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I miei articoli Le droghe

Le droghe nell’urna

Da Fuoriluogo, di Franco Corleone – 30 marzo 2008

Sono tante le campagna elettorali a cui ho partecipato come cittadino o come militante dal lontano 1963. Confesso che questa in corso si rivela come la più mediocre e insulsa. È impressionante la mancanza di passione che si percepisce tra attori e spettatori e che non può derivare solo dal meccanismo della ignobile legge elettorale che prevede lo scontro al momento delle candidature e poi la delega del confronto mediatico ai supposti leader. Basti pensare alla intensa mobilitazione popolare di due anni fa sull’onda della speranza di cancellare l’esperienza incandescente del quinquennio di governo berlusconiano.
Il fallimento del governo Prodi viene prima della rottura traumatica della legislatura ad opera di transfughi e apprendisti stregoni. Una lunga catena di errori – dalla nomina di entrambi i presidenti di Camera e Senato, alla composizione pletorica dell’esecutivo, fino all’elezione del Capo dello Stato, senza il coinvolgimento dell’opposizione – determinata dalla incapacità di riflettere sull’esito elettorale e sul senso da dare ad una fase decisiva per la democrazia.
Avere messo da parte la sfida, seppure in condizioni difficili, della ricostruzione civile del Paese e avere dato la priorità a una visione ragionieristica della realtà economica e sociale si è rivelata come la sanzione finale della crisi della politica.
La vicenda dell’indulto si è rivelata emblematica. Doveva essere l’inizio di una stagione riformatrice con al centro l’abrogazione delle leggi criminogene su droghe e immigrazione e l’approvazione del nuovo Codice Penale e invece, di fronte all’offensiva giustizialista della stampa, anche di quella sedicente progressista, è prevalsa la paura e si è subito il ricatto securitario e il riflesso d’ordine.
Il risultato è catastrofico: l’operazione del risanamento dei conti sta riconsegnando l’Italia alla destra più estrema d’Europa e paradossalmente un’azione di rigore viene imputata alla sinistra. Contestualmente si assiste a un rafforzamento di un senso comune piccolo borghese ingaglioffito e canagliesco.
I segni sono tanti e preoccupanti. La criminalizzazione del sessantotto, l’offensiva sanfedista contro le donne e l’aborto, l’affermarsi del partito dei familiari delle vittime del terrorismo sono solo alcuni degli spettri che stanno prendendo corpo.
Siamo in pieno terremoto, le ipotesi di un decennio si sono bruciate. L’Ulivo e l’Unione hanno lasciato il campo al Partito democratico e la Sinistra è in una condizione di debolezza come mai nella storia di questo dopoguerra.
Si presenta un compito immane al cui confronto la partita elettorale è poca cosa. La ricostruzione di un pensiero e di una prospettiva di alternativa è urgente.
Ha ragione Marco Revelli a evocare un’Altra Italia, laica e intransigente.
Il tema delle droghe, praticamente assente dai programmi e dalla campagna elettorale, tranne qualche spazio di polemica fatua e ripetitiva, dovrà diventare un indicatore e un discrimine per una forza che consideri essenziali welfare e diritti, autonomia degli individui, garantismo, diritto penale minimo e mite, carcere e pena secondo i principi della Costituzione. Dipenderà da noi. Da un movimento capace di costruire egemonia su un terreno che non va lasciato all’etica da quattro soldi.
Abbiamo deciso di convocare l’Assemblea di Forum Droghe dopo il risultato delle elezioni del 13 aprile per non perdere un minuto per un nuovo inizio. Ovviamente non diamo indicazioni di voto. A chi si è appellato al voto utile rispondiamo con il richiamo al principio sempre valido e concreto della riduzione del danno.

Il SSN può migliorare condizioni detenuti

Dall’Agenzia DIRE, 18 marzo 2008

Giustizia: Corleone; il SSN può migliorare condizioni detenuti

Il Garante dei diritti dei detenuti di Firenze interviene a un dibattito all’università di Palermo: “In questo modo i detenuti saranno equiparati a normali cittadini sul piano dei servizi sanitari da garantire”.

“Diritto alla salute nelle carceri” è il titolo del dibattito che si è svolto stamattina nell’ambito del seminario “Muri da abbattere” organizzato dalla facoltà di Scienze della Formazione dell’università di Palermo. “Il carcere suscita impressioni strane, fra queste, quella di una realtà affettiva disumanizzante che mal si concilia con quella che realmente dovrebbe essere – ha spiegato Luca Bresciani, docente all’università di Pisa – . La costante di chi lavora e vive in carcere è la considerazione che questo va cambiato perché così com’è non funziona.

Da questo però nasce una sorta di ossessione correzionale finalizzata a cambiarlo e rinnovarlo. Chi si occupa di carcere, attraversando il muro, attraversa uno specchio e accetta di relazionarsi con un mondo rovesciato. Un mondo capovolto, una società non sociale. Chiediamoci quale sia il ruolo della legge in tutto questo. Soprattutto nel garantire il diritto fondamentale alla salute. Il diritto ad essere curati in carcere non è solo nell’interesse del singolo ma dell’intera collettività come precisa la legge. Il muro non può impedire il passaggio della legge”.

“Il carcere oggi potrebbe essere equiparato a un ospedale perché detiene persone malate ed è, anch’essa, un’istituzione malata – ha continuato Franco Corleone, garante dei diritti dei detenuti di Firenze -. È purtroppo un luogo di persone malate che presentano le patologie più varie, spesso provocate dall’ambiente carcerario. Ricordiamoci che il carcere non è una zona franca dal punto di vista sanitario, ma un luogo patogeno che fa ammalare se gestito in situazioni di pesante sovraffollamento.

Ricevo, per il ruolo che ricopro, molte lettere di detenuti che lamentano soprattutto le condizioni di salute nelle quali sono costretti a vivere. Il diritto alla salute è un diritto non rinviabile anzi il carcere dovrebbe creare le condizioni perché i detenuti non si ammalino. Ultimamente grazie ad alcune lettere, nel carcere di Lodigiano, sono avvenuti 100 interventi di protesi dentaria.

Ho vinto anche la battaglia che ha permesso il passaggio agli arresti domiciliari di un detenuto che pesava 120 chili. Credo che la speranza di garantire il diritto alla salute sia riposta soprattutto nel passaggio di competenze dall’amministrazione penitenziaria alla amministrazione sanitaria. Soltanto in questo modo si potranno equiparare sul piano dei servizi sanitari da garantire, i detenuti a normali cittadini. Solo l’intervento della sanità pubblica potrebbe migliorare la situazione attuale che i detenuti vivono in carcere.

Sofri, la risposta del Quirinale

 

Per evidenti e imprescindibili ragioni di trasparenza, rendo pubblica la lettera del Quirinale, in risposta alla mia missiva del 3 marzo. Avendo molte e profonde riserve e un profondo dissenso nel merito, mi astengo tuttavia per ora dal commentare il messaggio del Presidente della Repubblica.

«Illustre e caro Onorevole,
rispondo, su incarico del Capo dello Stato, alla lettera da Lei inviatagli il 3 marzo scorso e nella quale sollecita una decisione sulla pratica di grazia relativa ad Adriano Sofri.
Con la sentenza n. 200 del 2006, la Corte costituzionale ha chiarito che la grazia è istituto di natura extra ordinem destinato a far fronte a “eccezionali esigenze di natura umanitaria”, non tutelabili attraverso gli ordinari strumenti penitenziari. Nella specie, l’autorità giudiziaria ha invece concesso al Sofri una misura alternativa alla detenzione, ritenendo, per un verso, che le condizioni di salute – pur serie – non erano tali da imporre un nuovo differimento dell’esecuzione e, per altro verso, che la detenzione domiciliare era funzionabile alla fruizione delle cure necessarie e al reinserimento sociale.
Nessun elemento fa oggi ritenere che le esigenze umanitarie debbano essere garantite ricorrendo a istituti diversi da quello penitenziario in atto. A breve, inoltre, la stessa magistratura di sorveglianza dovrà riesaminare la situazione del Sofri al fine di decidere le modalità della eventuale prosecuzione della pena, ritenute compatibili con le complessive condizioni di salute.
Allo stato, non si presentano situazioni giuridicamente nuove, rispetto a quelle esaminate dal tribunale di sorveglianza nel giugno 2007, che siano tali da sollecitare e suggerire il compimento, da parte del Capo dello Stato, di ulteriori atti della procedura prevista dall’articolo 681 c.p.p.
Con la più viva cordialità».
Loris D’Ambrosio – consigliere
del presidente della repubblica

Vai all’articolo di Sara Menafra su il Manifesto del 15 marzo.

Settimo giorno di sciopero della fame

SOFRI: GARANTE DETENUTI FIRENZE, SCIOPERO FAME PER GRAZIA

(ANSA) – FIRENZE, 13 MAR – Il garante fiorentino per i diritti dei detenuti Franco Corleone e’ arrivato oggi al settimo giorno di sciopero della fame intrapreso dopo l’ invio di una lettera al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per sollecitare l’ applicazione della grazia ad Adriano Sofri.

Corleone, che oggi ha avuto un lieve malore, aveva scritto a Napolitano il 3 marzo sottolineando che la decisione, ”assolutamente personale di riprendere il digiuno di dialogo e testimonianza” viene ”offerta a Lei con fiducia e con la presunzione di aiutarla a decidere, qui e ora”. (ANSA).

Risposta a Mambo

Il Riformista di sabato 8 marzo ha pubblicato un corsivo di Giuseppe Caldarola dal titolo “La grazia per Sofri  e Contrada?” in cui viene segnalata la mia lettera a Napolitano pubblicata sul Manifesto del giorno precedente. Caldarola scrive che la grazia a Sofri è una decisione matura. E aggiunge che qualunque cosa si pensi di quegli anni e dei protagonisti di una terribile stagione di delitti, Adriano Sofri ha pagato tanti di quei prezzi da rendere ragionevole, fuori da ogni retorica perdonista, un provvedimento che lo liberi in via definitiva. Ringrazio Caldarola per l’attenzione finora assai scarsa a una iniziativa che proseguirà fino alla risposta del Quirinale.Approfitto di questo dialogo per chiarire il senso della mia lettera: Non ho chiesto o sollecitato al Presidente Napolitano la concessione della grazia ad Adriano Sofri. Ho posto invece un problema istituzionale. Chiedo di sapere se il Capo dello Stato intende esercitare le sue prerogative esclusive sulla grazia o no. Questo è il punto.Marco Pannella ha dichiarato di essere contro la grazia a Sofri. Penso di essere tra i pochi che comprendono il senso di questa affermazione. Ribadisco che non potevo accettare che la vicenda rimanesse nell’equivoco. 

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Caro presidente Napolitano, dia la grazia a Adriano Sofri

sofriCaro Presidente Napolitano,

è passato un tempo assai lungo dalla risposta che il Consigliere Loris D’Ambrosio mi inviò il 3 novembre 2006 in relazione alla lettera che Le avevo inviato il 26 settembre dello stesso anno, nella quale Le chiedevo di assumere in prima persona l’iniziativa autonoma per una scelta ormai matura della grazia a Adriano Sofri.
Il Consigliere D’Ambrosio riaffermava giustamente che la sentenza n. 200 del 2006 della Corte Costituzionale aveva fatto definitiva chiarezza sul potere esclusivo del Presidente della Repubblica sulla titolarità e esercizio del potere di clemenza individuale; e aggiungeva che in ordine alla pratica di grazia di Adriano Sofri «l’esistenza di situazioni nuove – connesse allo stato di salute e all’applicazione della legge sull’indulto – imponeva aggiornamenti istruttori indispensabili al Capo dello stato per l’ulteriore corso della relativa procedura».
Immediatamente risposi ringraziando per gli apprezzamenti ai contributi di studio da me offerti in questi anni per la più corretta interpretazione costituzionale dell’istituto della grazia. Offrii anche il quadro della posizione giuridica di Sofri: calcolando la concessione dell’indulto e i giorni di liberazione anticipata, il periodo di detenzione avrebbe avuto ancora una durata di ben sette anni. Al tempo Adriano Sofri era in regime di sospensione della pena per la gravissima malattia che l’aveva colpito durante la reclusione nel carcere di Pisa: poco dopo la sospensione è stata trasformata in detenzione domiciliare sulla base di una decisione autonoma del Tribunale di Sorveglianza di Firenze che scadrà il prossimo giugno. A oggi il residuo pena da espiare di Adriano Sofri supera i cinque anni.
Concludevo la mia lettera del settembre 2006, esprimendo fiducia nella rapida conclusione degli aggiornamenti istruttori e nell’emanazione del decreto in tempi ravvicinati. Così non è stato, nel frattempo altre tragedie sono accadute nella vita di Adriano Sofri a rendere la situazione più insostenibile.
Per ragioni di rispetto istituzionale e aderendo alle sollecitazioni di chi mi invitava a rispettare un silenzio certamente riflessivo e operoso, ho atteso fiducioso una sua iniziativa, insieme alle migliaia di uomini e donne che per oltre 1.500 giorni parteciparono a un digiuno a staffetta per affermare le ragioni di un diritto mite.
A distanza di un anno e sei mesi, mi sono convinto che le ragioni dell’attesa non sussistono più e non desidero attendere inerte il protrarsi di una vicenda iniziata con la mia prima lettera indirizzata al Presidente Ciampi il 27 novembre 2001: con il rischio di un’ipocrita assuefazione allo scandalo di uno stato di detenzione inutile che continua.
Nella risposta, il Consigliere giuridico Salvatore Sechi scrisse allora che «il Presidente Ciampi è consapevole della mutazione teleologica che la pena subisce quando venga irrogata a lunga distanza di tempo dai fatti»; ribadendo, sempre a nome del Presidente, l’esigenza di chiudere definitivamente capitoli dolorosi della storia della Repubblica attraverso il formarsi di un largo consenso politico e sociale. Il caso non poté concludersi positivamente per l’ostruzionismo dell’allora ministro della giustizia Roberto Castelli che costrinse il Presidente – già «con la penna in mano» per firmare la grazia, com’ebbe a dichiarare – a sollevare il conflitto di potere, risolto in seguito felicemente dalla Corte Costituzionale.
Viviamo un tempo di imbarbarimento giuridico e di «incattivimento» della società, come dimostra la criminalizzazione di una misura giusta e doverosa come l’indulto. Ciò deve spingere a atti di generosità che possano alimentare uno spirito di riconciliazione di cui l’Italia ha un estremo bisogno.
Caro Presidente, per evitare qualsiasi strumentalizzazione e magari il rinnovellarsi di polemiche insulse, voglio sottolineare che non intendo affatto esercitare una pressione indebita a favore della concessione della grazia a Sofri: il senso del mio messaggio sta in un pressante invito a esercitare le Sue prerogative costituzionali, in qualsiasi direzione intenda pronunciarsi. Per quanto mi riguarda, come cittadino impegnato da anni su una delicata questione politica e costituzionale, non posso far finta di nulla e rassegnarmi nell’ignavia al clima del paese.
La decisione, assolutamente personale, di riprendere un digiuno, di dialogo e di testimonianza, viene offerta a Lei, con fiducia e con la presunzione di aiutarLa a decidere, qui e ora.
L’Italia è stata protagonista della battaglia di civiltà per l’affermazione della moratoria della pena di morte in sede Onu e Lei, signor Presidente, ha sostenuto e condiviso questa iniziativa. So che Lei, custode e garante della Costituzione, apprezza l’articolo 27 sul carattere delle pene, che non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità in vista del reinserimento sociale del condannato e in nome di una convivenza che ripudi l’odio e la vendetta. I principi vanno inverati e riaffermati proprio quando rischiano di indebolirsi nella coscienza collettiva: il digiuno ha, in questa occasione, con assoluta semplicità solo il significato di dare corpo a un impegno civile. Spero con questo di aiutarLa nella riflessione, nel pieno rispetto di quella che il costituzionalista Ernesto Bettinelli chiama la «necessaria e virtuosa solitudine» del Capo dello Stato. Sono sicuro che anche in questa occasione, la Repubblica con i cittadini tutti, uomini e donne, Le sarà riconoscente.
In attesa di un Suo pronunciamento, Le invio il mio saluto più cordiale.

Franco Corleone

Da il Manifesto del 7 marzo 2008.

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I miei articoli Le droghe

Ma io insisto: depenalizzare

Articolo di Franco Corleone tratto da Repubblica Salute 31 gennaio 2008

Una guerra per essere dichiarata ha bisogno del consenso dell’opinione pubblica e a questo scopo si ricorre alla propaganda e ai tecnici della disinformazione. La guerra alla droga non si sottrae a questa regola. In particolare la demonizzazione della canapa  negli anni ’30 negli Stati Uniti vide come artefice Harry Aslinger impegnato nella costruzione di un poderoso castello di menzogne che ancora reggono il tabù del proibizionismo.
Nel corso dei decenni sono stati periodicamente spacciati diversi miti sulla marijuana: i due studiosi americani Zimmer e Morgan (Marijuana, miti e fatti, Vallecchi, 2005) ne hanno analizzati ben venti e li hanno sottoposti a una rigorosa analisi rispetto alla loro fondatezza scientifica. Sulla base dell’esame della letteratura mondiale, sono stati smontati uno a uno.
Recentemente è stato rilanciato l’allarme secondo cui la marijuana causerebbe l’insorgere della schizofrenia e per giustificare questo assunto si sostiene che lo spinello di oggi non è più quello degli anni sessanta e sarebbe talmente potente da non poter essere più classificato come droga leggera.
Lester Grinspoon, psichiatra di Harvard e il più autorevole studioso di canapa, contesta la fondatezza che una malattia mentale possa essere provocata da una sostanza come la marijuana. Ricorda anche studi pubblicati addirittura negli anni settanta da prestigiose riviste come Lancet e Nature che si rivelarono errati e imbarazzanti. Grinspoon sostiene invece che persone  avviate a diventare depresse o  schizofreniche usando la marijuana praticano di fatto una sorta di automedicazione.
Chi conosce l’asservimento al potere della scienza, o almeno di molti, troppi scienziati non si stupisce di ricerche che danno ragione al committente, mentre i Rapporti  Roques e Nolin rispettivamente del Ministero della Sanità francese e del Senato canadese confermano la minore pericolosità della canapa rispetto all’alcol e al tabacco.
Veniamo ai dati. L’Osservatorio europeo di Lisbona (Emcdda) fissa il range della potenza dell’erba tra lo 0,6 % di contenuto di Thc in Polonia e il 12,7% dell’Inghilterra, mentre per le produzioni locali in Olanda viene stimato al 17,7%.
La Relazione sullo stato delle tossicodipendenze in Italia diffusa nel 2007 afferma la presenza di un valore medio inferiore al 10%. Siamo dunque ben lontani dall’aumento denunciato di ben venticinque volte!
Non voglio certo negare i rischi che livelli alti di consumo anche di canapa possano provocare. Sostengo però che i danni della repressione penale sono ben maggiori di quelli del consumo della sostanza criminalizzata. Dal 1973 ad oggi più di cinquecentomila persone sono state segnalate all’autorità giudiziaria  per detenzione di canapa e nel 2006 con la nuova legge Fini-Giovanardi il rischio di condanne per spaccio presunto con pene da sei a venti anni di carcere riguarda quasi trentamila persone. Le segnalazioni al prefetto per semplice consumo nel 2006 sono state oltre 55.000 di cui il 75% per marijuana.
Solo la depenalizzazione del consumo di sostanze stupefacenti e la legalizzazione della canapa può liberare la scienza e sconfiggere le concezioni magiche favorendo un confronto non ideologico e non strumentale.

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Agenda

La Carnia si muove, l’elettrodotto si ferma. Esce l’Arco in Cielo.

Un brindisi con vin, pan e salam! Sabato18 marzo alle ore 18 incontro per festeggiare il nuovo numero dell’Arco in Cielo con tutti i collaboratori e i lettori che vorranno essere presenti alla Libreria con Cucina a Cercivento.
E’ già on line in formato pdf il numero 9 de l’Arco in Cielo dedicato ancora al traliccio della Valle del But, ma non solo. Scarica il numero (pdf, 649kb) e il paginone (pdf 361kb).

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Paluzza: i risultati del questionario

Tutti i lettori residenti a Paluzza hanno ricevuto, insieme all’ultimo numero de L’Arco in Cielo, un questionario sui problemi della vita cittadina e sul futuro. Chiediamo a tutti di contribuire con le proprie proposte alla formulazione di un patrimonio di idee utili per chi si candiderà a governare il Comune. Coloro che desiderassero altri questionari da compilare per i propri familiari, possono richiederli presso i centri raccolta indicati e, dopo la compilazione, riconsegnarli nei medesimi centri. Il questionario è terminato il 27 gennaio 2004. Ecco i risultati in formato pdf (264 kb).

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Le carceri Le droghe Rassegna Stampa

Giustizia, l’Ulivo allo specchio

POLITICA O QUASI
Giustizia, l’Ulivo allo specchio

IDA DOMINIJANNI, da il Manifesto del 24 aprile 2001

Fra le cartine di tornasole che si possono scegliere per fare l’analisi chimica della stagione di governo del centrosinistra, quella della giustizia resta una delle più efficaci se non la più efficace. E non solo per il merito delle cose che sono state fatte e di quelle che non si sono fatte o non si sono potute o volute o sapute fare. Ma anche perché più di altri capitoli dell’agenda politica lascia vedere in trasparenza le condizioni peculiari in cui la XIII legislatura e i tre governi dell’Ulivo hanno lavorato. Tre in primo luogo: uno scontro ideologico aspro con il Polo, sull’alternativa fra garantismo a uso dei potenti o a tutela di tutti, e uno scontro più sotterraneo, dentro la maggioranza, fra cultura garantista e cultura panpenalista; uno scarto devastante fra il clamore mediatico sugli aspetti più eclatanti del primo scontro e la povertà di informazione sulle riforme realizzate e sul loro andamento; la crescente subalternità di tutta la politica agli umori dell’opinione pubblica, unita alla difficoltà di rapportarsi a una società troppo segnata, in materia di giustizia e sicurezze, dalle vecchie tare moraliste verso i deboli e lassiste verso i forti e dalle nuove fobie indotte dalla modernizzazione e dalla globalizzazione. Tutte condizioni che, viste a distanza di tempo, renderanno più equo di quanto non sia ora, nel bene e nel male, il giudizio sulle luci e le ombre del quinquennio dell’Ulivo, e che intanto sarebbe bene tenere presenti prima di votare, o non votare, sulla base di spinte puramente identitarie o, peggio, punitive.
Queste coordinate del contesto in cui il centrosinistra ha operato emergono lucidamente nel breve ma prezioso volumetto La giustizia come metafora (edizioni Menabò) che Franco Corleone, sottosegretario uscente alla giustizia, ha pubblicato negli stessi giorni in cui lui stesso, e con lui tutta la pattuglia dei parlamentari garantisti del centrosinistra, restavano fuori dalle candidature per il prossimo parlamento. Il volumetto assumerebbe dunque un valore alquanto noir di testamento, se la pratica che lo attraversa non facesse subito sperare in una prosecuzione extraparlamentare, per così dire, dei fatti e delle intenzioni che lo abitano. Si tratta infatti di una pratica relazionale, esplicitata non solo nella forma del dialogo-intervista di Corleone con Luca Paci, nei tre interventi di Stefano Anastasia, Sandro Margara e Eligio Resta che la commentano e nella prefazione di Piero Ignazi, ma anche nei molti riferimenti di Corleone ad altri protagonisti di una buona politica e di una buona cultura della giustizia di questi anni (Saraceni, Salvato, Senese, Cascini, Ferrajoli, Palombarini, Coiro, Rodotà, Boato, Arnao, il cardinal Martini sul versante carceri, il ministro Veronesi sul versante droghe), ad alcune associazioni che per una buona politica della giustizia non si stancano di lavorare (Antigone, il comitato per i diritti civili delle prostitute, il Forum droghe, il gruppo Abele, la redazione di Fuoriluogo), ad alcuni momenti alti del dibattito (gli Stati generali dei Ds del ’98), e infine ad alcune vittime-simbolo di una cattiva politica della giustizia (Adriano Sofri). Una tessitura di relazioni e di lavoro che la fine dell’esperienza di Corleone a Via Arenula e a Montecitorio non basteranno, oso pensare, a vanificare.
Ma il libro è trasparente anche nell’onestà del bilancio che delinea, fra fatti e omissioni, decisioni prese e insufficienze culturali non colmate, efficienza guadagnata e scelte di fondo rinviate. Corleone rivendica in primo luogo l’investimento, di risorse e di iniziativa legislativa, che sulla giustizia è stato dispiegato dal centrosinistra, dopo decenni di inerzia. All’inizio della legislatura c’era l’annunciata bancarotta della macchina giudiziaria; oggi ci sono il giudice unico di primo grado, le sezioni stralcio per l’arretrato civile, gli organici della magistratura rinsaldati, i tribunali metropolitani, la competenza penale dei giudici di pace, il giusto processo riformato, e ci sarebbe l’unità della giurisdizione se il lavoro della bicamerale non fosse stato mandato a carte quarantotto da Berlusconi. Ci sarebbero anche le riforme della responsabilità disciplinare e del giudizio di professionalità dei magistrati, se le difese corporative della magistratura, alimentate e rafforzate anch’esse da Berlusconi, fossero state meno forti. Così per quanto riguarda l’ordinamento e il funzionamento della macchina. Che non andrà mai a regime tuttavia, sottolinea Corleone e con lui Anastasia, senza quella riforma del codice penale in direzione del penale minimo che sola può lavorare a favore della certezza dei reati e della pena, nonché di quella obbligatorietà dell’azione penale di cui Berlusconi vorrebbe rapidamente disfarsi.
Poi ci sono capitoli ancora più controversi. Il carcere, prima di tutto, sul quale bisogna sempre rifare tutto il discorso da capo: tornare a dire che cosa il carcere è e che cosa non è (“un luogo orribile per sua natura e funzione, un male che pretende di curare quand’invece produce malattia, un rimedio da amministrare contrasparenza e somministrare con prudenza, il problema del cuore della città” e non il luogo della rimozione e dell’emarginazione fuori dalle mura della città), registrare che cosa si è riusciti a migliorare (il nuovo regolamento voluto da Corleone, ma decurtato di quel diritto all’affettività che non ne costituiva un particolare secondario) e che cosa resiste a ogni tentativo illuminato di riforma (leggere per credere la testimonianza di Margara, che non esita a definire genuinamente reazionarie, anche quando abitano la sinistra, queste resistenze). E poi ancora tutte le “questioni di confine” – dalla sicurezza alla legislazione sulle droghe alle questioni di bioetica all’indulto – che sono state e restano paragrafi cruciali del capitolo giustizia: le più sintomatiche di un deficit culturale della sinistra sul banco di prova decisivo della libertà, e sulle quali più necessario sarebbe stato, e non c’è stato, il coraggio di imporre alcune scelte contro il senso comune massmediatico. Si può sperare in una provad’appello: se e solo se, come scrive Eligio Resta, tra politica e cultura il confine tornerà ad essere una linea di comunicazione e non una insormontabile barriera.

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