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I miei articoli Le droghe

Ma io insisto: depenalizzare

Articolo di Franco Corleone tratto da Repubblica Salute 31 gennaio 2008

Una guerra per essere dichiarata ha bisogno del consenso dell’opinione pubblica e a questo scopo si ricorre alla propaganda e ai tecnici della disinformazione. La guerra alla droga non si sottrae a questa regola. In particolare la demonizzazione della canapa  negli anni ’30 negli Stati Uniti vide come artefice Harry Aslinger impegnato nella costruzione di un poderoso castello di menzogne che ancora reggono il tabù del proibizionismo.
Nel corso dei decenni sono stati periodicamente spacciati diversi miti sulla marijuana: i due studiosi americani Zimmer e Morgan (Marijuana, miti e fatti, Vallecchi, 2005) ne hanno analizzati ben venti e li hanno sottoposti a una rigorosa analisi rispetto alla loro fondatezza scientifica. Sulla base dell’esame della letteratura mondiale, sono stati smontati uno a uno.
Recentemente è stato rilanciato l’allarme secondo cui la marijuana causerebbe l’insorgere della schizofrenia e per giustificare questo assunto si sostiene che lo spinello di oggi non è più quello degli anni sessanta e sarebbe talmente potente da non poter essere più classificato come droga leggera.
Lester Grinspoon, psichiatra di Harvard e il più autorevole studioso di canapa, contesta la fondatezza che una malattia mentale possa essere provocata da una sostanza come la marijuana. Ricorda anche studi pubblicati addirittura negli anni settanta da prestigiose riviste come Lancet e Nature che si rivelarono errati e imbarazzanti. Grinspoon sostiene invece che persone  avviate a diventare depresse o  schizofreniche usando la marijuana praticano di fatto una sorta di automedicazione.
Chi conosce l’asservimento al potere della scienza, o almeno di molti, troppi scienziati non si stupisce di ricerche che danno ragione al committente, mentre i Rapporti  Roques e Nolin rispettivamente del Ministero della Sanità francese e del Senato canadese confermano la minore pericolosità della canapa rispetto all’alcol e al tabacco.
Veniamo ai dati. L’Osservatorio europeo di Lisbona (Emcdda) fissa il range della potenza dell’erba tra lo 0,6 % di contenuto di Thc in Polonia e il 12,7% dell’Inghilterra, mentre per le produzioni locali in Olanda viene stimato al 17,7%.
La Relazione sullo stato delle tossicodipendenze in Italia diffusa nel 2007 afferma la presenza di un valore medio inferiore al 10%. Siamo dunque ben lontani dall’aumento denunciato di ben venticinque volte!
Non voglio certo negare i rischi che livelli alti di consumo anche di canapa possano provocare. Sostengo però che i danni della repressione penale sono ben maggiori di quelli del consumo della sostanza criminalizzata. Dal 1973 ad oggi più di cinquecentomila persone sono state segnalate all’autorità giudiziaria  per detenzione di canapa e nel 2006 con la nuova legge Fini-Giovanardi il rischio di condanne per spaccio presunto con pene da sei a venti anni di carcere riguarda quasi trentamila persone. Le segnalazioni al prefetto per semplice consumo nel 2006 sono state oltre 55.000 di cui il 75% per marijuana.
Solo la depenalizzazione del consumo di sostanze stupefacenti e la legalizzazione della canapa può liberare la scienza e sconfiggere le concezioni magiche favorendo un confronto non ideologico e non strumentale.

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Agenda

La Carnia si muove, l’elettrodotto si ferma. Esce l’Arco in Cielo.

Un brindisi con vin, pan e salam! Sabato18 marzo alle ore 18 incontro per festeggiare il nuovo numero dell’Arco in Cielo con tutti i collaboratori e i lettori che vorranno essere presenti alla Libreria con Cucina a Cercivento.
E’ già on line in formato pdf il numero 9 de l’Arco in Cielo dedicato ancora al traliccio della Valle del But, ma non solo. Scarica il numero (pdf, 649kb) e il paginone (pdf 361kb).

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Paluzza: i risultati del questionario

Tutti i lettori residenti a Paluzza hanno ricevuto, insieme all’ultimo numero de L’Arco in Cielo, un questionario sui problemi della vita cittadina e sul futuro. Chiediamo a tutti di contribuire con le proprie proposte alla formulazione di un patrimonio di idee utili per chi si candiderà a governare il Comune. Coloro che desiderassero altri questionari da compilare per i propri familiari, possono richiederli presso i centri raccolta indicati e, dopo la compilazione, riconsegnarli nei medesimi centri. Il questionario è terminato il 27 gennaio 2004. Ecco i risultati in formato pdf (264 kb).

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Le carceri Le droghe Rassegna Stampa

Giustizia, l’Ulivo allo specchio

POLITICA O QUASI
Giustizia, l’Ulivo allo specchio

IDA DOMINIJANNI, da il Manifesto del 24 aprile 2001

Fra le cartine di tornasole che si possono scegliere per fare l’analisi chimica della stagione di governo del centrosinistra, quella della giustizia resta una delle più efficaci se non la più efficace. E non solo per il merito delle cose che sono state fatte e di quelle che non si sono fatte o non si sono potute o volute o sapute fare. Ma anche perché più di altri capitoli dell’agenda politica lascia vedere in trasparenza le condizioni peculiari in cui la XIII legislatura e i tre governi dell’Ulivo hanno lavorato. Tre in primo luogo: uno scontro ideologico aspro con il Polo, sull’alternativa fra garantismo a uso dei potenti o a tutela di tutti, e uno scontro più sotterraneo, dentro la maggioranza, fra cultura garantista e cultura panpenalista; uno scarto devastante fra il clamore mediatico sugli aspetti più eclatanti del primo scontro e la povertà di informazione sulle riforme realizzate e sul loro andamento; la crescente subalternità di tutta la politica agli umori dell’opinione pubblica, unita alla difficoltà di rapportarsi a una società troppo segnata, in materia di giustizia e sicurezze, dalle vecchie tare moraliste verso i deboli e lassiste verso i forti e dalle nuove fobie indotte dalla modernizzazione e dalla globalizzazione. Tutte condizioni che, viste a distanza di tempo, renderanno più equo di quanto non sia ora, nel bene e nel male, il giudizio sulle luci e le ombre del quinquennio dell’Ulivo, e che intanto sarebbe bene tenere presenti prima di votare, o non votare, sulla base di spinte puramente identitarie o, peggio, punitive.
Queste coordinate del contesto in cui il centrosinistra ha operato emergono lucidamente nel breve ma prezioso volumetto La giustizia come metafora (edizioni Menabò) che Franco Corleone, sottosegretario uscente alla giustizia, ha pubblicato negli stessi giorni in cui lui stesso, e con lui tutta la pattuglia dei parlamentari garantisti del centrosinistra, restavano fuori dalle candidature per il prossimo parlamento. Il volumetto assumerebbe dunque un valore alquanto noir di testamento, se la pratica che lo attraversa non facesse subito sperare in una prosecuzione extraparlamentare, per così dire, dei fatti e delle intenzioni che lo abitano. Si tratta infatti di una pratica relazionale, esplicitata non solo nella forma del dialogo-intervista di Corleone con Luca Paci, nei tre interventi di Stefano Anastasia, Sandro Margara e Eligio Resta che la commentano e nella prefazione di Piero Ignazi, ma anche nei molti riferimenti di Corleone ad altri protagonisti di una buona politica e di una buona cultura della giustizia di questi anni (Saraceni, Salvato, Senese, Cascini, Ferrajoli, Palombarini, Coiro, Rodotà, Boato, Arnao, il cardinal Martini sul versante carceri, il ministro Veronesi sul versante droghe), ad alcune associazioni che per una buona politica della giustizia non si stancano di lavorare (Antigone, il comitato per i diritti civili delle prostitute, il Forum droghe, il gruppo Abele, la redazione di Fuoriluogo), ad alcuni momenti alti del dibattito (gli Stati generali dei Ds del ’98), e infine ad alcune vittime-simbolo di una cattiva politica della giustizia (Adriano Sofri). Una tessitura di relazioni e di lavoro che la fine dell’esperienza di Corleone a Via Arenula e a Montecitorio non basteranno, oso pensare, a vanificare.
Ma il libro è trasparente anche nell’onestà del bilancio che delinea, fra fatti e omissioni, decisioni prese e insufficienze culturali non colmate, efficienza guadagnata e scelte di fondo rinviate. Corleone rivendica in primo luogo l’investimento, di risorse e di iniziativa legislativa, che sulla giustizia è stato dispiegato dal centrosinistra, dopo decenni di inerzia. All’inizio della legislatura c’era l’annunciata bancarotta della macchina giudiziaria; oggi ci sono il giudice unico di primo grado, le sezioni stralcio per l’arretrato civile, gli organici della magistratura rinsaldati, i tribunali metropolitani, la competenza penale dei giudici di pace, il giusto processo riformato, e ci sarebbe l’unità della giurisdizione se il lavoro della bicamerale non fosse stato mandato a carte quarantotto da Berlusconi. Ci sarebbero anche le riforme della responsabilità disciplinare e del giudizio di professionalità dei magistrati, se le difese corporative della magistratura, alimentate e rafforzate anch’esse da Berlusconi, fossero state meno forti. Così per quanto riguarda l’ordinamento e il funzionamento della macchina. Che non andrà mai a regime tuttavia, sottolinea Corleone e con lui Anastasia, senza quella riforma del codice penale in direzione del penale minimo che sola può lavorare a favore della certezza dei reati e della pena, nonché di quella obbligatorietà dell’azione penale di cui Berlusconi vorrebbe rapidamente disfarsi.
Poi ci sono capitoli ancora più controversi. Il carcere, prima di tutto, sul quale bisogna sempre rifare tutto il discorso da capo: tornare a dire che cosa il carcere è e che cosa non è (“un luogo orribile per sua natura e funzione, un male che pretende di curare quand’invece produce malattia, un rimedio da amministrare contrasparenza e somministrare con prudenza, il problema del cuore della città” e non il luogo della rimozione e dell’emarginazione fuori dalle mura della città), registrare che cosa si è riusciti a migliorare (il nuovo regolamento voluto da Corleone, ma decurtato di quel diritto all’affettività che non ne costituiva un particolare secondario) e che cosa resiste a ogni tentativo illuminato di riforma (leggere per credere la testimonianza di Margara, che non esita a definire genuinamente reazionarie, anche quando abitano la sinistra, queste resistenze). E poi ancora tutte le “questioni di confine” – dalla sicurezza alla legislazione sulle droghe alle questioni di bioetica all’indulto – che sono state e restano paragrafi cruciali del capitolo giustizia: le più sintomatiche di un deficit culturale della sinistra sul banco di prova decisivo della libertà, e sulle quali più necessario sarebbe stato, e non c’è stato, il coraggio di imporre alcune scelte contro il senso comune massmediatico. Si può sperare in una provad’appello: se e solo se, come scrive Eligio Resta, tra politica e cultura il confine tornerà ad essere una linea di comunicazione e non una insormontabile barriera.

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I miei articoli

Concordato e così sia

Franco Corleone per Fuoriluogo, ottobre 1998

Ora che il miracolo di San Gennaro si è ripetuto alla presenza del sindaco Bassolino e di qualche contestatore, si può pacatamente svolgere un ragionamento sulla vicenda del cardinale Giordano? Per mille ragioni non sfiorerò neppure il merito dell’indagine giudiziaria e il tema dell’innocenza o della colpevolezza del presule. Intendo invece concentrare l’attenzione su come questo caso è stato inserito nella incessante querelle sul funzionamento della giustizia. La tentazione di molti di assimilare il caso Giordano a una persecuzione di regime quale quella pretesa di Berlusconi si è dispiegata inizialmente con l’accusa consueta allo “strapotere delle procure”. Ma dopo un autorevole intervento di Gianni Baget Bozzo, che escludeva qualsiasi relazione tra le due vicende giudiziarie, la polemica si è concentrata sulla asserita violazione del Concordato. D’altronde, e non era la prima volta, è stato proprio il cardinale Giordano con estrema arroganza a brandire il Concordato come uno scudo nei confronti della magistratura. Non stupisce che giuristi clericali, o zuavi pontifici come l’on. Giovanardi, abbiano sostenuto zelantemente un tale argomento. È invece sconvolgente trovare arruolati in tale compagnia liberali storici come Nicola Matteucci e l’editorialista del “Foglio”. Ciò conferma quanto la questione giustizia abbia ormai lacerato le coscienze e non consenta di esaminare una vicenda per quello che è. La teoria del complotto e la logica del muro contro muro hanno impedito di apprezzare gli interventi di Prodi e di Flick, cattolici che hanno difeso le ragioni dello Stato e non quelle della Chiesa. Senza dubbio l’Italia degli Ernesto Rossi e dei Piccardi, di Salvemini e di Calamandrei è sempre più dimenticata e un Paese senza memoria e senza radici si ritrova a balbettare perfino sui cardini della legittimità dello Stato laico e della democrazia. Il prossimo 11 febbraio saranno trascorsi settant’anni dalla firma dei Patti Lateranensi tra il cardinal Gasparri e il cavalier Benito Mussolini. Eppure le ombre di quel passato si allungano ancora in modo malsano e tentacolare, se è vero com’è vero che oggi non si levano voci per denunciare gli attacchi alla laicità della società italiana, come invece è accaduto in passato, ad esempio al Convegno degli Amici del Mondo nel 1957. Ma veniamo a esaminare il contenzioso sollevato dal cardinal Giordano e dal Vaticano nella nota di protesta. Tralasciando il richiamo alle prerogative dei cardinali equiparati ai principi di sangue, per nostra fortuna eliminati dalla Costituzione, restano le obiezioni per la spettacolarizzazione della perquisizione (per altro non effettuata), per il non rispetto della Curia vescovile (che avrebbe dovuto esser considerata come un luogo di culto), per la supposta illiceità delle intercettazioni telefoniche a un alto prelato; e, infine, per la mancata comunicazione preventiva all’autorità ecclesiastica competente del procedimento penale. Ebbene, alcuni dei problemi sollevati fanno parte della patologia del nostro sistema giudiziario, ma non c’entrano affatto con il Concordato e i suoi privilegi. Un conto è denunciare la carenza di garanzie per tutti i cittadini e invocare le giuste riforme, e se il caso di un cittadino che si ritiene più uguale degli altri può accelerare le modifiche attese, queste ben vengano comunque; altro è protestare per le supposte violazioni delle norme che regolano i rapporti tra Stato e Stato (anzi, in questa logica, la presa di posizione dell’altra sponda del Tevere, che lamenta alcune disfunzioni della giustizia italiana, si configura a rigore come un’ingerenza nella vita interna dello Stato italiano). Resta da esaminare il punto più scabroso, quello dell’informazione preventiva. Non è questa la sede per un approfondimento tecnico e rimando, per chi fosse interessato, allo studio di Mario Pisani del 1991 dedicato al processo penale nelle modificazioni del Concordato tra Italia e Santa Sede. Basti qui dire che, nel nuovo Concordato del 1984, la comunicazione all’autorità ecclesiastica (destinata a facilitare l’azione disciplinare) non deve essere inoltrata immediatamente, come prevedeva il Concordato del ’29: quindi la previsione dell’art. 129 delle norme di attuazione del nuovo codice di procedura penale del 1989 non è affatto in contrasto con la norma concordataria. Va aggiunto che l’inizio dell’azione penale si colloca nel momento della formulazione dell’imputazione e non nella fase delle indagini preliminari. Vi è da aggiungere che la violazione dell’obbligo non è espressamente sanzionata e non comporta nullità. Di fronte a un quadro così ineccepibile e limpido, si comprende come sia stata semplice e obbligata la risposta del governo italiano nonostante pressioni più o meno lecite. Quel che appare strabiliante è altro. Ad esempio, il silenzio con cui i partiti della maggioranza hanno seguito una vicenda così delicata: solo i Popolari hanno espresso disappunto per la conclusione cui il governo era giunto. Pare che nessuno abbia ben valutato le conseguenze di una ammissione di violazione del Concordato. Si sarebbe verificato, non sul matrimonio o sulla scuola, ma sulla giustizia, sull’attività giurisdizionale, cioè in un campo essenziale per l’affermazione e l’esistenza di uno stato autonomo, la riduzione dell’Italia a Paese a sovranità limitata. Non c’è da illudersi o sperare che qualcuno osi riprendere la battaglia per cancellare l’art. 7 della Costituzione o per abrogare il Concordato. D’altronde, quando Bettino Craxi, per acquisire benemerenze celesti e far dimenticare le tradizioni socialiste, sottoscrisse nel 1984 il nuovo Concordato con il Vaticano, l’opposizione fu condotta da minoranze estreme. Un risveglio di attenzione è urgentissimo. Il caso non è chiuso. Il Vaticano intende rilanciare il confronto con lo Stato italiano. Il cardinale Giordano serve anche a questo. Sul piatto non vi sono solo compensazioni sul terreno insidioso della scuola e della famiglia. Il Segretario di Stato, cardinale Sodano, si è mostrato preciso e determinato nel chiedere privilegi che neppure il Concordato fascista prevedeva. L’assalto sarà tentato all’interno della Commissione paritetica imprudentemente promessa dal governo, perché questo caso non avrebbe dovuto prevedere alcuna ulteriore sede di discussione. La scelta dei rappresentanti della Repubblica italiana è di estrema delicatezza. La delegazione dovrà essere reale controparte di quella vaticana. Una reviviscenza del clericalismo, infatti, metterebbe in pericolo libertà e democrazia.

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I miei articoli Le droghe

Fantasmi nel Palazzo di Vetro. Il pensiero labile dell’ONU sulle droghe

Franco Corleone su Fuoriluogo, luglio 1998

L’assemblea straordinaria delle Nazioni Unite del 9 giugno rimarrà nella storia come un incontro mediatico ben riuscito ma dallo scarso, se non nullo, risultato concreto.

Pino Arlacchi ha avuto l’abilità di richiamare decine di capi di stato e di governo per celebrare un rito di buoni sentimenti, di goffa retorica, di grassa demagogia. Una volta di più la politica, nel consesso più alto, è stata ridotta a fatto meramente virtuale, contraddicendo così il suo significato nobile e profondo per ridurla a gioco di specchi.

Un’occasione sprecata, dunque. Responsabilità che ricade su chi ha rifiutato ogni ipotesi di confronto tra esperienze e opinioni diverse costruendo un teatrino di marionette.

Era davvero imbarazzante assistere alla sfilata di tanti capi di stato, a cominciare da Clinton, che leggevano freddamente una sfilza di luoghi comuni assemblati da mani gelide di funzionari. Una guerra senza passione è destinata alla sconfitta e, d’altronde, Chirac è stato solo a evocare la necessità di una crociata.

Per fortuna, non pochi rappresentanti di nazioni importanti si sono sottratti al clima dominante e precostituito artificialmente e artificiosamente, rivendicando le azioni reali, le scelte quotidianamente compiute nei propri Paesi.

In questo senso, il presidente Romano Prodi ha svolto un ruolo significativo. La rivendicazione dell’autonomia degli stati e del suo rafforzamento, la contestazione della conversione militare e autoritaria delle colture, la dichiarazione di fallimento totale della scelta del carcere per i tossicodipendenti, l’affermazione senza incertezze della politica di riduzione del danno, hanno assunto il sapore, per gli osservatori più attenti, di una linea alternativa, seppure moderata.

Prodi non è stata l’unica voce “stonata” e non è stata una presenza isolata. Infatti i rappresentanti dell’Olanda, della Svizzera, della Nuova Zelanda, del Messico e di molti altri Paesi sono usciti dal coro rigorosamente proibizionista.

Eppure il documento finale adottato, non votato, ricalca pedissequamente, anche se con correzioni attribuibili alla mediazione portoghese, i testi iniziali elaborati a Vienna.

Le modalità di decisione dell’ONU obbligano a una riflessione sul carattere democratico di un’organizzazione che spende il 70% dei suoi fondi per mantenere un apparato burocratico che è sostanzialmente svincolato e avulso dalla volontà, dal controllo e dal dibattito dei parlamenti e dei governi nazionali.

Una tecnostruttura diplomatica astratta e saccente, capace di elaborare brevi frasi dal tono apodittico sull’universo, ma non di concepire un pensiero profondo e originale, non può arrogarsi la responsabilità di individuare soluzioni a questioni così serie, che riguardano la salute e la vita degli individui, e l’economia dei popoli.

Viene anche da chiedersi se la politica di un Paese democratico o dell’Unione Europea possa essere decisa da un’assemblea in cui il peso e la presenza di Paesi con regimi autoritari, militari o totalitari è assai cospicua (per fortuna queste decisioni non hanno carattere vincolante).

Non vi è stato dibattito sui discorsi dei rappresentanti degli stati, né confronto sulle prese di posizione delle delegazioni governative; a maggior ragione, è rimasto sullo sfondo il contenuto del “manifesto dei 500” pubblicato l’8 giugno su due intere pagine del “New York Times”, sottoscritto da personalità di tutto il mondo.

Eppure, l’appello ha agito come “l’ombra di Banco” per tutto il periodo della conferenza. D’altronde, firme come quelle di George Shultz e di Javier Perez de Cuellar non potevano passare inosservate e non fare riflettere lo stesso Kofi Annan, a cui il documento era indirizzato.

L’azione della delegazione del governo, composta dalle ministre Bindi e Turco e da chi scrive in rappresentanza del ministero della Giustizia, proprio per il ruolo giocato e per avere rivendicato l’esistenza di una via italiana, ha suscitate polemiche e proteste da parte di Alleanza Nazionale e in particolare dell’on. Mantovano, ormai in servizio permanente effettivo nella difesa dei valori della famiglia e della “tradizione”.

Un altro fantasma si aggirava all’interno del Palazzo di Vetro a turbare la falsa coscienza di alcuni assatanati giornalisti americani: lei, la marijuana. Sembra quasi che l’oppio e la coca, con la rituale demonizzazione evocatrice del “flagello” per i giovani, in realtà servano da alibi per attaccare il vero nemico, che sarebbe costituito dalla cannabis.

Sarà un tratto del puritanesimo o una conferma della stupidità?

Pino Arlacchi si è affannato a presentare come una novità nella politica dell’ONU la scelta a favore della riduzione della domanda.

Per fortuna ci ha pensato lo zar antidroga degli USA, il generale Barry McCaffrey, a chiarire i reali intendimenti, sparando a zero contro le strategie di riduzione del danno che, a suo dire, “sono diventate un eufemismo per la legalizzazione della droga, una copertura per chi vuole abbassare la soglia di tolleranza verso l’uso di stupefacenti”.

D’altronde lo slogan scelto per la conferenza “Un mondo senza droga” (simile a quello utilizzato per il referendum battuto in Svizzera) ha inequivocabilmente un sapore moralistico che si pone agli antipodi di una concezione laica che rifiuti gli stilemi dello stato etico.

Che cosa insegna questa vicenda all’Italia e all’Europa? Certamente nulla sul piano operativo e dei contenuti, perché il dibattito nei singoli Paesi è assai più articolato e approfondito delle formulette usate nei facili decaloghi dell’UNDCP.

Sul piano simbolico, l’idea che esista e sia confermato un pensiero ufficiale unico, seppure debole, diffuso e dominante è pericolosa. Va contrastata, senza limitarsi alla difesa di spazi ridotti di sopravvivenza.

Occorre trovare un terreno di confronto spregiudicato e un luogo di discussione non ipotecati dalla paura e dal ricatto di essere etichettati come liberalizzatori, amici dei narcotrafficanti o altre infamie.

Non è tempo di agitare, come fece Nikita Krusciov tanti anni fa, una eloquente scarpa, e neppure di irridere alle illusioni in buona fede, ma di darsi un obiettivo puntuale che coinvolga alcuni Paesi europei per cambiare o denunciare le convenzioni, almeno nella parte relativa all’apparato sanzionatorio.

Il ruolo dell’Europa si misura anche dalla capacità di riscrivere le regole dello stato sociale e di ricontrattare alla luce del sole una politica sulle droghe intelligente, rispettosa delle differenze culturali e sociali dei Paesi.

Vi è un aspetto realmente originale nel piano di Arlacchi che non va trascurato. È la dimensione del tempo. Il 2003 e il 2008 sono state indicate come le date per il raggiungimento degli obiettivi. Esse devono costituire la verifica del successo o del fallimento, senza ambiguità.

Se l’operazione di “liberazione dalla droga” fallirà, pur in presenza di un sostegno politico generalizzato e con l’impiego di risorse straordinarie, il fallimento dovrà essere senza appello e si dovrà imboccare finalmente una strada ragionevole.

Giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno occorrerà esercitare un monitoraggio continuo dei risultati e un’analisi dei costi-benefici, per non consentire manipolazioni di sorta.

Arlacchi ha anche detto che la battaglia sarà vinta, quando la droga non sarà più appetibile; si tratta di un’affermazione così vera che forse il limite decennale non basterà. Vi è invece il rischio che perseguendo l’eliminazione delle droghe vegetali, si favorisca il dominio incontrollato dei prodotti chimici, che sempre più si stanno diffondendo nei Paesi sviluppati.

Un’azione che non abbia la presunzione di risolvere un problema una volta per sempre, ma abbia l’umiltà di comprendere e superare le ragioni dei fenomeni sociali avendo fiducia nell’autonomia e nella responsabilità degli individui, è molto più coraggiosa e onesta intellettualmente di chi insegue miraggi prometeici. La carica dei 500 è appena iniziata.