Ho avuto conferma che il piano di ristrutturazione delle linee degli autobus riguarda anche la linea 27, che raggiungeva il carcere di Sollicciano. La soppressione della fermata per il carcere è assolutamente inaccettabile in quanto colpisce le famiglie dei detenuti che si recano in Istituto per i colloqui e che in molti casi vengono da altre città o addirittura da regioni lontane e che non possono permettersi mezzi più costosi. Il taglio colpisce anche gli operatori che lavorano in carcere, soprattutto la Polizia Penitenziaria.
Il mondo di Sollicciano comprende mille detenuti e un numero equivalente tra personale e volontari.
Mi auguro che la Provincia di Firenze e il Comune di Scandicci intervengano per ripensare una scelta che danneggia persone già svantaggiate e soprattutto che dà un segnale di abbandono e trascuratezza verso il carcere.
Categoria: In Primo Piano
L’articolo di Franco Corleone per la rubrica di Fuoriluogo sul Manifesto del 12 gennaio 2010. La lezione di Aldo Moro “La funzione della pena”, pubblicata nel volume Contro l’ergastolo, Ediesse, 2009, su www.fuoriluogo.it
C’era una volta Cesare Battisti, l’esponente dell’irredentismo trentino impiccato dagli austriaci il 12 luglio 1916. Oggi, a causa di una irriverente omonimia, la memoria del martire è cancellata a vantaggio di un protagonista minore della lotta armata. Anche questo esito è conseguenza certamente non voluta dell’orgia di parole sopra tono, delle speculazioni interessate, delle minacce altisonanti.
In un paese serio, la sua classe politica avrebbe reagito diversamente alla decisione del Presidente Lula di negare l’estradizione per un cittadino italiano condannato all’ergastolo per la responsabilità diretta o morale di quattro omicidi compiuti nel 1978. L’utilizzo di termini come “schiaffo all’Italia” o di “insulto alla giustizia” o addirittura di “attacco alla democrazia” sono il segno caratteristico di un paese dalla tenuta nervosa fragile e dalla tendenza vittimistica e isterica.
L’Italia avrebbe dovuto cogliere l’occasione offerta dal Brasile per fare i conti più che con la storia del terrorismo, delle leggi speciali, insomma con il passato, quanto meno con il suo presente.
La gran parte della stampa ha dato una pessima prova di disinformazione abbandonandosi alla più vieta propaganda: il complotto giudaico massonico questa volta è stato sostituito dalla protervia di un paese “inferiore”: senza che nessun giornale “indipendente” abbia ritenuto di fornire in maniera completa le ragioni del rifiuto di accedere alla richiesta di estradizione da parte del governo brasiliano e poi di Lula. Cosicché la decisione brasiliana appare un segno di stravaganza, quasi un dispetto. E invece vale la pena di capire perché un grande paese è disposto a mettere a rischio i rapporti economici e strategici con un partner importante: se non è un capriccio vi devono essere motivi che ci devono interrogare.
Mauro Palma e Alessandro Margara ( Manifesto, 31/12 e 7/1) hanno messo in luce i due punti che suscitano la contrarietà del Brasile: il fatto che l’Italia conservi la pena dell’ergastolo e la mancata ratifica del protocollo addizionale alla convenzione contro la tortura (che prevede un meccanismo ispettivo sovranazionale e l’istituzione di una autorità garante dei diritti dei detenuti).
Sono davvero questioni così irrilevanti da non meritare un confronto? Antonio Cassese, acuto giurista e paladino dei diritti umani, è incorso in un errore grave sostenendo che per la pena dell’ergastolo esistono forme di detenzione alternativa, delle quali Battisti potrebbe usufruire. Non è così, in quanto i suoi reati rientrano fra quelli previsti dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, che non consentono la liberazione condizionale. Ciò dimostra, se mai ce ne fosse stato bisogno, che in Italia l’ergastolo non è una finzione giuridica, come si vorrebbe far credere, anzi è una realtà pregnante (perfino in aumento negli ultimi anni). Con la stessa logica con cui l’Italia si rifiuta di consegnare un prigioniero ad un paese che prevede la pena di morte poiché estranea al suo ordinamento, così il Brasile si comporta per l’ergastolo.
Questo caso non si può risolvere in una bulimia di proclami, di ritorsioni e di boicottaggi più esilaranti che gravi. Deve invece essere una occasione per affrontare i nodi che sono emersi e che si vogliono nascondere sotto la coperta della lotta al terrorismo. Oltre ad esprimere delusione e rammarico, il presidente Napolitano potrebbe compiere degli atti concreti di sua esclusiva competenza per rimuovere gli equivoci: ad esempio, annunciare la commutazione dell’ergastolo di Battisti in una reclusione congrua e invitare il Parlamento ad adempiere a quegli obblighi internazionale che le associazioni che si occupano di carcere, giustizia e diritti chiedono da anni. Allora la richiesta di estradizione avrebbe maggiore forza e legittimità sostanziale. Questa è la vera questione su cui l’opposizione dovrebbe incalzare il governo, senza farsi sedurre dall’urlo del topo di Frattini e La Russa e infilarsi in polemiche giuste, ma minori, sulla scarsa credibilità internazionale dell’Italia.
L’ammonimento ai giovani di Aldo Moro a proposito dell’ergastolo, “Ricordatevi che la pena non è la passionale e smodata vendetta dei privati”, è un monumento del pensiero giuridico umanistico da cui non si dovrebbe prescindere mai.
ll carcere di Sollicciano è in via del Pantano, Firenze. Da malum situ deriva il nome del Maliseti, la casa circondariale di Prato. Simbologie, forse, ma molto della realtà penitenziaria richiama la supina ammissione dell’inappetibilità del sistema carcerario. In un convegno di due giorni che si è concluso ieri al Senato, il tema del senso della pena ha preso forma legandosi a doppia mandata a quello dell’architettura penitenziaria. Con il titolo “Architettura versus edilizia” la Società della ragione, in collaborazione con l’associazione Antigone, la Fondazione Michelucci e il Forum droghe, ha tentato di guidare la riflessione all’interno degli spazi chiusi delle prigioni. Con l’auspicio di superarli.
I corpi
Le carceri sono sovraffollate, lo si ripete da tempo. Il già procuratore di Venezia Vittorio Borraccetti lo ha ricordato ieri: 48.693 persone alla fine del 2007, 64.971 al 31 dicembre 2009. Oggi siamo quasi a quota 70mila. Circa un terzo di essi, ha conteggiato il magistrato, sconta un massimo di 10 giorni. Arrestati in flagranza di reato o sottoposti a misura cautelare, il 30 per cento dei detenuti passa attraverso una porta girevole. «Il nostro ordinamento prevede già delle norme che possono impedire l’ingresso in carcere», ha ammonito Borraccetti. «Bisogna tuttavia convincere le forze di polizia e i pubblici ministeri ad applicarle». Quando a parlare è un detenuto d’eccezione, Adriano Sofri, subito si offre l’immagine della piccola cella che lo ha ospitato per nove anni a Pisa dove oggi vivono in tre. Dietro l’ammassamento in spazi ridottissimi, secondo il professore di filosofia del diritto Eligio Resta, riposa «l’idea dell’economia politica dei corpi». Non l’esercizio di un controllo sul delinquente, ma di un «biopotere sul corpo». Ed ecco che la privazione di esigenze primarie finiscono per aggiungere sofferenza alla pena, attentando alla dignità dell’uomo che, ha spiegato il filosofo, «non solo costituisce il punto di riferimento del Costituzionalismo moderno, ma significa il diritto a non essere sottoposti a sofferenze gratuite in cui non è possibile riconoscersi come essere umani». Il garante dei detenuti di Firenze, Franco Corleone ricorda i numeri della sua Toscana: nel 2009, 2.318 “eventi critici”, di cui 9 decessi, 8 suicidi, 155 fermi al tentativo e 974 casi di autolesionismo.
Gli spazi
«L’edilizia penitenziaria non si studia nelle scuole di architettura», ha denunciato Cesare Burdese, architetto torinese autore di molti progetti per i servizi ai detenuti. Ciò che è contenuto nei capitolati del ministero della Giustizia è «tanto preciso per quanto riguarda celle, finestre e altri spazi di sicurezza», ha continuato il collega Corrado Marcetti, direttore della Fondazione Michelucci, «quanto del tutto disinteressato agli ambienti per la socialità, i colloqui, il lavoro». Quest’ultimi diventati una rarità perché, a causa della crescita della popolazione detenuta, si è realizzata «un’iperintensificazione delle carceri già esistenti, con nuovi padiglioni aggiunti all’interno dei recinti già esistenti». L’atmosfera di soffocamento che si respira anche fuori, ha segnalato l’architetto Scarcella, tecnico del ministero, ha fatto assomigliare il carcere «alla gabbia per il leone o al forno per il coniglio». Se lo spazio ha una funzione ideologica e simbolica, il presidente del Comitato europeo contro la tortura Mauro Palma lo definisce «infantilizzante», il non-luogo dove il detenuto «viene fatto regredire». Nessuno spazio per l’affettività, come ha denunciato la psicologa Grazia Zuffa di Fuoriluogo, nessun rispetto per l’autonoma deliberazione della persona. Il carcere sembra obbligato per legge ad essere un luogo brutto e disumano. Con la frustrazione dei tecnici che, lavorando per anni a un progetto, non sono interpellati quando la struttura viene modificata. Tutto molto lontano da quello che insegnava Michelucci: «Commissionatemi la progettazione di una città», rispondeva a chi chiedeva di costruire un penitenziario.
I modelli
Lo schema oggi imperante è quello del «carcere più lontano», non solo separato dalla città ma più isolato, nella periferia, presso gli snodi stradali (porti e autostrade). La «periferizzazione», ha spiegato Marcetti, è iniziata «a fine ‘800 e si è consolidata nel ‘900 per motivi di tipo igienico-sanitario e affinché l’istituto fosse separato dal tribunale». Questa delocalizzazione si sta spingendo perfino al subappalto della questione detentiva ad altri Paesi, come la Libia per esempio. Negli anni Settanta, alla vigilia della riforma del 1975 che ha innovando l’ordinamento penitenziario aprendo ad alternative alla reclusione, nascono le carceri nuove: la moderna architettura tenta il superamento del carcere a ballatoio, dei corridoi dritti, della rigidità degli schemi in genere. Sergio Lenci, il gruppo Mariotti, Giovanni Michelucci, Mario Ridolfi hanno segnato una stagione dell’architettura penitenziaria che Scarcella ha definito «irripetibile». Quel modello che aveva spinto a cambiare anche il materiale di realizzazione, tuttavia, si è scontrato con la storia d’Italia. Il “carcere della speranza” ha lasciato il posto alle esigenze degli anni della Tensione, degli inasprimenti sanzionatori, dell’emergenza terroristica e del carcere duro. Dal 1977 in poi sono venuti alla luce circa 80 strutture «tutte uguali, fatte con il timbro, in luoghi isolati che di notte sono allarmanti», ha polemizzato Marcetti. Il tentativo di costruire spazi di cerniera con la società libera è definitivamente tramontato. E quel timore diffuso nell’opinione pubblica, così come la mano forte dello Stato nel gestire l’emergenza, rischiano di tornare ad essere attuali.
Il Piano
E’ il 29 giugno 2010 quando il Piano per l’edilizia penitenziaria viene definitivamente vistato. Ma, ha pronosticato la senatrice Pd Anna Finocchiaro, «prima di tre anni non ne vedremo niente», soprattutto perché «nella legge di stabilità non c’è alcuna copertura per la sua realizzazione». Nella sua storia, il progetto edilizio proposto da Alfano ha attraversato molte tappe: commissariamento ad hoc, adozione di un programma di interventi, la dichiarazione dello stato di emergenza e il piano edilizio completo. A quasi due anni dal primo annuncio, ha spiegato il difensore civico dei detenuti Stefano Anastasia nella sua relazione, il progetto finale ha subito «un sensibile ridimensionamento». Degli oltre 17mila posti promessi nella prima versione, amplificati a 22mila nella seconda, ecco che la terza formulazione è davvero più modesta: 9.150 posti detentivi da realizzare, finanziati con i 610 milioni di euro di cui sin dalle origini si era assicurata la disponibilità. «In tutto questo tempo il governo non ha trovato altri fondi», ha sottolineato il ricercatore, lasciando l’uditorio con questa domanda: «Quale idea insiste dietro un indirizzo politico irrealizzabile e fallimentare rispetto allo scopo prefisso?». Perché è certo, le nuove 11 carceri e i 20 padiglioni in ampliamento di istituti esistenti non riusciranno ad arginare il sovraffollamento delle strutture, che corre al tasso del 152 per cento.
La famiglia Cucchi, una come tante
La sorella del ragazzo morto nell’ottobre 2009 ha presentato in città “Vorrei dirti che non eri solo”
Venerdì sera presso la Sala della musica dell’ex convento di San Paolo, Ilaria Cucchi ha presentato il libro scritto con Giovanni Bianconi “Vorrei dirti che non eri solo”. Ad aprire la presentazione è stato il vicesindaco Massimo Maisto con un breve saluto ai presenti.
A un anno dalla scomparsa di Stefano Cucchi, la sorella Ilaria racconta la storia di una famiglia italiana come tante, con le debolezze e i difficili rapporti con un ragazzo che a periodi entra ed esce dal tunnel della droga.
Un libro toccante che non nasconde nulla, ricco di unicità, ma che richiama un tema purtroppo comune a molte famiglie, come ha sottolineato Franco Corleone, presidente della Società della Ragione Onlus e Garante per i diritti dei detenuti.
La presentazione di Ilaria Cucchi, breve e spontanea, ha messo in luce una totale consapevolezza della “difficile situazione” del fratello che era “alla continua ricerca della propria libertà”; e il titolo stesso del libro “è la dimostrazione di come la sua famiglia provi tutt’oggi un senso di colpa per quei sei giorni in cui Stefano restò in carcere, abbandonato”.
Durante il suo intervento Corleone ha richiamato inoltre l’attenzione al problema del “pregiudizio verso la tossicodipendenza, come causa scatenante di queste tragedie, in cui spesso i ragazzi coinvolti, da vittime diventano colpevoli della propria morte, perché considerati cittadini non a pieno titolo in quanto tossicodipendenti”.
Questo tema è emerso anche nell’intervento di Patrizia Moretti, mamma di Federico Aldrovandi, ormai diventata supporto morale da cui Ilaria trae forza e tenacia per arrivare alla verità. Due donne che vogliono semplicemente capire la verità, non per vendetta ma per denunciare le loro storie, decidendo anche di pubblicare foto forti e scioccanti, per svegliare le coscienze e fare in modo che non accada nuovamente.
Alla presentazione è intervenuto anche l’avvocato ferrarese Fabio Anselmo, che dopo aver difeso la famiglia Aldrovandi è stato scelto quale legale anche dalla famiglia Cucchi. Secondo Anselmo il sistema giudiziario che governa questi casi è “minato da un problema culturale presente nelle istituzioni, che troppo spesso davanti a queste situazioni si “chiudono a riccio” cercando di salvaguardare l’immagine a difesa di chi viene processato, spesso interferendo nel processo e creando un disagio psicologico alle famiglie delle vittime”.
Il pm di Firenze Giuseppe Bianco ha disposto l’acquisizione dei dati relativi ai decessi dei pazienti dell’ospedale psichiatrico detenuti fra il 2005 e il 2010. All’esame del pubblico ministero anche esposti relativi a maltrattamenti
Da Repubblica Firenze, di FRANCA SELVATICI
Il pm di Firenze Giuseppe Bianco, titolare con il procuratore Giuseppe Quattrocchi del fascicolo di inchiesta sull’ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) di Montelupo Fiorentino, ha disposto l’acquisizione dei dati relativi ai decessi dei pazienti detenuti fra il 2005 e il 2010. Per ricostruire la situazione dell’Opg, il magistrato ha chiesto notizie al Provveditorato regionale della amministrazione penitenziaria e al Centro regionale Salute in carcere diretto dal professor Giraudo, che ha già mandato diverse relazioni. All’esame del pm anche esposti di pazienti che hanno denunciato maltrattamenti al garante dei detenuti Franco Corleone.
L’indagine è stata aperta in seguito alla segnalazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla efficienza del Sistema Sanitario Nazionale, presieduta dal senatore del Pd Ignazio Marino, che ha compiuto un primo sopralluogo a sorpresa nell’Opg il 22 luglio scorso, e che ha eseguito un nuovo controllo ispettivo il 21 novembre, esaminando anche la gestione dei farmaci. Durante la prima visita ispettiva, i parlamentari, accompagnati dai carabinieri del Nas, hanno trovato una situazione strutturale molto grave: reparti fatiscenti, servizi igienici in pessime condizioni, un drammatico sovraffollamento. “L’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo è una struttura da chiudere”, dichiarò il senatore Marino.
Nel corso di alcune audizioni in commissione, il direttore sanitario della Asl di Empoli Enrico Roccato, il direttore sanitario dell’Opg Franco Scarpa e lo psichiatra Luca Bigalli, che lavora nell’ospedale, hanno illustrato le difficoltà incontrate quotidianamente per provvedere e possibilmente curare circa 170 malati di mente autori di reati talvolta anche assai gravi. Chiudere Montelupo e trasferire i malati a Solliccianino, come è stato ipotizzato, sarebbe probabilmente una scelta giusta, resa però estremamente difficile dal sovraffollamento carcerario.
Articolo pubblicato da il Manifesto il 23 novembre 2010
Oggi, 23 novembre in Cassazione è in gioco il diritto all’informazione e il diritto alla ricerca della verità da parte di giornalisti, storici, politici e, in ultima analisi, cittadini rispettosi della Costituzione e amanti di una democrazia trasparente su vicende drammatiche che hanno insanguinato la nostra Repubblica.
Si tratta del caso che riguarda il giornalista Renzo Magosso condannato in primo grado a Monza e in Appello a Milano nella causa per diffamazione intentata contro di lui (e contro il direttore del giornale Umberto Brindani) dal generale Ruffino e dalla sorella del defunto generale Bonaventura per avere pubblicato sul settimanale “Gente” del 17 giugno 2004 una intervista a un sottufficiale dei carabinieri dell’epoca, Dario Covolo, che dichiarava di avere presentato sei mesi prima dell’omicidio del giornalista Walter Tobagi una nota informativa sulla progettazione di questa azione criminosa: l’accusa, estremamente grave è che i suoi superiori per superficialità, insipienza o per inconfessabili motivi la trascurarono e non fecero nulla per impedire l’attentato.
Mi auguro che quuesta vicenda non venga seppellita definitivamente: al contrario che venga riaperta doverosamente per rispetto della legge e per non dare ragione a chi vuole intimidire e ridurre al silenzio, con un metodo vile e addirittura teorizzato, quello dell’esosità di multe e risarcimenti, le voci coraggiose che non si rassegnano alla verità di comodo e alla implicita richiesta di salvaguardia di interessi di corpi, servizi e corporazioni.
Per una pura coincidenza inoltre la sentenza della Cassazione giunge quasi in concomitanza con la sentenza della Corte d’Appello di Brescia che dopo trentasei anni ha dichiarato che la strage di Piazza della Loggia non ha colpevoli: sempre una richiesta a rassegnarsi alla forza di un destino cieco e sordo.
Mi occupo della vicenda di Magosso dal 2003 quando fu pubblicato il libro “Le carte di Moro. Perchè Tobagi” da lui scritto insieme a Roberto Arlati e che fu oggetto di interrogazioni parlamentari.
Nel 2007 con alcuni articoli apparsi sul “Riformista” (10 luglio, 12 e 21 settembre) ho ricostruito con estrema puntualità la vicenda che successivamente si è arricchita di altri inquietanti sospetti da me registrati con due ulteriori articoli, il 31 ottobre e il 22 novembre 2009 sul “Manifesto” per le rivelazioni sulla morte di Manfredi De Stefano, uno dei componenti della Brigata XXVIII marzo responsabile dell’assassinio Tobagi, rivelazioni denunciate dalla figlia Benedetta nel suo volume che riporta incredibili affermazioni del giudice Caimmi all’epoca titolare dell’inchiesta.
Ma torniamo all’oggi. E’ evidente che non siamo di fronte a una banale causa di diffamazione ma a una questione cruciale di libertà di informazione e di diritto di sapere condizionata in questa occasione dal riemergere inquietante di un pezzo di storia ancora controverso del nostro Paese che qualcuno vorrebbe sepolto per sempre.
I giudici di Monza e di Milano si sono trincerati dietro il comodo paravento che il processo per l’omicidio Tobagi ha accertato la verità e che nuove rivelazioni non possono mettere in discussione il giudicato, anzi hanno in pratica sostenuto che la verità processuale impedirebbe una ulteriore ricerca storica. Secondo questi giudici, il giornalista Magosso non avrebbe dovuto pubblicare l’intervista di Dario Covolo (che durante il processo ha riconfermato senza alcun dubbio la fedeltà testuale delle frasi incriminate) o almeno ridimensionarla ricordando al lettore la sentenza e le deposizioni dell’infiltrato Rocco Ricciardi e dell’assassino Marco Barbone. Così sentenziando hanno trascurato nette pronunce delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione sulla non responsabilità del giornalista per le affermazioni dell’intervistato, sostenendo anche che il giornalista avrebbe dovuto intervistare il generale Ruffino per dargli modo di smentire la nuova versione dei fatti. Insomma i giudici hanno preteso di insegnare come si fa informazione e giornalismo cerchiobottista.
La sentenza di condanna di Magosso è profondamente sbagliata per quanto riguarda il diritto di cronaca che deve essere tutelato e garantito, ma è farisaica per il merito della questione che viene risolto accettando acriticamente le versioni ufficiali e non prendendo in considerazione innegabili fatti nuovi. Così non cogliendo anche l’opportunità di rimuovere troppi veli che ancora sembrano coprire la completa chiarificazione del caso Tobagi.
La Cassazione ha l’opportunità di correggere tutto ciò, riaffermando anche i sacri principi di libertà.
Franco Corleone
Siamo di fronte a una situazione surreale. La riunione prevista da tempo con le associazioni di volontariato e la Direzione del Carcere, è stata disertata dai responsabili dell’Amministrazione Penitenziaria.
Il Direttore di Sollicciano, dott. Oreste Cacurri è stato collocato in ferie forzate per 45 giorni per il rispetto di circolari burocratiche, in un momento così grave per il carcere. E’ stato presente alla riunione il dott. Francesco Salemi, commissario responsabile della Polizia Penitenziaria, che però non aveva deleghe per assumere impegni sulle richieste contenute nel “piano” per il carcere, illustrato ieri in conferenza stampa e frutto di un lavoro collettivo di chi opera nel carcere per impegno civile.
Sono preoccupato che in un momento di così grave emergenza il carcere di Sollicciano sia decapitato per la mancanza di un direttore.
L’impegno mio e delle associazioni presenti è di avere comunque l’indicazione di chi è l’interlocutore da qui alla fine dell’anno.
Certo il 2011 si annuncia non certamente bene.
Ordinanza antidroga: “Provvedimento sgangherato, getta il ridicolo sulla città”
Duro attacco di Franco Corleone, segretario del Forum droghe, contro la misura voluta dal sindaco, bollata come “propaganda”. Hassan Bassi: “Dopo Bonsu è il caso di affidare ai vigili un tema delicato come questo?”
di RAFFAELE CASTAGNO
Franco Corleone, già sottosegretario alla Giustizia dal 1996 al 2001, promotore di diverse leggi per il miglioramento della condizioni dei detenuti negli istituti di pena non fa sconti alla discussa ordinanza emanata dal sindaco Pietro Vignali per contrastare lo spaccio (LEGGI). Il segretario del Forum droghe, alla conferenza stampa indetta dai Verdi, parte subito all’attacco: “E’ tempo di fare qualcosa, perché l’ignoranza si è diffusa in questa città. I cittadini dovrebbero sentirsi offesi da un’ordinanza fatta per fare propaganda. Fare immaginare che si risolvano problemi complessi con frasi fatte è pericoloso”.
Corleone è entrato nel merito del provvedimento, che definisce “sgangherato, anche in rapporto al decreto Maroni”. A suo giudizio la misure volute dal ministro dell’Interno prevedono che il sindaco possa intervenire e contrastare situazioni di degrado urbano che possono favorire fenomeni criminali. Secondo Corleone non è in alcun modo sanzionabile il consumo. Anche il prefetto, nella conferenza stampa di venerdì 17, dove è stato illustrato il provvedimento, aveva parlato di rimodulare l’ordinanza in questo senso (LEGGI ).
Sanzioni che per altro sono già previste dalla legge n.309 (la Giovanardi) “la più severa d’Europa” dice Corleone, che già contempla reati penali e ammende per chi spaccia, con pene da 6 a 20 anni di reclusione per i casi più gravi, e da 1 a 6 nelle circostanze più lievi. La legge però non prevede multe per chi consuma, bensì sanzioni amministrative, quali il ritiro della patente, del passaporto, e nel caso di soggetti recidivi, obbligo di firma in caserma.
I dubbi investono anche l’effettiva applicabilità della norma, nonché il ruolo della municipale. Hassan Bassi, del Forum droghe, si chiede “se dopo il caso Bonsu sia il caso di affidare ai vigili un tema così delicato”, mentre Corleone fa notare che gli agenti potranno fare ben poco. “Se si ha a che fare con uno spacciatore con un chilo di eroina, bisogna avvertire la polizia. Per un ragazzo che fuma uno spinello i vigili possono intervenire, ma devono segnalare al prefetto, che potrà procedere alla sanzione dopo i controlli tossicologici sulla sostanza. Se si metterà in atto questa demenziale ordinanza – continua – la municipale per fare multe dovrà comunque dotarsi di attrezzature adeguate, per appurare di che sostanza si tratti”. Ma c’è anche un altro problema, visto che già esiste una legge nazionale: “Le doppie sanzioni non sono possibili. Il provvedimento contrasta con la legge in vigore che non prevede multe per chi consuma. Non si capisce che cosa dovrebbe fare la municipale. Immaginate se i giovani si mettono a spacciare tè verde od origano per scherzo”.
Corleone riconosce la pericolosità delle sostanze stupefacenti: “Non sono innocue, ma una politica di repressione danneggia più dell’uso delle stesse”. L’ex sottosegretario ripete spesso un termine: serietà. “Qui – afferma – siamo alla farsa, alla pseudo città etica, che poi parlare di Parma come città etica fa ridere. Si spacciano per verità cose che non sono tali, figlie di uno scientismo di quart’ordine”. La questione dell’abuso di droga va affrontato con seminari di studi e lavoro, da attivarsi a livello regionale a cominciare dal problema delle carceri, sovraffollate proprio da reati legati al piccolo spaccio. Bisogna puntare sulla riduzione del rischio. Suggerimenti accolti dalla consigliera regionale dei Verdi Gabriella Meo, che si impegnerà in Regione per mantenere alta l’attenzione sul tema. “L’ordinanza – conclude Corleone – contrariamente a quanto enuncia, divide la città, perché stigmatizzando i giovani la spacca. Un provvedimento che getta il ridicolo sulla figura del sindaco e su Parma”.
(Da Repubblica.it Parma.)
Per Franco Corleone, garante dei diritti dei detenuti di Firenze, ”il taglio è l’ultimo sfregio. La situazione può risolversi con poco: gli insegnanti sono pagati dalle scuole e non sono neppure precari”
Firenze, 14 settembre 2010 – Anche i detenuti di Sollicciano sono al centro dei problemi causati dai ‘tagli alla scuola’. Infatti, rispetto allo scorso anno, non sono state riattivate 5 classi secondarie di secondo grado: l’unica è una quinta. Il taglio riguarda un centinaio di detenuti che non potranno più accedere alle classi. La situazione è stata illustrata in una conferenza stampa nel penitenziario, alla presenza del direttore di Sollicciano, Oreste Cacurri.
Lo scorso anno tra i corsi della scuola primaria (a Sollicciano e all’istituto ‘Gozzini’), l’istruzione secondaria di primo grado (due classi nel 2009, di cui una tagliata nel 2010) e le superiori sono stati coinvolti 560 detenuti e due persone, un uomo e una donna (la prima a Sollicciano), si sono anche diplomate. ”Il Governo taglia 3 miliardi in tre anni – ha detto Rosa De Pasquale, parlamentare del Pd -, ma lascia il coltello in mano a chi amministra l’istruzione in modo periferico”. Per Franco Corleone, garante dei diritti dei detenuti di Firenze, ”il taglio è l’ultimo sfregio. La situazione può risolversi con poco: gli insegnanti sono pagati dalle scuole e non sono neppure precari”.
Il direttore Cacurri dichiara di essere ”preoccupato dei tagli alle classi dell’istituto penitenziario” e della situazione, che influisce anche sulla sicurezza. Venerdì ci sarà un incontro con l’Ufficio scolastico regionale. ”La Provincia – ha detto
l’assessore provinciale Giovanni Di Fede – è disponibile ad accogliere richieste per materiali e strumenti per la scuola”.
Sollicciano è sovraffollato, più di 1.000 i detenuti
”Ieri i detenuti erano 1013, oggi siamo sulla stessa cifra. Da tempo ormai superiamo le mille unità, con problemi molto seri anche per quanto attiene la carenza di personale”. Questa la dichiarazione del direttore del carcere a margine dell’incontro sul taglio delle classi scolastiche all’interno dell’istituto. La capienza regolamentare del penitenziario è di 476 detenuti.
”Il personale qui fa sforzi sovrumani – ha aggiunto Cacurri -. Il sovraffollamento è certamente una questione di carattere nazionale e va risolto: non dipende da questo o da quell’altro Governo, ormai dura da tempo, da anni”. Franco Corleone in merito alla possibilità di intraprendere uno sciopero della fame per denunciare il sovraffollamento, ha spiegato: ”Sto valutando cosa fare perché la situazione è fuori controllo, è drammatica. Il mio appello è di far uscire al più presto un numero significativo di tossicodipendenti e pensare anche a misure alternative, magari per quelle persone che sono all’ultimo mese di detenzione. La situazione è esplosiva – ha concluso – e occorrono interventi straordinari: tutti pensano che non sia grave perché non ci sono state ancora proteste”.
Da la Nazione.