprile alle 20.45 nel reparto di terapia intensiva in relazione «a stato di coma profondo da emorragia sub aracnoidea», come indicato da certificato medico in possesso del direttore del carcere.
Tutto può accadere in un’istituzione quale il carcere che non brilla certo per trasparenza. In questo caso, il complotto avrebbe visto come attori ben cinque detenuti, un brigadiere, un maresciallo, il direttore e i sanitari dell’ospedale e gli agenti del posto di polizia presso il nosocomio, cioè tutti coloro che hanno reso testimonianze o dichiarazioni scritte. Solo il dottor Giorgio Caimmi, che nel frattempo non è più magistrato, può spiegare il mistero.
Credo che Caimmi non debba aspettare l’apertura formale di un’inchiesta per dare conto della sua tesi e spiegare come e perché sarebbe stato falsificato il certificato di morte.
Se, dopo quasi trent’anni, l’ex magistrato ricorda ancora «le mani lunghe, nervose, da pianista» di De Stefano, non farà certo fatica a ricordare altri particolari: per sgombrare il campo da questi inquietanti interrogativi, che si aggiungono ai tanti che ancora circondano l’omicidio di Walter Tobagi.

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I miei articoli Rassegna Stampa

La verità sull’omicidio Tobagi

tobagi2mMartedì 13 ottobre alle ore 11,30
Circolo della Stampa, c.so Venezia, 4
Sala Lanfranchi

LA LIBERTA’ DI STAMPA E LA CONDANNA DI MAGOSSO
LA VERITA’ SULL’OMICIDIO TOBAGI E’ UN DIRITTO

Domani inizia il processo d’appello contro il giornalista Renzo Magosso e l’ex sottufficiale dei carabinieri Dario Covolo condannati per la pubblicazione sul settimanale Gente di una intervista in cui si rivelava che Tobagi avrebbe potuto essere salvato. Infatti un confidente, con il nome in codice il postino, aveva annunciato la preparazione dell’attentato contro il giornalista del Corriere della Sera. L’informativa non venne presa sul serio e il 28 maggio Walter Tobagi, senza protezione cadde sotto i colpi della banda di Barbone, che 15 giorni prima aveva ferito il giornalista di Repubblica Guido Passalacqua.
Ora, a distanza di quasi trent’anni, è venuto alla luce un documento che prova la veridicità di questa sconvolgente rivelazione.
Rompiamo la catena di errori, omertà, misteri, insipienza!
Intervengono:
Franco Corleone, già Sottosegretario alla Giustizia
Paolo Corsini, deputato del Partito Democratico
Elisabetta Zamparutti, deputata radicale
Giorgio Galli, storico e politologo
Marco Boato, già deputato verde
Presiede
Giovanni Negri, presidente dell’Associazione Lombarda dei Giornalisti
Saranno presenti Renzo Magosso e Dario Covolo