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In ricordo di Carlo Maria Martini

La morte di Carlo Maria Martini unisce nel dolore credenti e non credenti.

Martini è stato il cardinale di Milano: un grande cardinale che ha fatto del dialogo con la città la cifra di una pratica costante.

Molti ricordano oggi la sua figura di gesuita, di studioso della Bibbia, di protagonista del dibattito nella Chiesa su posizioni di apertura culturale che sarebbe riduttivo definire progressiste.

Io amo ricordare la sua attenzione al mondo del carcere e il suo rapporto con San Vittore, il carcere della città, la sua strenua difesa della legge Gozzini quando fu travolta dalla logica emergenziale agli inizi degli anni novanta.

Pochi ricordano che il cardinale Martini fu interlocutore sensibile di alcuni protagonisti della lotta armata che scelsero l’Arcivescovado come luogo per consegnare le proprie armi.

Nel suo acuto volume sulla Giustizia il cardinale Martini affrontò il nodo del senso della pena e del significato delle misure alternative con profondità e originalità di pensiero. Parole davvero degne di un nuovo Beccaria!

Spero davvero che lunedì nel momento dei funerali di Martini nelle carceri italiane si ricordi con amicizia e gratitudine la sua figura.

Nonostante la malattia continuava ad essere presente nelle coscienze più sensibili e l’ultima sua lezione è stata la scelta di una morte umana e religiosa.

Sarebbe stato un grande Papa, capace di immaginare un nuovo Concilio.

Peccato.

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Un altro morto a Sollicciano!

Rhee He Cheung, detenuto coreano, aveva chiesto il trasferimento a Roma in aprile per poter avere dei colloqui con i parenti attraverso l’Ambasciata Coreana.

In giugno, dopo una visita del mio ufficio al signor Rhee, ho sollecitato il Dap per il suo trasferimento a Roma. Purtroppo non ho avuto risposta e il signor Rhee He Cheung, ha iniziato uno sciopero della fame, ha poi tentato il suicidio e cadendo ha battuto la testa,  è entrato in coma ed è morto.

Se la direzione del carcere avesse preso sul serio la richiesta  del signor Rhee He Cheung e avesse affrontato con i volontari e con il Garante la questione, questa tragedia non si sarebbe verificata.

Ho inviato una lettera al Capo del Dap, per denunciare questo ennesimo episodio di trascuratezza che deve interrogare le coscienze e prendere un impegno perché sia davvero l’ultima morte, che non può essere rubricata come frutto del caso.

Franco Corleone
Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze

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Sulle carceri Severino non fa la cosa giusta

Ogni giorno un nuovo morto nelle carceri e le risposte del Governo sono il silenzio. La Ministra Severino visita le carceri ma non fa l’unica cosa che dovrebbe fare: proporre un decreto legge per eliminare le norme più odiose della legge Giovanardi sulle droghe, che causano la carcerazione di metà dei detenuti presenti. Il testo è quello della proposta di legge dell’onorevole Cavallaro, (n. 4871) e quello della proposta dei senatori Ferrante e Della Seta (n. 2798).

Se si vuole onorare l’impegno anche su questo argomento del Consigliere Loris D’Ambrosio, bisogna agire immediatamente. Lo strumento del decreto legge è più che legittimo di fronte ad una strage di legalità e a una situazione di prepotente urgenza, come ha affermato il Presidente Napolitano.

D’altronde la legge Giovanardi senza alcun fondamento giuridico e con un colpo di mano costituzionale fu approvata con un  decreto legge e con un doppio voto di fiducia.

Quindi la strada è indicata per ridurre le pene per i fatti di lieve entità riguardo la detenzione di sostanze stupefacenti e impedire così l’ingresso in carcere di migliaia di consumatori, di tossicodipendenti, di piccoli spacciatori di canapa e di coltivatori di una piantina di marijuana.

Franco Corleone
Coordinatore nazionale dei Garanti dei detenuti

 

 

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In ricordo di Loris D’Ambrosio

Sono sconvolto per l’improvvisa morte di Loris D’Ambrosio, che ho conosciuto e apprezzato durante i cinque anni di sottosegretario alla giustizia, dal 1996 al 2001, in cui ricopriva l’incarico di capo di gabinetto dei ministri succedutisi in quegli anni.

In anni recenti ho avuto rapporti con D’Ambrosio per la questione dell’istituto della grazia e recentemente l’ho incontrato al Quirinale nell’incontro che i garanti dei detenuti hanno avuto con il presidente Napolitano. In quell’occasione fu interlocutore partecipe, sagace e interessato alle soluzioni possibili per superare il sovraffollamento delle carceri.

E’ una perdita grave per la magistratura, per il presidente Napolitano e anche per chi si augura soluzioni coraggiose per le carceri.

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Le chiacchere stanno a zero.

Comunicato Stampa
Le chiacchere stanno a zero. Subito un decreto legge per cambiare la legge sulla droga, e subito l’amnistia per i fatti di lieve entità.

I detenuti in quasi tutte le carceri italiane hanno preso la parola in modo civile e non violento per denunciare le insopportabili condizioni di vita e la situazione di illegalità nelle carceri.
Dignità e decenza della politica obbligano a una risposta.
E’ da irresponsabili confidare sul senso di responsabilità infinito sulla protesta pacifica illimitata.
La ministra Severino evoca il ricorso a misure alternative in un modo assolutamente rituale e senza prospettive concrete e incisive.
Il Coordinamento dei Garanti ha denunciato da tempo che la responsabilità del sovraffollamento è determinata dalla legge Giovanardi sulle droghe che provoca ingressi e presenze in carcere di consumatori, piccoli spacciatori e tossicodipendenti nella misura di oltre il 50% dei detenuti.
Per questo i Garanti chiedono un provvedimento immediato per cambiare le norme più repressive e quelle che impediscono gli affidamenti terapeutici ai tossicodipendenti sulla base della proposta Cavallaro alla Camera e Ferrante della Seta al Senato e contestualmente un’amnistia per i fatti relativi al V comma dell’art. 73 sulla detenzione di sostanze stupefacenti del D.P.R. 309/90.
Il Governo deve sentire la responsabilità di rispondere a questa richiesta tenendo conto che nel 2006 fu approvata la svolta proibizionista con un decreto legge senza urgenza mentre oggi le condizioni di necessità sono assolutamente drammatiche.

Franco Corleone
Coordinatore nazionale dei Garanti dei detenuti

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In Italia una trentina di Garanti dei detenuti… ma sono “sentinelle senza poteri”

Una trentina i garanti dei detenuti in Italia, più al Centro Nord che al Sud. Milano e Udine saranno i prossimi a essere nominati. Manca una figura nazionale. Corleone: “Presenza evita che ci siano scontri o rivolte”.

Sono una trentina i garanti dei diritti dei detenuti in Italia. Una presenza radicata al Centro Nord, meno al Sud dove solo le Regioni Sicilia, Puglia e Campania hanno nominato il garante regionale, mentre tra i Comuni troviamo solo Reggio Calabria e due città della Sardegna, Nuoro e Sassari.
Prossimi alla nomina anche Milano e Udine. “Ma non si tratta più di una sperimentazione” assicura Franco Corleone, garante dei detenuti a Firenze e coordinatore nazionale dei garanti. Sì, perché a Roma il primo garante è stato nominato 9 anni fa, seguito a un anno di distanza da quello di Firenze. Bologna è arrivata poco dopo. “Quello che manca però – continua Corleone – è l’organo di governo nazionale”. Un aspetto su cui l’Italia è inadempiente e per il quale esiste un disegno di legge fermo in Parlamento da almeno 2 legislature.
“Quasi tutti i Paesi europei hanno nominato il garante nazionale – prosegue – ed è una figura importante perché oltre a relazionare al Parlamento, può proporre modifiche di legge che vanno al di là delle singole criticità territoriali”.
L’esperienza è, quindi, complessivamente positiva secondo Corleone. “Siamo sentinelle senza poteri reali che hanno però la capacità di tenere viva l’attenzione sul carcere – afferma. E in un momento così difficile per il carcere in Italia, la nostra presenza oltre ad assicurare che i diritti dei detenuti siano salvaguardati e a sollecitare le istituzioni di riferimento sulle condizioni all’interno degli istituti, evitano che non ci siano scontri nonostante le condizioni pesanti”.
Nonostante in Italia manchi il garante nazionale (previsto tra l’altro dal Protocollo aggiuntivo della Convenzione di New York sulla tortura che il nostro Paese non ha ratificato), i garanti hanno creato un comitato per coordinare a livello nazionale le loro attività.
“Anche se esistono molte differenze a seconda delle dimensioni del carcere o della città in cui si trova – spiega Corleone – i problemi di fondo sono simili e nelle riunioni di coordinamento cerchiamo di fare valutazioni comuni sulle necessità del carcere”.
Su altre questioni i diversi garanti non hanno una visione comune. È il caso dell’amnistia rispetto alla quale però sono riusciti a trovare un accordo sulla riforma della legge sulle droghe, in particolare il comma 5 dell’articolo 73 che prevede il carcere per la detenzione di sostanze stupefacenti. “Condividiamo la proposta di legge presentata dai deputati Cavallaro alla Camera e dai senatori Ferrante e Della Seta che prevede l’amnistia in caso di fatti di lieve entità: una modifica che potrebbe incidere sensibilmente sul sovraffollamento delle carceri”.
Un altro tema su cui stanno lavorando è il principio di territorialità della pena. Vedono con favore la nuova circolare del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria che prevede un sistema di sorveglianza dinamica per detenuti ritenuti non pericolosi. “Un sistema a celle aperte – spiega Corleone – anche se rischiano di essere una burla se poi non ci sono risorse per attività da fare con i detenuti”.

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I detenuti di Sollicciano prendono la parola

Ho ricevuto dai rappresentanti della Commissione detenuti del carcere di Sollicciano, questo documento, che spiega la loro posizione rispetto alla iniziativa nelle carceri dei Radicali e la scelta di attuare una forma di “sciopero di bianco” vista la difficoltà di uno sciopero effettivo del lavoro, che metterebbe in ulteriore difficoltà il carcere e costringerebbe la Direzione a trovare il modo di garantire comunque i servizi essenziali. I detenuti tengono molto al fatto che venga data notizia di questa iniziativa pacifica di denuncia delle condizioni di vita nel carcere e di testimonianza della loro umanità e della loro appartenenza alla società.

Franco Corleone
Coordinatore nazionale dei Garanti dei detenuti

I detenuti di Sollicciano prendono la parola

Dopo una valutazione da parte nostra dell’iniziativa dei Radicali di una mobilitazione di quattro giorni (18-21 luglio) di non violenza, sciopero della fame e del silenzio, all’interno degli istituti penitenziari, per la richiesta di Amnistia, è da noi stata ritenuta poco incisiva, vista la situazione intollerabile e anticostituzionale in cui versano le Carceri.
A tale proposito i Detenuti del carcere di Sollicciano hanno pensato d’integrare l’iniziativa dei Radicali con lo sciopero dei lavoranti, per rimarcare le disastrose situazioni in cui versano le carceri in Italia (mancanza di fondi, sovraffollamento, impossibilità lavorative, negazione all’istruzione, mancanza di fornitura dei prodotti per l’igiene, assistenza sanitaria minimo garantita, ecc…) fra l’indifferenza della politica e della società cosiddetta civile.
Da un incontro con la Direzione dell’Istituto dove portavamo a conoscenza la nostra scelta di sciopero, consapevoli delle difficoltà che tale forma di protesta avrebbe determinato (impossibilità di garantire il vitto, il servizio di pulizie interno ecc…) i detenuti hanno deciso di promuovere una iniziativa alternativa devolvendo il proprio salario (delle 4 giornate del mancato sciopero) alle popolazioni terremotate dell’Emilia. Questa scelta di solidarietà ai terremotati è la risposta di noi Detenuti alle affermazioni negative e offensive (chiamandoci sciacalli) emerse da parte della stessa popolazione terremotata, in occasione della proposta del Ministro Severino ad utilizzare l’impiego dei Detenuti nell’opera di rimozione e ricostruzione delle zone terremotate.

Firenze, 16 luglio 2012

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Marijuana libera, basta ipocrisie

Secondo le statistiche a fumare cannabis sono quattro milioni di italiani. E’ il record europeo. Però la legalizzazione da noi è ancora un tabù e lasciamo questo enorme business miliardario in mano alle mafie. E’ ora di cambiare, no?

Sedici anni. Napoli. E’ finito in manette con 10 euro in tasca: aveva venduto uno spinello a un amichetto. Diciannove anni. Roma. Due tizi si sono fatti un giro in galera: coltivavano, nel diroccato bagno di casa, tre piantine di marijuana a testa. Sono gli ultimi casi di piccolo spaccio da pochi euro. Con tanto di sirene, polizia, giudice, prigione e soldi spesi.

Tre anonimi pizzicati proprio nelle ore in cui Roberto Saviano violava su “l’Espresso” uno dei più cristallizzati tabù made in Italy. E proponeva di legalizzare le droghe leggere per sottrarre miliardi, armi e potere alle mafie. Un grido salito dritto da Gomorra che ha incassato subito l’appoggio di luminari della medicina come Umberto Veronesi, ma che ha anche risvegliato – come tutte le volte – i fantasmi dentro milioni di italiani.

Già. Perché in Italia lo spinello è segreto. Si fa ma non si dice. Guai. Sempre più gente lo fuma. Mamme e papà. Figli e nipoti. Poi mamma sgrida il figlio. E il figlio ruba il fumo a mamma. Ma nessuno lo dice. E così per l’italiano medio vale ancora la regola: canna uguale droga. Pochi sanno che non è più così. E che nel nostro Paese lo spinello è un rito che coinvolge ormai 4 milioni di italiani. Avvocati, medici, notai. Idraulici, camerieri, disoccupati. Studenti e sfaccendati di ogni età e foggia. Sono il popolo radiografato dall’ultimo rapporto Onu, che ha spiegato come l’Italia dello spread alle stelle, in Europa un record ce l’ha: siamo noi quelli che hanno consumato più cannabis nel 2011, ben il 14,5 per cento degli italiani. Di tutte le età. Dai 15 ai 65 anni.

E’ gente che non guadagna certo con la droga, come fa invece la camorra, ma è anche un esercito invisibile che non vuole dare troppo nell’occhio. Che non si dichiara. Che fa di nascosto, compra di nascosto e fuma di nascosto. «Capita un po’ quello che succedeva con i gay negli anni Ottanta, in Italia chi usa cannabis o marijuana ha ancora paura di dirlo. E così nel dibattito sulla legalizzazione delle droghe leggere prevale il fronte del no», spiega l’ex sottosegretario alla Giustizia, Franco Corleone, il primo a depositare alla Camera, già nel 1995, una proposta di legge per la canna libera, con 150 firme di deputati. Una norma che giace ancora lì. «Pochissimi lo ammettono, per cui sensibilizzare l’opinione pubblica diventa difficile». In realtà c’è di tutto nel carnet del fumatore medio.

C’è il ragazzino che fuma con i grandi in famiglia, quello che fa la doppia vita, quello che non lo dice nemmeno agli amici. Li accomuna un fatto. Rischiano per comprare la marijuana e finiscono così per alimentare la criminalità. Tutto per un pregiudizio. Eppure a fare due conti, fra consumo diretto (e quindi tasse che andrebbero allo Stato anziché alle cosche), e risparmio di tempo e denaro fra forze di polizia e carceri stracolme, la legalizzazione dello spinello sarebbe una boccata d’ossigeno anche per i nostri conti in rosso. A spanne, spiega Achille Saletti, presidente di Saman, la rete di comunità fondate da Mauro Rostagno, «porterebbe un introito di almeno un miliardo e mezzo l’anno». Una cifra da capogiro in tempi di spending review e tagli draconiani.

Stando a uno studio della Sapienza firmato da Marco Rossi, poi, si potrebbe far pure meglio: «In Italia il costo del proibizionismo è in media di circa 10 miliardi di euro l’anno», quantifica il docente. Di questi oltre il 50 per cento per la sola cannabis. Ecco che con norme fiscali simili ai tabacchi l’erario guadagnerebbe quasi 4 miliardi l’anno. Non senza regole. Perché, questo i pro-canne lo ammettono, ci sono pure i casi limite. Come Federico, 38 anni, milanese, di mestiere fa l’informatore farmaceutico. Con la valigetta di pelle in fila dal medico della mutua non s’è accorto che quello spinello tutto solo in auto o in veranda, che lo rimetteva al mondo, dice lui, era diventato un cappio: «Ogni santo giorno, rollavo in media otto o nove spinelli», racconta. Troppi. Così s’è presentato al consultorio di Milano e ha chiesto aiuto: «Noi trattiamo soprattutto cocaina, ma il 2 per cento dei casi riguarda la cannabis. Una cifra irrisoria, ma che mette a nudo un aspetto della questione che va tenuto in considerazione. In Italia pochissimi consumatori di droghe leggere ritengono pericoloso il loro comportamento, ma succede che a qualcuno sfugga di mano. Non per ragioni di dipendenza alla sostanza, come nel caso delle droghe pesanti, ma per problemi legati a depressione o disturbi della personalità che il soggetto aveva sottovalutato». Il bello è che, sul piano pratico, la colpa è proprio dell’ipocrisia italiana: «Di quei famosi 4 milioni di italiani che hanno fatto uso di canapa o marijuana, le statistiche dicono che meno dell’1 per cento lo ammette», spiega Saletti. Ecco perché anche chi, come lui, si schiera per lo spinello libero invoca «regole e controlli capillari del mercato».

Anche perché nel sistema-marijuana c’è un baco silenzioso che finora è stato sottovalutato: gli Ogm. «Da qualche anno molta della marijuana e cannabis che circola non ha più nulla a che vedere con le piantine che conoscevamo. Oggi gli esperti hanno individuato 115 specie Ogm. Senza un controllo serrato della coltivazione, non sappiamo cosa stiamo assumendo», aggiunge. Con qualche rischio, visto che in alcuni casi le versioni “mostruose” hanno effetti diversi dai progenitori naturali.

«La liberalizzazione porta dunque un vantaggio economico e contrasta la criminalità, ma deve avere dei paletti proprio come è stato per l’alcol, quando s’è vietata la produzione di liquori con gradazioni troppo alte». Ma l’Italia è ben lontana da questo traguardo. Addirittura il monito della Commissione globale per le politiche sulla droga, di cui fanno parte Kofi Annan e numerosi ex capi di Stato, che ha esortato – come Saviano – i governi a perseguire la via della legalizzazione delle droghe leggere perché «si indebolisca almeno la criminalità organizzata», in Italia rimane inascoltato.

Mentre la mafia si arricchisce, «ogni anno le segnalazioni ai prefetti sono circa 50 mila, il 68 per cento per gli spinelli. Vuol dire, dal 1990 a oggi, oltre un milione di italiani pizzicati», denuncia il Forumdroghe nel Libro bianco 2012. Per non parlare delle carceri che esplodono: «Il 38 per cento dei detenuti è dietro le sbarre per possesso di stupefacenti e, di questi, il 70 per cento per l’uso di cannabis e marijuana. Se si aggiungono i tossicodipendenti dentro per altri reati superiamo il 50 per cento della popolazione carceraria».

E così finisce come a Osoppo, una cittadina abbarbicata sulle montagne della Carnia, in Friuli, dove sta andando in scena un processo che ha dell’incredibile. L’imputato è il Rototom, il festival di musica reggae più famoso d’Europa. Il capo della locale Procura ha mandato alla sbarra Filippo Giunta, patron della manifestazione, che portava su quelle montagne 150 mila persone da tutta Europa. L’accusa? Il parco del Rivellino dove cantò Bob Marley e ballarono i miti del culto rasta va considerato, secondo i pm, un “locale pubblico”. E quel popolo reggae salito lassù per ascoltare i ritmi del tamburi, un branco di spacciatori “protetto”, appunto, dagli organizzatori del Rototom. Per ora l’unico effetto è stato che il festival s’è trasferito in Spagna, dove ha trovato sponsor e appoggio da governi locali e polizia. Decine di migliaia di giovani partono dall’Italia. Molti sono gli stessi che hanno partecipato alla “Milion Marijuana March” di Roma, che lo scorso anno ha coinvolto oltre 50 mila persone. In Italia la mente della marcia di protesta contro il “neoproibizionismo” è Alessandro Buccolieri. Gli amici lo chiamano Mefisto e lui sta già lavorando all’edizione 2013. Con una novità: basta parate, ci sarà un grande evento-concerto sullo stile del primo maggio e una passerella di vip e artisti di fama mondiale, che stanno già aderendo.

L’obiettivo: «Aprire davvero il dibattito sulla legalizzazione della cannabis in Italia: stop alla persecuzione dei consumatori, sì al diritto alla coltivazione di una specie, che è un patrimonio dell’umanità e uso terapeutico in tutto il Paese».Proprio come in Toscana, che non sembra nemmeno Italia. E’ stata la prima regione, un paio di mesi fa, ad autorizzare la cannabis contro il dolore. E la polemica è esplosa. E se è vero che fu l’ex ministro Livia Turco, già nel 2007, ad aprire quella strada, è anche vero che i pazienti che hanno chiesto di farne uso in altre regioni sono finiti stritolati dalla burocrazia. Liste di attesa interminabili, ordinazioni di farmaci all’estero con tempi biblici, iter stremanti. Tanto che mentre il professor Felicino Debernardi, primario dell’istituto anti-tumori di Candiolo, all’avanguardia nelle terapie antidolore, ha auspicato come Veronesi che l’Italia apra alla cannabis, le statistiche raccontano un Paese lontano anni luce da quel modello. Dove l’associazione Pic Pazienti Impazienti Canapa denuncia le sofferenze dei malati che, in altri Paesi della Ue, sono già trattati con la cannabis e qui non trovano ascolto.

E pensare che perfino un super-proibizionista bacchettone come Carlo Giovanardi, quello che da sottosegretario voleva rendere obbligatori i test antidroga per i conduttori Rai, è finito in contraddizione. Mentre inveiva contro canne e spinelli, il “suo” dipartimento per le Politiche antidroga pubblicava una Bibbia proibizionista che, dopo una ventina di capitoli a senso unico, doveva prendere atto che la marijuana era utile per la sclerosi multipla e le terapie chemio. Tutte cure che, se affrontate con farmaci chimichi, costerebbero circa 3.600 euro al mese per ogni paziente, mentre nei Paesi dove la coltivazione è consentita non superano i 250 euro ciascuno. E l’elenco potrebbe continuare. Con le contraddizioni tipiche del nostro sistema. Come la storia di Fabrizio, un malato di Chieti che aveva ottenuto il permesso di importare cannabis per fini terapeutici, ma non aveva i soldi per potersi pagare il Bedrocam, un farmaco a base di cannaboidi. E così ha deciso di coltivarseli. Ma è finito in carcere e ora rischia vent’anni.

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Lettera aperta ai garanti, al volontariato, alle associazioni di impegno civile e sociale

Care amiche e cari amici, ho meditato a lungo e con insistenza. Alla fine mi sono convinto, senza incertezze, che non possiamo più continuare ad accettare che di fronte alla tragedia quotidiana che vive il carcere, si persegua una gestione rassegnata e contrassegnata dal tratto della normale amministrazione, quando la situazione è davvero insostenibile e richiede un cambio di passo visibile, una discontinuità profonda. Insomma il tempo è della riforma. Senza incertezze.

In occasione della Festa della Polizia Penitenziaria il Presidente Napolitano è tornato sul tema del sovraffollamento che quasi un anno fa aveva definito di “prepotente urgenza” e ha chiesto al Parlamento e al Governo di superare la paralisi che determina una condizione contro la Costituzione e la legge, attraverso “nuove e coraggiose soluzioni strutturali e gestionali”.

Il Presidente del Senato Schifani annuncia un’altra sessione straordinaria di Palazzo Madama sulle carceri.

Il Presidente della Camera Fini suggerisce la strada della depenalizzazione e la scelta di privilegiare l’adozione di misure alternative.

Di fronte a queste intenzioni tocca a noi, sì a noi, non lasciarle cadere e chiedere decisioni coerenti.

Purtroppo la ministra Severino propone misure modeste come il disegno di legge sulle pene detentive non carcerarie e la messa alla prova e insiste con la scelta di un Piano carcere che prevede programmi di edilizia inutile e dannosa. Carceri nuovi enormi dove non servono e padiglioni brutti e non funzionali,che ad esempio a Rebibbia stravolgerebbe l’opera dell’architetto Lenci.

Le idee non mancano.

1. Ho avuto modo di esprimere con chiarezza, magari ossessiva, al CSM, al Presidente della Repubblica, al ministro Riccardi, ai vertici del Dap che il nodo, il clou, la ragione della bulimia carceraria è determinata dalla legge sulla droga, quella del 1990 aggravata dalla modifica ideologica e ancor più punitiva realizzata con un vulnus costituzionale nel 2006.

E’ questa la legge che provoca il maggiore afflusso in carcere. Il 33% degli ingressi in carcere è relativo alla violazione dell’art. 73 (detenzione e spaccio); nel 2011 ben 22.677 consumatori e piccoli spacciatori sono stati colpiti e una alta percentuale è ristretta per fatti di lieve entità come previsto dal quinto comma ma con pene da uno a sei anni di carcere.

Occorre dunque interrompere il flusso di entrata oltre che liberare dalle catene i tossicodipendenti che rappresentano un’altra alta quota di vittime sull’altare della disumanità dell’ossessione securitaria.

La proposta di legge dell’on. Cavallaro (Atto Camera 4871 del 10.01.12) è lo strumento per affrontare efficacemente la questione. Al Senato lo stesso testo è stato presentato dai senatori Ferrante e Della Seta (Atto Senato 2798 del 28.06.11). Si prevede l’istituzione di un reato autonomo della detenzione di sostanze stupefacenti nella modalità della lieve entità oggi configurata come semplice attenuante con una pena da sei mesi a tre anni che eviterebbe l’ingresso in carcere e la possibilità di misure alternative. L’iter potrebbe essere rapido se queste e le altre norme previste venissero inserite nel disegno di legge governativo già in discussione (Atto Camera 5019).

Marco Pannella invoca da tempo un provvedimento di amnistia come risposta alla crisi della giustizia; le obiezioni contro un provvedimento liquidato sbrigativamente come una inaccettabile clemenza e la asserita assenza di volontà politica ampia (una maggioranza dei due terzi del Parlamento) devono far trovare comunque una risposta.

Mi sento di proporre un provvedimento mirato, cioè una amnistia limitata ai fatti relativi al quinto comma dell’art. 73 del Dpr 309/90 che inciderebbe sulle presenze in carcere e sarebbe contestuale alla modifica della legge.

2. Ho aderito all’Appello per l’introduzione del reato di tortura nel Codice Penale la cui approvazione richiederebbe poco tempo da parte del Parlamento ma avrebbe un grande valore simbolico rispettando la Costituzione e la Convenzione dell’Onu che l’Italia disattende da 25 anni e un senso pratico di ripulsa di una lunga teoria di violenze dello Stato sempre impunite. Questa campagna lanciata da Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone, si deve accompagnare alla ratifica del Protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura (OPCAT). L’Italia ha firmato il Protollo nel 2003 ma non lo ha mai ratificato contrariamente alla quasi totalità dei Paesi dell’Unione Europea. L’Italia non ha quindi alcun rappresentante nell’Organismo di Ginevra che prevede un potere ispettivo a livello globale. La firma del Protocollo obbligherebbe anche l’Italia a istituire la figura del garante nazionale dei diritti dei detenuti ed è una ragione in più per adempiere a un dovere colpevolmente disatteso. Mauro Palma ha scritto al Ministro Terzi per sollecitare una decisione nel gennaio scorso ma nulla si è mosso.

3. Abbiamo chiesto al nuovo Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Giovanni Tamburino di scegliere come priorità l’applicazione del Regolamento del 2000 non solo per migliorare la vivibilità quotidiana nelle carceri ma per indicare la strada maestra della Riforma; attendiamo con fiducia l’istituzione di un Tavolo di confronto e di iniziativa che inizi dall’abbandono della via del cemento.

 

Che fare dunque? Che tipo di mobilitazione va inventata? Confesso di non avere una risposta certa. Per aiutarmi a pensare da domani inizio un digiuno per alcuni giorni, sperando che si formi una catena che veda impegnati garanti e esponenti del volontariato e delle associazioni con l’obiettivo di mettere fine a una violenza silenziosa.

Non possiamo essere corresponsabili, neppure per omissione.

Le prossime ore e i prossimi giorni devono vederci impegnati a trovare forme originali di denuncia  e di proposta. Forse occorre più fantasia, più spregiudicatezza, ma non si può stare fermi e muti neppure un minuto di più.

Franco Corleone

 

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Garanti, appello a Napolitano

Mauro Palma scrive dell’incontro dei Garanti dei detenuti con il Presidente della Repubblica per la rubrica di Fuoriluogo sul Manifesto del 4 maggio 2012.

Non è frequente che un Capo di Stato riceva coloro che con continuità visitano i luoghi di detenzione per ricevere informazioni dirette sulle condizioni a cui sono soggetti coloro che vi sono ristretti, sulle loro connotazioni sociali, sulle possibili azioni da compiere per rendere la pena coerente con quell’idea di reinserimento sociale, molto spesso affermata e altrettanto spesso disattesa.
Non stupisce tuttavia che il Presidente Napolitano abbia incontrato i garanti delle persone private della libertà – quelli eletti su base regionale e il coordinatore di quelli cittadini, Franco Corleone – giacché più volte egli è intervenuto  su questo tema, dimostrando attenzione istituzionale e soprattutto considerando le condizioni carcerarie un parametro fondamentale della qualità della nostra democrazia.
Il 27 aprile scorso il Presidente, in un incontro cordiale e chiaro organizzato dalla garante della Campania Adriana Tocco, ha ricevuto una fotografia diretta di una situazione che permane molto grave e preoccupante.  Il primo punto evidenziato dai garanti è stato, infatti, il perpetrarsi di una situazione ben distante sia dalle previsioni costituzionali per quanto attiene la finalità della pena,sia  dagli obblighi internazionali a prevenire trattamenti e pene che contrastino con la dignità delle persone recluse e sia, infine, dalle stesse previsioni normative del nostro Paese: è emblematico il fatto che già la piena attuazione del Regolamento per il carcere – adottato dodici anni fa e restato sostanzialmente inapplicato – avrebbe effetti di radicale trasformazione della situazione esistente. E questa  è stata, quindi,  la prima necessità evidenziata: l’ immediata attuazione del regolamento quale soluzione a molti problemi di vivibilità.
I garanti erano accompagnati da chi scrive, quale membro italiano del Consiglio europeo per la cooperazione nell’esecuzione penale, e per molti anni presidente del comitato europeo per la prevenzione della tortura. Mio, quindi, è stato il compito di rappresentare al Presidente l’urgenza dell’istituzione di un’autorità indipendente che monitori la privazione della libertà; istituzione possibile attraverso la ratifica di un Protocollo Opzionale delle Nazioni Unite che l’Italia ha firmato e – contrariamente alla grande maggioranza degli altri Paesi europei – non ha mai ratificato.
A tutti è tuttavia noto – ed è stato importante ribadirlo nell’incontro – che, senza un incisivo intervento sul vasto fenomeno della carcerizzazione dei consumatori di droghe e dei tossicodipendenti, le discussioni sulla riduzione del ricorso al carcere rischiano diventare puramente accademiche. Il governo  in quest’ambito è stato inesistente e tale assenza rischia di vanificare le stesse azioni fin qui intraprese sul sovraffollamento. Occorre iniziare a corrodere il moloch delle attuali norme, cominciando almeno con l’aggredire quegli aspetti dell’attuale approccio punitivo alle droghe che determinano carcere – e molto – anche per situazioni e reati di lieve entità. Su questo i numeri delle presenze segnalano un’urgenza che non giustifica indecisioni e rinvii. Questa è la prima tra le altre molte necessità ribadite nell’incontro, di cui ormai tutte le autorità dello Stato, a cominciare dalla più alta, sono state rese edotte. Si resta fiduciosi, ma anche impazienti.